C’era una parete di ghiaccio.
Era liscia e perfetta, bianca, eppure rimandava indietro la
mia figura.
Sentivo freddo.
Mi avvicinai, volevo guardarmi il volto, volevo sapere chi
ero, volevo sapere cosa ero.
Ma più mi avvicinavo più l’immagine riflessa era sfocata, e
sempre meno riuscivo a distinguerne i contorni; presi a correre, volevo
afferrarla, io ero lì, ero lì! Ma fuggivo lontana da me.
Arrivai davanti alla lastra di ghiaccio.
La toccai con la mano: era reale, era fredda.
Avvicinai il volto, volevo sentire il mio respiro caldo,
volevo sapere che c’ero, scoprire chi ero, ma non c’era il mio riflesso, non
esisteva.
Poi mi guardai intorno, e tutto attorno c’erano pareti di
ghiaccio, ero circondata da un’infinità di lastre bianche e lucenti, morte!
E poi lo vidi.
Lo scintillio di uno sguardo –era il mio sguardo!-, una mano
che sistemava dei capelli mori –i miei!-, e lieta mi avvicinai alla lastra.
Allora vidi chi ero, ma non seppi chi ero.
Osservai a lungo il mio viso, colmandomi della mia
fisionomia, qualcosa che mi apparteneva, mia e basta, -da stringere forte al
petto!- e nessuno avrebbe potuto strapparmela.
Poi mi voltai.
Migliaia di occhi identici ai miei mi spiavano dalle pareti
di ghiaccio, e al mio movimento della mancina, migliaia di bracci destri si
alzavano, e fantasmagorici, volevano afferrarmi, volevano strapparmi l’anima
–quella mia anima che già sentivo allontanarsi, e mi privava delle forze, e mi
doleva la testa!
No! Non voglio!
Urlai, perché migliaia di mie gemelle volevano prendere il
mio posto, volevano sostituirmi! Migliaia di braccia gelide e cattive, e io le
sentivo, le sentivo anche se loro erano lontane e imprigionate nelle loro
pareti di ghiaccio, sentivo il loro freddo di morte.
Ma non le sopportavo, no, non sopportavo quelle mie cloni,
quei parti di nessuna madre, quelle figlie delle gelide profondità della terra,
mai mai mai nate.
Mi scagliai follemente verso di loro, e volevo strappare i loro
occhi, ma mentre lo facevo mi si offuscava la vista; e volevo sfigurare i loro
volti –ma era il mio a sanguinare!- calci e pugni mi furono alleati nel
tentativo di distruggerle –ma miriadi di schegge dolorose come le mie unghia si
abbatterono su di me!- e con la ferocia di centinaia di aborti che null’altro
desiderano se non la vita che non hanno avuto, si abbatterono su di me tutte le
lastre di ghiaccio.
Sogni infranti.
Avevano il rumore del vetro.
Le loro urla cristalline mentre si abbattevano su di me,
infrangendosi, godendo del mio dolore come io godevo del loro, soffrendo…
almeno quanto soffrivo io.
Erano migliaia di braccia fredde di fantasmi, creature
irrazionali, impossibili che mi abbracciavano, e volevano trascinarmi giù,
sempre più in basso, con loro.
Il ghiaccio divenne acqua, e l’acqua divenne lago, e il lago
divenne cupo oceano.
E quelle braccia maledette delle mie cloni nate morte mi
trascinavano giù, afferrandomi al collo, alle spalle, con quelle dita che erano
le mie!
E mi guardavano con astio, con follia, con quegli occhi
castani, straordinariamente comuni che mi appartenevano.
Mi accorsi che non c’era aria.
E io non ero come quelle sosia di ghiaccio, io ero io! La
mia personalità umana, diversa, si ribellava con tutta la forza dell’anima a
questo soffocamento, e anelava il respiro.
Innalzai le braccia verso il cielo; ma era l’acqua a
riempirmi i polmoni, e il respiro della morte nera, come gli abissi, mi
spingeva giù.
Respiravo per istinto naturale, e sempre di più sentivo gorgogliare
nella gola irritata l’acqua troppo densa per i miei polmoni, e non riuscivo a
mandarla fuori, e soffocavo, aiuto, soffoco!
Soffoco!
Perché non ci riesco? L’aria è lì sopra, la vedo, annaspo
per raggiungerla, ma sono spinta in basso, non ci sono più braccia no, c’è solo
il laccio tremendo dell’acqua che mi stringe la gola e i polmoni –soffoco!- la
pressione alle orecchie è tremenda, gli occhi mi scoppieranno così!
Il panico mi assale, mentre sento che la mia anima se ne va,
insieme alla consapevolezza, il dolore è atroce, atroce, atroce… ma il dolore
esiste ancora? Vedo solo nero inchiostro denso attorno a me, la testa è
pesante, ma io… io… non… esisto… più…
Non è brutto morire.
L’acqua gelida che mi invadeva i polmoni, perforandoli e
rendendo uno strazio ogni tentato respiro.
Il giogo sempre più stretto e feroce che minacciava di
spezzarmi il collo.
Dove sono, dove sono? Dov’è il dolore?
Non sento più nulla. Io non sono più nulla.
Soltanto le onde mi cullano, quiete e materne, braccia amate
che innalzano a me la loro ninna nanna dolce.
E poi all’improvviso ho di nuovo coscienza di me, e so che
io esisto, perché sento il sole che mi carezza il volto, benevolo –dolce- e
sento l’oceano scorrere sotto di me, cullarmi ancora, ancora un po’.
Poi dischiudo gli occhi, e li vedo, attorno a me.
Sono migliaia.
Sono come me.
Sono migliaia di cadaveri, i cadaveri delle mie gemelle, che
fluttuano di sinistro biancore a fianco a me, e io mi avvicino e le guardo nel
volto, perché loro non possono essere me –non possono essere me!-.
Orrore.
I suoi occhi di morta che mi fissano sbarrati sono i miei,
ma il suo viso non è il mio!
E lei, lei che ha la stessa esatta forma delle mie labbra,
rese viola dal gelo, lei non sono io!
I miei capelli, il mio naso, le mie mani, le mie gemelle!
E poi è arrivata la rivelazione, te la ricordi, vero?
Ti ricordi quando il cielo azzurro è diventato nero e
tempestoso, e vorticava, vorticava minaccioso, e aveva luminescenze sinistre di
lampi.
Era il male?
Io avevo paura, perché sentivo il male, lo avvertivo e la
mia anima era inquieta e si ribellava a lui, ma poi lo scorsi negli occhi di
uno dei cadaveri, e seppi che il male era dentro di me, era fuori di me: il mio
male, ero io.
Lo seppi con una certezza assordante eppure muta,
rabbrividii in un ultimo fremito di vita.
Avevo fallito.
Avevo sempre fallito, tutta la mia esistenza.
Avevo sperato di essere diversa, migliore o peggiore, ma
comunque sempre diversa.
Ma le larve mie compagne di naufragio erano la dimostrazione
del mio fallimento, loro erano me ed erano diverse da me.
Tutti mi avevano sempre guardato come parte della massa, e
lo scoprii come se il sangue delle mie vene si fosse ghiacciato in un ultimo
spasmo di rifiuto.
Io non sono nessuno.
Io sono come tutti gli altri.
L’ultimo battito del mio cuore fu il più pesante di tutti,
fu il rintocco di una campana antica che precipita morente insieme al suo
campanile caduto.
Mi sembrava seducente seta orientale adesso, l’acqua in cui volevo
annegare e perdermi per sempre, seta blu misteriosa che mi chiamava a sé, e io
non avevo voglia alcuna di rifiutarmi.
Seta blu, bella e fredda come una mattina d’inverno.
Il fulmine tendeva dall’alto le sue scheletriche braccia a
prendermi, voleva strapparmi al mio letto di seta e portarmi nuovamente verso
l’alto, alla vita, alla luminosa, gloriosa vita!
La vita.
Cos’è la vita? Cosa, se non un susseguirsi di false idee e
speranze fino al giorno che ti accorgi di essere solo? Di essere fittizio come
il tuo aspetto?
La morte.
Dolce, dolce compagna dispensatrice di oblio, ora che ho
scoperto cosa sono, ora che so di non essere, mai più voglio separarmi dal tuo
abbraccio amoroso, dal profumo di droga antica.
Fulmine, padre di tutti gli dei, vuoi riportarmi da voi
vivi?
Ma io sorrido, con le labbra violacee e gonfie che già mi
sta donando la mia amante, perché tu, o scheletrico fulmine, sei sempre
riuscito a riportare alla terra chi volevi.
Ma non io.
Io sono morta, io che credevo di essere la protagonista di
qualcosa, sono solo una delle migliaia di cloni non nate che mi affiorano
accanto.
Ma io sono tra quelle che non desiderano più una vita, mai
stata loro.
Io sono tra quelle che sprofondano nell’abisso profondo del
sonno dell’anima e della ragione, verso l’impossibilità di un oceano senza
fondo, dove riposano di eterna inquietudine le cose morte che anelano a vivere.
Adesso lo so.
Io sono solo un riflesso di qualcuno, io sono in una parete
di ghiaccio, come loro tutte.
Io sono morta.
Visione dettata da un brevissimo attimo di infinito
sconforto… tanto vale cogliere l’attimo e ricavarci qualcosa che lo esprima. Spero
che vi abbia espresso qualcosa.