Produzione di allucinogeni Esther Duncan: Three Hundred Thousand.

di Gatto Magro
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Sfila sul marciapiede spostando il peso da un piede all’altro, e dondola, e perde l’equilibrio, sfiora con un angolo dei sandali di plastica un sacco dell’immondizia, che protesta con un fiacco sussurro sintetico, le collane scivolano dal suo petto e ciondolano nel vuoto, le catene e le perline di vetro finto si contendono gli spicchi di luce rubati a qualche sporadico lampione o ad una finestra, i bracciali scivolano sulla pelle quando solleva le braccia in un passo di danza complicato come uno starnuto, tintinnano su e giù, brevemente, poi il suono si soffoca incontrando le maniche della felpa, aperta con distrazione le scopre le spalle e le fa da vela accogliendo lo stanco vento che spira fra i vicoli strizzati fra mattoni viola e infissi scardinati, e la sua felpa è sporca di salsa e fango e fuliggine e erba e nebbia sui polsini lisi e sul petto, la sua felpa è sporca un po’ ovunque se si guarda con più attenzione, di polvere e cibo e colori della strada, ma sono macchie leggere, macchie aggraziate e personali, non unte, dipinte dal gioco o dalla fame o dalla corsa, e la sua felpa ha le maniche larghe come un mantello – come un mantello ondeggia alle sue spalle – e le ragazze di Downtown non se la metterebbero per quei colori male accostati e per le fantasie stravaganti da eroi di fumetti e pop-art vecchia maniera, per quelle macchie di leopardo e per quella cerniera di plastica viola; alle ragazze di Downtown piace guardarla solo per un secondo, poi distolgono lo sguardo prima che qualcuno se ne accorga, alle ragazze di Downtown resta solo il suono dei sonaglini appesi alle sue caviglie, che svanisce dolce dietro la bancarella del pesce al venerdì; ai ragazzi di Downtown piacciono i suoi pantaloni stretti e la cucitura che attraversa il culo giusto come una carezza, le unghie irregolari e i graffi che lascerebbero sotto le loro camicie, la delicate dita dei piedi scalzi, irritata dagli anelli di metallo ossidato, le punte biondastre dei capelli opachi, duri come corda e liberi come vento – i ragazzi di Downtown vorrebbero un bacio sulla pancia da quelle labbra, e più giù, in un vicolo fra Norfolk e la scuola superiore e poi vorrebbero…
 
Vapori di cucina e fumo dai comignoli, un gatto dagli occhi gialli e ombre sui mattoni, una donna urla ma la sua voce è coperta dal fragore metallico delle saracinesche che si chiudono, si chiudono al suo passaggio, vattene via Daker,la strada scompare davanti ai suoi passi, muoiono i colori come si aumentano i contrasti di un’immagine, la sua ombra languisce sul marciapiede e il suono dei suoi campanellini si fa lontano e attutito e disperso
 
Il mare si gonfia e sputa sulla riva scura alghe, reti, molluschi morti e rifiuti della città. La sabbia arrossa ancora di più la sua pelle, sfregata dagli anelli attorno alle dita. Lasciano un’impronta tossica e bluastra, sotto. I suoi shorts di jeans e la canottiera nera non sono abbastanza per affrontare gli stralci persistenti di inverno; l’aria è fredda come a febbraio e lei non mangia da due giorni, se esclude le fette di prosciutto rubate dal carrello di una donna appena uscita dal supermarket, ieri sera, ma ha dovuto condividerle con Chariot, che si lamenta sempre e non è mai sazia, ma non procura mai nulla. Comincia a sentire del calore diffondersi dalle cosce, forse perché sta pensando a Chariot. Spera piuttosto che non le sia iniziato il ciclo mestruale. Sta per inginocchiarsi e togliersi i pantaloni per controllare quando all’improvviso sente un latrato di cani, seguito da respiri affannati e accelerati; cinque uomini le corrono incontro saltando fra i cimiteri di alghe, scivolando sulla sabbia bagnata.
Scappa. Meglio, corre. Corre via, è la cosa che le riesce meglio. Il mare si spingerà sulla riva e le bave d’acqua si arrampicheranno sui loro stivali di pelle e li trascineranno via. Sentirà soltanto il loro urlo prima di venire coperti dal sale, poi tutto verrà spazzato via dalla fine dell’inverno e dal suono dei suoi campanelli.





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