Il titolo è messo un po' alla c... come sempre direte voi, e l'introduzione non è da meno.
E' un'AU, per cui non aspettatevi un'enorme aderenza al manga e ai suoi
personaggi, quello che mi importa è che i miei abbiano una
loro 'anima'.
In questa storia ci sono diversi temi che ho buttato spesso qua e
là (chi mi segue li riconoscerà), ma ora li ho
finalmente sviluppati in un’unica storia (credo), spero
così di togliermeli dalla testa definitivamente e passare ad
altro.
Per cambiare, questa volta è Sakura la riccona.
QUASI PER CASO
1.
Due cugini invadenti.
- Sono in ritardo… i soliti sfacciati e
maleducati…tua zia Kushina li ha cresciuti come dei
selvaggi, era da immaginare – borbottava sua madre
tamburellando con le dita sul tavolo.
Sakura la ascoltava distrattamente mentre sbocconcellava un
po’ di pane, pensierosa.
- Saranno stanchi per il viaggio – rispose
meccanicamente.
– Smettila di mangiucchiare prima di pranzo
– la rimproverò l’altra – E
poi non capisco perché non sono andati in albergo, non si
rendono conto di disturbare? – continuava, ipocritamente dato
che si era offerta di ospitarli (lei sospettava che questo improvviso
riavvicinamento alla sorella ed ancora più inconsueto
interesse per i nipoti fosse dovuto al fatto che Minato, il marito di
sua sorella, stesse iniziando a diventare piuttosto famoso, e
influente, in politica).
Quando era andata a prenderli in aeroporto quella mattina era anche lei
prevenuta, ma doveva dire che Naruto e Karin non le erano sembrati
così odiosi come ricordava, o meglio, non erano esattamente
il tipo di gente con cui si sarebbe presentata ad un ricevimento, ma
suo cugino era a modo suo davvero simpatico, mentre Karin sembrava
ancora piuttosto odiosa, tuttavia al momento era disposta a concederle
il beneficio del dubbio.
Avevano fatto le medie assieme loro tre, prima che la famiglia Namikaze
si trasferisse lontano da lì (grazie al cielo, aveva
sospirato sua madre), e all’epoca li considerava stupidi e
invadenti, ma forse non ricordava bene, forse era stato il continuo
parlarne male di sua madre, che non sopportava la sorella, sua zia, ed
a furia di ripeterle tutti i suoi difetti l’aveva
influenzata, o forse era lei, che in quel periodo era scontrosa e
cambiava umore per un nonnulla.
O magari erano semplicemente cresciuti tutti.
Suo cugino ora era alto e robusto ma non era cambiato di molto, stessi
capelli biondi e occhi azzurri pieni di allegria, stessa aria invadente
e stesso orrendo colore di maglietta, nonché stesso sorriso
spensierato, e perfino lo stesso abbraccio con cui l’aveva
semi triturata, incurante dello sporco che quel troglodita doveva avere
accumulato nel lungo viaggio.
Sua cugina Karin, be’, lei sì era cambiata: a
parte la minigonna invisibile (l’ultima cosa che una persona
sana indosserebbe per viaggiare) e le lunghe gambe nude, a parte che
doveva portare lenti a contatto perché se la ricordava cieca
come una talpa, teneva i capelli rossi raccolti, ed era alta, slanciata
e truccatissima.
Era bella, appariscente e chiassosa ma bella, e in qualche antro
recondito della sua mente una piccola parte di lei, quella scontrosa e
insicura della sua prima giovinezza che ancora si annidava da qualche
parte, aveva provato l’istinto di nascondersi, pervasa da un
disagio che non aveva motivo di esistere.
Karin, secondo Naruto di pessimo umore perché odiava
viaggiare in aereo, aveva commentato caustica ogni cosa, dalla macchina
con autista ( Naruto che lo salutava cordialmente, neanche fosse un
amico), al fatto che avrebbero alloggiato nella dependance in giardino
“Ben nascosti, eh?! Tipo cuccia del cane”.
Suo cugino invece era sempre inguaribilmente di buon umore ed aveva
continuato a chiacchierare del più e del meno per
l’intero tragitto, chiedendole dei vecchi compagni di classe
di cui lei ricordava a stento il nome, a parte uno.
-
C’è anche Sas’ke in città,
l’ho sentito ieri! Ti ricordi di lui, vero? Era
quello… -
- Si ricorda,
si ricorda – lo interruppe Karin, ridacchiando.
Sì, si ricordava.
Sasuke Uchiha era difficile da dimenticare, se non altro
perché all’epoca le ragazze erano tutte un
po’ innamorate di lui, lei compresa.
Non che avesse fatto qualcosa di diverso dallo sbirciarlo di
nascosto, un po’ perché lui la intimidiva con
quell’aria distante, un po’ perché i
suoi erano scandalizzati solo per il fatto che fossero in classe
insieme (erano andati perfino a protestare dal preside e per un
po’ avevano considerato l’idea di farle cambiare
scuola), e averci a che fare era impensabile.
La famiglia di Sasuke era malvista in città, senza un vero
motivo (ma questo l’aveva capito solo più tardi)
erano considerati loschi e pericolosi, forse solo perché se
ne stavano in disparte, isolati dagli altri, e quando i genitori di lui
erano morti in un incidente d’auto erano nate le teorie
più strampalate, le illazioni più assurde,
ridicole a pensarci ora, eppure lei ci aveva creduto ed aveva
immaginato pericolose organizzazioni criminali, agguati improbabili e
faide di sangue che a quel che sentiva seguivano inevitabilmente
‘quella’ famiglia.
Ricordava di avere avuto paura per Sasuke, ed anche per se stessa, per
il semplice fatto di condividere la stessa aula.
Nonostante le ragazzine affascinate c’era poca gente allora
che osava frequentarlo, ed ancora meno erano quelli che lui permetteva
di avvicinarsi: uno di questi era Naruto.
Dopo le medie non aveva più rivisto Sasuke, ma anche senza
volerlo le erano giunte notizie di lui: aveva saputo che suo fratello
maggiore era stato ricoverato in una clinica a causa di una forte
depressione, anche se alcuni sostenevano soffrisse di schizofrenia, e
sapeva che adesso lui faceva il fotografo ed era piuttosto richiesto, e
che viaggiava spesso per lavoro.
Forse per quello non si erano più incontrati, a parte il
fatto che frequentavano due mondi così diversi.
In realtà non era neppure esatto che non lo aveva
più rivisto: lo aveva incontrato una volta, non molto tempo
fa, per caso, mentre camminava veloce verso la macchina: lo aveva
notato fuori da un bar (era sicura che fosse lui, sapeva che era lui)
mentre parlava animatamente al telefono, una sigaretta in bocca.
Era rimasta un momento ferma ad ammirarlo (sì, non
c’era altro termine per definire la cosa), ad ammirare quel
ragazzo alto e snello, con gli stessi capelli corvini che ricordava, lo
stesso volto pallido dai lineamenti perfetti, solo più
maturo, ancora più bello se possibile, ma gli occhi, ecco,
quando lui aveva sollevato la testa e l’aveva vista, erano
sì gli stessi occhi scuri che avevano ammaliato le
ragazzine, allora, eppure diversi, ancora più intensi, occhi
che parevano scavarle dentro e vederla, vederla veramente, vedere lei.
Aveva proseguito in fretta ed aveva cacciato quell’immagine,
quella sensazione, ma in un angolino della mente aveva incasellato
quella figura, quel volto, quegli occhi, come pericolosi, come se
avesse avuto sempre ragione sua madre.
- Siete
rimasti in contatto? – chiese a Naruto.
- Io e
Sas’ke? Ovvio! –
In quel momento aveva sbirciato Karin che stava messaggiando al
cellulare ignorandoli ostentatamente: si diceva che avesse avuto una
relazione con Sasuke, e che fosse stata lei a lasciarlo.
- Papà ha chiamato? – chiese a sua madre tornando
al presente.
- Sì, ha detto di non aspettarlo, che mangiava
qualcosa in ufficio –
Come sempre.
Quel giorno, se non fosse stato per i suoi cugini, sarebbe rimasta al
lavoro anche lei, pensò con un nodo allo stomaco.
Guardò sua madre.
Sapeva che soffriva della continua assenza del marito, e si
ritrovò a fissare il piatto infastidita da quel sorriso
falso, da quella voce affettata, come se dovesse mantenere la facciata
anche con lei, sua figlia.
Quando i cugini entrarono dalla porta punzecchiandosi, così
chiassosi e invadenti, un’ondata di allegria che seguiva
Naruto come un’ombra, involontariamente sorrise.
Mangiò con il sorriso sulle labbra mentre ascoltava sua
madre fare domande indiscrete ed imbarazzanti, cui gli altri due
rispondevano senza alcun imbarazzo, ed era come un vento nuovo che
invadeva il loro piccolo mondo asfittico, un vento che scompigliava i
gesti artificiosi e le pose manierate, le parole che significavano
tutt’altro e quelle sussurrate alle spalle.
Per una frazione di secondo pensò che era contenta di averli
lì.
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Si recò al lavoro subito dopo pranzo.
Era un giorno importante quello, suo padre doveva scegliere un progetto
per la riconversione di una delle loro industrie, ora in perdita, e
doveva comunicare la sua decisione durante l’assemblea che si
teneva quel pomeriggio: lei aveva lavorato per settimane a quello
stramaledetto progetto e ne era piuttosto fiera, o credeva di esserlo.
Tornò a casa la sera, stanca, delusa, demotivata.
Alla fine non era stato scelto il suo progetto, come sempre, e questa
volta era stato come un pugno in faccia, perché il suo era
il migliore, ne era sicura, non era così?
O c’era qualcosa che non andava e non se ne era accorta?
Magari l’altro aveva più possibilità di
successo, ma lei non riusciva a vederlo, accecata dal proprio interesse?
No, non ci credeva.
Era uscita dalla sala riunioni senza salutare, troppo arrabbiata per
provare a protestare, gli occhi asciutti, le lacrime di rabbia che
rimanevano all’interno, bloccate.
Stronzo, non riuscì a fare a meno di pensare,
stronzostronzostronzo.
Cos’era che non andava bene, che non era mai abbastanza per
suo padre?
Era troppo giovane? Era una donna? Era sua figlia e temeva di fare
favoritismi?
O era solo che la credeva un’incapace?
Perché era sempre stato così con lei, sempre a
notare quello che mancava, quello che poteva essere modificato, mai
quello che c’era, e probabilmente nemmeno le considerava, le
sue proposte.
Mentre apriva la porta di casa (abitava in un’ala separata
della grande villa, con ingresso autonomo, ma comunque lì, a
portata di mano, sotto controllo) provava solo un’enorme
amarezza, e sentiva un nodo in gola che assomigliava a un grumo di
lacrime e rimaneva lì, ad impedirle di respirare a pieni
polmoni, perché non piangeva mai lei, suo padre
l’aveva sempre guardata con disprezzo quando scoppiava a
piangere da bambina, e non voleva, non poteva dargli quella
soddisfazione, dimostrargli che davvero non valeva niente.
Non appena dentro provò a chiamare Kakashi, uno dei
collaboratori con cui da qualche tempo aveva una specie di relazione:
non avevano potuto scambiarsi neppure una parola dopo
l’assemblea, le aveva solo dato una pacca sulla spalla mentre
si allontanava, come se fosse sufficiente, come se potesse farsi
scivolare addosso tutto come faceva lui.
Non rispondeva ma la richiamò lui poco dopo, quando era
lì che si struccava davanti allo specchio: le chiese come
stava e si accontentò del suo tiepido ‘Bene
ora’.
Poi lo ascoltò in silenzio mentre le comunicava che doveva
andare fuori città per un improbabile impegno improvviso e
non potevano vedersi il giorno dopo.
Stronzo.
Erano rimasti d’accordo che quel sabato lo avrebbero passato
insieme, ma sapeva di non poterci far conto, con lui non si sapeva mai,
e non poteva pretendere niente da quella relazione semiclandestina,
superficiale, che aveva iniziato non sapeva neppure perché,
forse solo perché si sentiva sola, e aveva bisogno di
qualcuno.
Sapeva che Kakashi preferiva condurre un’esistenza defilata,
di retroguardia, senza esporsi davvero, per questo non capiva
perché si sentisse così delusa.
Avrebbe dovuto mangiare qualcosa ora, e poi andare a letto, ed invece
si lavò, si cambiò in qualcosa di più
comodo, e dopo essersi sistemata i capelli in una crocchia ed essersi
truccata di nuovo con cura (erano solo i suoi cugini, ma non voleva
mostrarsi trasandata neppure con loro, con nessuno se era per quello,
come se uscire senza trucco, senza un’apparenza impeccabile,
fosse un’apertura fatale, un rischio imponderabile), si
incamminò verso la dependance, dove i cugini avevano detto
che l’aspettavano per festeggiare il loro arrivo.
Aveva optato per non portare la bottiglia di champagne (era sprecato
per loro ), e dopo aver bussato, dopo che Naruto aveva esclamato
‘Avanti!’ a gran voce, entrò a mani
vuote pensando che almeno loro non si sarebbero offesi per questa
mancanza di etichetta.
Avvertì immediatamente lo sgradevole odore di fumo.
Perlomeno era solo fumo di sigaretta, si disse mentre si chiedeva chi
fosse dei due a fumare (Karin probabilmente) e intanto mandava a
zittire la vocetta interna che assomigliava incredibilmente a quella di
sua madre e le diceva che era da maleducati fumare in casa
d’altri.
Seguì il rumore delle risate e li trovò in sala,
seduti attorno al basso tavolino, sui cuscinoni che avevano estratto
dai divani: avevano una bottiglia di liquore che dovevano aver trovato
lì in casa e Karin stava bevendo a canna, ma la cosa
sconvolgente non era quella, era il fatto che non erano soli, che
c’era Sasuke Uchiha seduto tra loro, che la guardava con la
sigaretta in bocca.
Una scarica di eccitazione spazzò via immediatamente la
stanchezza.
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La storia è breve eh?! 3 o 4 capitoli, perchè non
ho ancora voglia di faticare troppo.
Il prossimo è assai più lungo ed è dal
punto di vista di Sasuke.
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