La guerra dell'anima
Salve a tutti, questo racconto
è stato scritto più di tre anni fa, per partecipare ad un
concorso di "Letteratura Giovanile" della mia città. Il racconto
è arrivato quarto tra oltre mille racconti inviati, ma ancora
oggi mi è oscuro il motivo che mi ha fatto vincere. Prima di
lasciarvi alla lettura di questo racconto, voglio fare una
specificazione, per evitare quelle discussioni che già anni fa
si sono aperte su questo racconto: personalmente la mia non è
una nè critica, nè una condivisione di principi da parte
di nessuno. Ho voluto semplicemente raccontare una storia, la storia di
Mohamed e del Maresciallo Trevoli, e basta. Senza espressioni di
giudizio, condanne o altro, si tratta solo di una storia scritta per se
stessa. Detto questo, voglio specificare inoltre che nella
ricostruzione diella Baghdad distrutta dalla guerra, mi è stato
d'aiuto mio zio che lavorava in missione per l'esercito, a lui vanno
tutti i miei più sentiti ringraziamenti. Buona lettura.
"A tutti coloro che vivono una guerra: pace!"
La guerra dell’anima
La mattina in cui si sarebbe
ucciso, Mohamed Yhalli, si svegliò presto. La sera prima, aveva
deciso che avrebbe fatto un ultimo giro per la sua amata città
prima di compiere il suo ultimo atto. Fuori dalla sua casa, distrutta
dalla guerra, con lo stucco azzurrino che sotto le intemperie del tempo
si sgretolava dalle mura, il sole non era ancora sorto, e l’aria
della notte umida più del solito per quei mesi estivi risultava
difficile anche da respirare.
Appena sveglio, era rimasto disteso sul suo materasso consumato
costituito più che altro da uno strato di polverose e puzzolenti
coperte, avvolto nelle lenzuola sudice, a guardare il soffitto buio e i
luminosi puntini immaginari, pensando alla sua vita, distrutta, e a
quello che avrebbe dovuto fare quel giorno appena giunto al mercato.
Era terrorizzato al solo pensiero di quello che doveva fare, ma
sapeva, o almeno credeva di sapere, visto che chi gli avevo dato
quell’incarico glielo aveva ripetuto tante di quelle volte, che
il suo era un sacrificio necessario per liberare il suo popolo
dall’invasione degli infedeli. Dentro di lui però, un
vortice di pensieri e sensazioni contrastanti lo teneva bloccato
disteso nel suo piccolo mondo, al buio, nascosto tra le pieghe della
notte che lenta si rivestiva e lasciava spazio al tumultuoso giorno,
che puntualmente arrivava in quelle terre sempre più stanco e
sempre più privo di vita ma sempre cocente e brillante, come a
ricordare che in fondo al cielo di quegli stupidi mortali che si
uccidevano a vicenda, non importava nulla.
Dentro di lui un vociare silenzioso riprendeva il suo scorrere
lento, ma fra tutte una voce era più forte delle altre, la voce
di sua figlia, Fathma, che gridava dal centro del vortice, ma lui non
riusciva a sentirla, non riusciva a capire cosa gridava la sua piccola
bambina.
Due settimane prima all’alba di un giorno normale, per
quanto normale possa essere un giorno in una terra distrutta dalla
guerra e da tutto cioè che essa comporta, sua moglie e la sua
piccola figlia erano uscite per andare a comprare qualcosa con gli
ultimi soldi rimasti, ma non erano più tornate. Soltanto nel
pomeriggio, quando preoccupato per il loro ritardo Mohamed era uscito
per cercarle, aveva scoperto che erano morte in un attentato su un
pullman.
Da quel giorno la sua vita era cambiata, anzi a dire il vero la
sua vita era finita. Per questo motivo aveva accettato la richiesta di
uno sconosciuto di vendicare la morte della propria figlia che era
morta con un attentato contro i veri colpevoli gli infedeli
invasori.
Scosso da quei dolorosi pensieri si alzò di scatto dal
letto, quasi lo avessero assalito o come se al buio una scarica
improvvisa l‘avesse colpito in pieno, e procedendo lentamente a
tentoni, visto che dopo la guerra sia l’elettricità che le
candele erano scomparse del tutto, raggiunse il bagno. Qui sempre
tastando riuscì a trovare la ruvida e fredda pietra del
lavandino in cui era raccolta un po’ d’acqua e lentamente
vi immerse la mano destra. Il freddo dell’acqua a contatto con la
sua pelle accaldata dall’aria esterna e dal calore accumulato dal
sonno, lo fece rabbrividire. Quando tornò nell’altra
stanza si piegò sotto il letto e prese il giubbotto ripieno di
esplosivo che gli aveva dato lo sconosciuto. Nel silenzio più
assoluto della sua stanza, con gli uccelli che fuori iniziavano il loro
spensierato canto, lui lo indossò stringendolo delicatamente
alla vita rivestendosene come un prete si riveste prima di andare di
servire la messa, sentendo il peso di quell‘oggetto di morte, ma
ancora di più sentendo il peso della sua anima.
Sopra di questo indosso la sua lunga tunica grigia, logora e
sporca e la fascia nera che gli serviva per bloccarla alla vita. Prese
il piccolo telecomando di plastica che, secondo quanto gli avevano
ripetuto tante volte lo sconosciuto e i suoi compari, serviva per fare
innescare l’esplosione e lo infilò in tasca, posandolo
delicatamente, ma ripulendosi subito dopo la mano sulla tunica.
Prima di uscire, si fermò un attimo sulla soglia della
porta ad assaporare per l’ultima volta quell’odore, un
misto tra muffa e polvere, che era tutta la sua vita e che per lui da
anni significava solo una cosa: casa. Le voci della sua anima, che fino
a quel momento si erano come zittite, ripresero a lamentare la loro
sventura, ma lui sordo e silenzioso si voltò e si avviò
per la strada dove doveva combattere la sua ultima guerra, quella
dell’anima.
Lentamente il sole si era fatto strada tra le interminabili volte
del cielo e con la sua luce serpeggiava tra le infinite vie cantando il
suo silenzioso grido che chiamava tutti alla tragicità della
vita. Sorgendo illuminava tutto della meravigliosa Baghdad dalle
stupende cupole d’oro della moschea Haydar-Jan ai cancelli dorati
dell’ex palazzo presidenziale. Ma questo spettacolo culturale che
aveva ispirato tanti poeti veniva sfregiato dall’immenso danno
fatto dalle bombe della guerra.
Quella stessa mattina a poco più di tredici chilometri
dalla casa di Mohamed, il maresciallo capo dei Carabinieri, Marco
Trevoli si era svegliato presto perché doveva recarsi al vecchio
aeroporto per prendere gli ultimi aiuti umanitari che arrivavano
dall’Italia.
Mentre stava ancora disteso sulla sua brandina impolverata dentro
il vecchio ufficio postale che loro utilizzavano come base, pensava
alla sua famiglia che aveva lasciato alla periferia di Napoli e a tutto
quello che aveva lasciato là.
“Non c‘è molta differenza tra quel posto e
questo” si ritrovò a pensare, mentre ricordava quello che
aveva visto succedere durante i suoi anni di servizio nella sua
città: violenza e ignoranza erano le malattia a cui lui ormai
aveva fatto gli anticorpi. Dopotutto guerra era quella che si
combatteva nella sua terra e guerra era quella che lui si trovava a
fare in una terra che non gli apparteneva.
Mentre pensava a tutto questo, un nuovo pensiero gli sfiorò
la mente. Un pensiero più dolce, più tenero: il tenero
sguardo della sua piccola figlia, Maria, che aveva dovuto abbandonare
per andare a guadagnare qualcosa per poterle assicurare un futuro.
Scosse debolmente la testa, quel luogo desolato non era degno di
così dolci pensieri. Decise allora di uscire e di andarsi a
preparare.
Quando fu pronto scese nelle cucine, dove fece la sua ultima
colazione, servendosi del caffè caldo e del pane con marmellata.
Ripresosi dalle forze, si avviò verso il garage dove
preparò il camion da trasporto e insieme a tre dei suoi soldati
si avviò verso l’aeroporto dove l’attendevano gli
uomini della croce rossa.
Seduto sul sedile anteriore, vicino al guidatore, rilassò
la mente e permise ai pensieri di assalirlo dolcemente. Mentre il
camion si avviava per le strade distrutte della vecchia Baghdad un
turbine di voci, sentimenti e odori lo avvolse e lo trascino dentro il
vortice della vita che lui aveva messo in stand-by.
Dal primo giorno che era giunto in Iraq il maresciallo Trevoli
aveva capito il vero significato della vita. Anzi, per la prima volta
in trentacinque anni aveva capito di essere vivo. Nella vita normale,
quando una persona è presa di continuo dalla routine quotidiana,
ha poco tempo per pensare, perché tutti i pensieri vengono
assorbiti e filtrati da una grande spugna che è il sistema. Ma
mentre si è in guerra, ogni istante è
un’eternità e tutto sembra una nuova scoperta, prima fra
tutti la facilità con cui gli uomini morivano. Nella vita
normale, anche la morte sembra normale, ma in guerra tutto appare come
un’incognita grande e pesante, come un immensa spada di Damocle,
che violentemente pesa sulla testa di tutti. E col tempo ti ritrovi a
pensare a chi capiterà la prossima volta, se sarà il
collega con cui la sera ti ritrovi a scolarti una birra in silenzio,
guardando le stelle, o se toccherà a quel ragazzo americano di
neanche vent’anni a cui hai salvato la vita una volta, o se
toccherà a te, magari, o se tu sarai salvato e se potrai tornare
alla vita quotidiana, a quel sistema che prima odiavi ma che adesso ti
manca, e questo mancare ti fa comprendere per la prima volta della sua
esistenza.
Questa terribile verità, sulla morte, che aveva appreso in
quella terra dimenticata, lentamente lo uccideva da dentro, nutrendosi
della sua vita, ma questa sofferenza lo spingeva sempre di più
ad imbracciare le armi ad a combattere la guerra della sua anima.
Scivolando tra le strade decisamente poco affollate, ma comunque
distrutte dalla guerra, il camion era giunto finalmente
all’altezza dell’ultimo posto di blocco, superato il quale
sarebbe finalmente giunto a destinazione.
I due soldati che stavano di guardia al posto di blocco
erano due giovani ragazzi di colore che potevano avere circa
vent’anni, e alla vista del camion, si sbrigarono ad impugnare le
armi e schierarsi di fronte alla barricata di filo spinato. Uno dei due
giovani soldati americani, intimò l’alt al guidatore, il
quale si fermo ad una modesta distanza dalla barricata.
Destatosi dai suoi pensieri, il maresciallo Trevoli si
sbrigò a prendere i documenti che aveva sul cruscotto e scese
dal camion. Dopo aver chiarito tutto parlando in quel suo inglese
stentato e con quella tipica cadenza napoletana che faceva tanto ridere
i suoi colleghi, salutò i due americani, che spostarono la
barricata e fecero passare il camion dei carabinieri.
Lentamente Mohamed Yhalli aveva percorso tutta la città a
piedi costeggiando le facciate sbiadite delle case, per nascondersi dal
sole, percorrendo i lunghi viali principali e le piccole viuzze e i
vicoli che sapevano di morte.
Prima di compiere la sua missione, aveva deciso di visitare per
l’ultima volta i luoghi della sua amata città. Così
attraverso strade e scorciatoie, che da piccolo aveva percorso tante
volte quando riusciva a liberarsi prima dall’aiutare suo padre e
aveva un po’ di tempo per giocare con gli altri bambini, era
arrivato di fronte alla moschea più grande di tutto
l’Iraq, Haydar-Jan. Le cupole d’oro di quella grande e
meravigliosa moschea avevano il grande potere di incutere un grande
timore reverenziale a tutti coloro che osavano alzare lo sguardo e di
sfidare la loro infinita onniscienza. Odorosi ricordi di luminose
mattine estive affiorarono nella mente di Mohamed: lo sguardo di sua
figlia, dolce e sincero, i giorni passati a pensare al domani, gli
innumerevoli pomeriggi passati nello studio di un amico a farsi leggere
le poesie dei poeti più famosi, e le innumerevoli sere in cui da
giovane era rimasto a guardare le stelle sperando con tutto il cuore di
poter andare via da quella terra, lui e la sua famiglia.
E poi, improvvisamente, affiorò in lui la rabbia, e si
ritrovò bloccato pervaso dalla paura. Si riscosse lentamente,
pensando alla sua vendetta, che ora dopo ora era sempre più
vicina. Gli avevano detto di farsi esplodere al mercato, alle tre del
pomeriggio, quando i soldati sarebbero stati li a controllare che non
vi fossero problemi. Mancavano tre ore al suo sacrificio. Decise di non
entrare in moschea, poiché, anche se quegli uomini dicevano il
contrario, lui si sentiva sporco con quel mostro di morte addosso e
indegno di entrare in quel luogo che lui amava e temeva così
tanto. Decise quindi di andare a visitare lo zoo.
Lo zoo di Baghdad era immenso e bellissimo anche grazie
all’ambiente che la natura offriva in quella regione. Dentro vi
si trovavano animali di ogni specie. Mohamed lo raggiunse senza
problemi nel giro di pochi minuti visto che si trovava li vicino.
Sapeva bene che l’avrebbe trovato chiuso, poiché da quando
era scoppiata la guerra nessuno si prendeva più cura di quelle
povere bestie. Si avvicinò alla grata nera vicino alla strada e
guardò dentro. Da quella parte, la prima cosa che si vedeva era
la gabbia dei leoni. Non facevano poi così tanta paura, ridotti
com’erano: talmente dimagriti che si riuscivano a vedere le
costole e stremati dal caldo che giacevano l’uno accanto
all’altro dentro la loro piccola e sporca gabbia. Anche lui si
sentiva così, in gabbia. Prigioniero di una guerra non sua,
schiavo dei desideri di potere dei vecchi e dei nuovi padroni. Tutto
perdeva senso a Baghdad. Tutto era privo di senso e sospeso nel tempo:
tra il passato certo, ma terribile, e il futuro ignoto e per questo
pieno di paure. Tutto era incerto. Ma su una cosa Mohamed non aveva
dubbi, su quello che avrebbe fatto di li a due ore. Così, sempre
più stanco e provato si avviò verso il mercato.
Le strade di Baghdad sembravano come degli sporchi cimiteri. Anche
se non vi erano più corpi per le strade, poiché le mogli
piangenti e le madri dolenti avevano dato sepoltura ai corpi dei loro
figli, nell’aria vi era un forte odore di morte, che impregnava
tutto, filtrando nei polmoni entrando sempre più dentro, fino a
perforare l‘anima e a farti sentire quel pianto dei vivi e quel
canto dei morti che era costante in presenza di una guerra. “Chi
sono io, un vivo tra i morti o un morto tra i vivi?”, questo si
domandava Mohamed mentre svoltava l’angolo e giungeva nella
piazza del mercato.
Un fiume impetuoso di voci lo investì, riportandolo alla
realtà. Si addentrò tra la calca, che comprava e vendeva,
nella ricerca del punto giusto: doveva avvicinarsi più che
poteva ai soldati, ma di soldati in quel momento non ce n’erano.
Si addentro accora un po’, facendosi spazio tra la folla urlante,
fino a quando non giunse a metà della via di bancarelle, dove
vide che due soldati si avvicinavano dalla sua parte con passo
spavaldo, scrutando la gente e parlando tra loro. Si fermò.
Guardandosi intorno vide che vi erano molte madri con bambini piccoli.
Il ricordo di sua figlia l’assalì, come una pioggia di
chiodi e di vetri affilati, squarciandogli l’anima.
“No” pensò “ non qui!”. E impaurito
tentò di allontanarsi dalla folla, ma mentre stava girando su se
stesso, inciampò in qualcosa che era a terra e cadde lungo
disteso.
Il maresciallo capo Marco Trevoli, era molto preoccupato quando,
giunto al posto di blocco, venne a sapere che nella piazza del mercato,
vicino alla loro base, era in corso una battaglia tra due dei suoi
uomini e un kamikaze, che voleva farsi esplodere li. Allarmato chiese
ai due soldati americani di farli passare, ma quelli risposero che
avevano ricevuto ordine di non fare passare nessuno, almeno
finché la situazione non si fosse calmata e che dopotutto era
giusto così, che non doveva rischiare la vita anche lui. Ma al
maresciallo Trevoli, in quel momento, importava poco di ciò che
era giusto o meno, due dei suoi ragazzi erano in pericolo e lui non si
sentiva di lasciarli soli, là di fronte la morte. Quindi,
imprecando nel più ristretto dialetto napoletano, scese dal
camion e si avviò verso la piazza, con passo fermo e deciso. Dal
posto in cui si trovava, sarebbe arrivato in meno di dieci minuti o
quindici, ma sapeva che non c’era tempo da perdere e quindi
iniziò a correre. Dal verso opposto al suo centinaia di persone
correvano gridando e cercando di mettersi al riparo. Giunto nella
piazza, non gli fu difficile riconoscere i suoi uomini, e il kamikaze
che stava con la schiena poggiata su un muro e una mano infilata in una
tasca della tunica. Aveva il volto impaurito e lo sguardo stanco.
Sapeva che ogni minimo gesto poteva essere fatale per lui e per i suoi
uomini. Così decise quello che doveva fare. Ordinò ai
suoi uomini di allontanarsi di molto, e nel frattempo stacco la sua
pistola dalla cintura nera e la poggiò a terra. Alzò le
mani in aria, in segno di resa, ma quell’uomo non sembrava capire
nulla di quello che stava succedendo. Il suo sguardo era rivolto alla
pistola, che fissava con paura.
Mohamed era terrorizzato, fissava quell’uomo in divisa, quel
militare, che stava di fronte a lui, ma non capiva quello che stava
facendo: un secondo prima si era tolto la pistola, posandola a terra e
aveva alzato le mani in alto. La paura lo stava possedendo, invitandolo
sempre di più a premere quel maledetto bottone. Si sentiva come
quel leone che aveva visto in gabbia, distrutto dentro, sconfitto,
dilaniato dalle sue paure, perché adesso si domandava se stava
veramente per fare la cosa giusta, se ne valeva veramente la pena di
morire così, se quell’uomo che adesso lo guardava con gli
occhi lucidi e il sudore che scendeva dalla fronte negli occhi aveva
anche lui una piccola Fathma, o se era solo al mondo, come lui, ora.
Pensava a tutto questo mentre fissava lo sguardo di quell’uomo,
impaurito, con il volto teso, e non riusciva a muoversi.
Il tempo si era fermato. Persino il vento che in quel periodo
soffiava caldo e lento, da non fare respirare, si era fermato, come se
stesse aspettando il momento giusto per riprendere a scorrere, o almeno
nessuno di loro sue riusciva a sentirlo. La sua fronte si stava
imperlando di sudore freddo. E la sua mente si era come fermata,
nell’attesa di qualcosa, di un gesto, di una parola. Ma lui non
avrebbe ricevuto nulla del genere.
All’improvviso, un colpo parti dalla pistola del carabiniere
che stava dietro il capitano Trevoli, sfiorò Mohamed ad un
braccio. Il capitano si voltò indietro per guardare quello che
aveva sparato, che stava tremando ed aveva fatto cadere la pistola, era
sconvolto dal suo involontario gesto. Poi si voltò a guardare
Mohamed, e vi fu un ultimo lunghissimo istante in cui il suo sguardo si
incontrò con quello di quel giovane uomo, stanco tanto quanto
lui, consapevole di quello che stava per succedere. Era la fine della
loro guerra dell’anima, guerra senza vincitori, ma solo
vinti.
Poi giunse l’esplosione.
Grazie di aver letto!
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