17.
Epilogo.
La
fine è come l’inizio, solo un po’ migliore e forse diversa (Lily e Remus
ci stanno ancora pensando su).
Tutto sommato, pensò, non è andata
così male.
Doveva convenirne con se stessa, volente o
nolente: dopo il primo momento di imbarazzo – causato tutto dai suoi
pensieri irritanti – l’appuntamento non era stato così male.
Potter – anzi, James; la distinzione era
obbligatoria – l’aveva accompagnata di buon grado in quasi tutti i
negozi, insistendo poi per visitare la Stamberga Strillante.
«Sei fuori di testa?», aveva chiesto, inorridita
e scioccata, «Io non ci entro, là dentro».
«Cosa c’è, Evans? Paura di qualche spiritello
dispettoso?» l’aveva presa in giro e quando lei aveva minacciato di
andarsene e piantarlo lì, lui aveva dovuto rivedere la sua posizione e,
un po’ seccato, aveva ceduto, incamminandosi al suo fianco verso il
centro di Hogsmeade, soffocato da una quantità di studenti.
Non avevano mancato di notare le costanti
occhiate scettiche degli altri (Ma davvero? Evans e Potter? E da
quando?) e se Lily aveva fatto un incredibile sforzo di volontà per
non sfoderare la bacchetta in un gesto plateale e affatturare tutti,
James non si era mostrato altrettanto diplomatico e aveva invitato i
curiosi, a più riprese, a continuare a godersi il loro week-end, dal
momento che una volta rientrati nel castello l’avrebbero aspramente
rimpianto.
«Non dovresti tirare la corda, sai, Potter?
Seriamente, quante punizioni hai collezionato in questi anni? Cinquanta?
Settanta?»
«Novantasei ed è un gran bel record, non
sciuparmelo. E poi, che importa? La scuola sta per finire, rilassati».
«Io sono rilassata, Potter».
In realtà, non era vero. Provava una strana
sensazione: agitazione ed eccitazione, paura e una punta di serenità.
Non ci capiva nulla. Ed era tutto parecchio
bizzarro. E si sentiva sul punto di vomitare (Oh, mio Dio, vomiterò
sulle scarpe di Potter e sarà la figura peggiore della mia vita).
Non avrebbe dovuto mangiare tutte quelle Api
Frizzole.
«Evans, aspetta un momento» chiese, stringendole
un braccio e costringendola, senza troppo tatto, a seguirlo in un angolo
appartato, ma comunque bene in vista.
Tutto, in lei, si tese e la nausea rotolò
nuovamente in gola.
Oh, Signore, sta per baciarmi. Sta per
baciarmi e io sto per vomitare. Non voglio che mi baci, non sono
psicologicamente pronta e forse non lo sarò mai! Insomma, Potter può
essere anche un po’ gradevole, ma da qui a fare questo passo...
E mentre era impegnata a discutere con se
stessa, James disse qualcosa.
«Evans!»
«Eh? Cosa?»
«Ti ho chiesto se parlerai con Macdonald»
ripeté, guardandosi continuamente le spalle, come se temesse un assalto.
Da parte di chi, Lily non ne aveva idea.
«Uhm... be’, sì, credo lo farò» replicò,
scoccando continue occhiate alle spalle di James, contagiata
momentaneamente dalla paranoia del ragazzo. In realtà temeva che qualche
imbecille potesse scattare loro qualche foto e costruirci su una storia
fatta di rose, arcobaleni e cuori. Niente di più lontano dal vero,
peraltro.
«Bene, bene. Senti, mi domandavo...» guardò il
soffitto – per trovare ispirazione? Perché c’era qualche fantasma in
ascolto? Per studiare l’architettura del castello? Lily non lo sapeva –
e poi si pizzicò il naso, proprio là dove poggiavano gli occhiali.
Quando Lily si accorse di stare osservando ogni suo movimento, si
concentrò ardentemente sulle sue unghie – ormai erano lunghe abbastanza
da poterle dipingere e sbizzarrirsi con svariati smalti – passando
quindi l’indice sulle nocche.
«... io adesso ho gli allenamenti di Quidditch;
se non hai altro da fare, potresti, uhm, venire a vedermi?»
Sarebbe stato troppo indelicato se gli avesse
confessato di detestare il Quidditch e che non guardava una partita da
almeno sei anni? E sarebbe stato ancora meno carino se si fosse portato
un libro per ingannare la noia?
Probabilmente sì. Perciò optò per un rifiuto,
sperando che questo potesse offenderlo di meno.
Poi si domandò perché le importasse tanto
di non ferire Potter. Preferì non cercare la risposta: troppi
ragionamenti complicati e dispendiosi.
Restava il fatto che avrebbe rifiutato,
preferendo ripetere certi argomenti di studio che sfuggivano alla
memoria.
«Certo» si sentì invece rispondere.
Cosacosacosa?!
E superato lo shock del momento, giunse la
preoccupazione.
Era normale che un essere umano desiderasse
rispondere A e poi, nel momento della detta risposta, optasse per
l’opzione B, odiata e scartata a priori?
Le venne in mente il termine bipolarismo.
Le venne perfino il dubbio che il suo corpo
fosse posseduto da una qualche entità invisibile o qualcosa del genere.
«Fantastico! Allora ti aspetto fuori dalla Sala
Comune, tra dieci minuti?»
«Ahm... va bene».
Forse era davvero il caso di concedersi a certi
ragionamenti complicati e dispendiosi.
° ° °
«Batti la fiacca?»
Sirius si voltò così bruscamente che impattò
contro l’anta spalancata di un mobile inchiodato al muro.
Mugolò qualcosa, chiudendola quindi con la mano
fasciata.
«Non direi. Che vuoi?»
«Sei di cattivo umore?»
«Cosa te lo fa pensare? Il fatto che debba
ancora lavare circa tre miliardi di piatti, piatto più, piatto meno?
Oppure il fatto che gli Elfi si rifiutano di darmi da mangiare perché
signor Black, signore, Larkin non può dare da mangiare al signor Black,
signore; il signor Black deve lavorare, il signor Black non deve
mangiare» rispose, imitando la voce stridula di Larkin, Elfo addetto
alla supervisione dei suoi simili.
«Non ha tutti i torti».
«Cos’è, sei una specie di paladino giustiziere
degli Elfi Domestici?»
«Qualcuno dovrà pur difenderli da te.
Credo siano al corrente delle tue incomprensioni con Kreacher,
sai?»
«Kreacher era un piccolo imbecille malato, ma
questo non vuol dire che tutti gli Elfi siano dei piccoli imbecilli
malati e che meritino lo stesso trattamento».
Remus sorrise indulgente, stringendosi nelle
spalle. Era andato lì con il proposito di poter parlare a Sirius circa
la loro imbarazzante situazione, non per discorrere circa il trattamento
degli Elfi.
«Non sono qui per questo, se può interessarti»
ribatté Remus, poggiandosi a ridosso di un lavello, mentre Sirius
prendeva a insaponare i piatti sporchi, impilati in cinque, altissime
colonne.
«Allora perché sei qui?»
«Perché devi smetterla di fraintendere qualsiasi
cosa io dica o faccia» sospirò stancamente, voltando la testa per
guardarlo.
Sirius si interruppe, indirizzandogli quindi
un’occhiata perplessa. O almeno, ci provò. In realtà sapeva
perfettamente a cosa si stesse riferendo l’altro, ma non voleva
rendergli le cose facili.
Era fatto così, ahilui.
«Quando ti ho detto che andavo a studiare
Antiche Rune, l’ho detto perché volevo davvero farlo e non perché
volevo fuggire da te o ignorarti o, peggio ancora, chiudere la nostra
amicizia. Sei troppo drastico, Sirius, i tuoi cambi di umore mi fanno
girare la testa – e non in senso positivo, sappilo. L’attimo prima penso
di aver messo in chiaro le cose e l’attimo dopo tu non mi parli più. Ti
dico vado a studiare Antiche Rune e tu lo traduci in non
voglio più avere niente a che fare con te. Cerco di chiederti
cosa non va, perché non mi parli da giorni e tu scappi via.
Letteralmente».
(Di fatto, solo il giorno prima, Remus si era
appostato davanti alla porta del bagno, per essere sicuro che Sirius non
gli sfuggisse ancora una volta, che gli spiegasse finalmente perché
aveva smesso di parlargli. I lettori sappiano, tra parentesi nella
parentesi, che nemmeno nel fior fiore dei loro dodici anni si erano
comportati in maniera così infantile.
Ma quando Sirius era uscito si era guardato
intorno e aveva additato freneticamente la finestra, urlando: “Cos’è
quello? Cos’è? Ci sta guardando! Guarda!”; Remus, ingenuamente, era
rimasto ad osservare il panorama oltre il vetro, cercando di capire cosa
avesse scatenato tanto panico in Sirius e quando si era voltato per
dirgli che non c’era assolutamente niente, l’altro era scappato via.)
«Così hai pensato bene di venire qui, certo che
non avrei potuto svignarmela, eh? Bravo Remus, hai fatto tesoro dei miei
insegnamenti» si complimentò, fischiando ammirato.
Un disperato tentativo di mostrarsi disinvolto,
celando l’ansia e la vergogna.
(Si era pentito di quella fuga nell’attimo
esatto in cui aveva mosso il primo passo. Dopo, al sicuro dietro il
pesante tendaggio della Sala Comune, se ne era vergognato come un ladro.
Lui era Sirius Black, quello che non scappava, ma correva
incontro al nemico, gettandosi a capofitto su di lui. Aveva tentato
di lenire la vergogna ripetendosi che era in ritardo e che la strada per
le cucine era lunga. Non aveva funzionato granché, però.)
«Non mi hai lasciato molta scelta, Sirius»
attestò velenosamente. La cattiveria era un sentimento insolito per
Remus, buono e compassionevole per natura.
Non era a proprio agio; gli sembrava di calzare
un vestito scomodo e della taglia sbagliata, che più cercava di
liberarsene, più quello gli s’appiccicava addosso.
«Uhm...» borbottò, sciacquando un piatto con
insolita lentezza.
«Io devo chiedertelo, Sirius: cosa provi per me?
Perché, sai, alla luce di tutti questi tuoi assurdi comportamenti, ho
qualche dubbio».
Il piatto scivolò dalle sue mani e s’infranse
nel lavello; piccoli frammenti di porcellana dorata galleggiarono sulla
superficie schiumosa. Sirius li fissò come se, da un momento all’altro,
potessero suggerirgli le parole esatte per replicare alla domanda di
Remus.
Ma la verità era che quelle parole, lui, le
aveva cercate per giorni, senza mai riuscire a rintracciarle.
E ogni volta che ci pensava, a quella domanda,
provava l’incontenibile bisogno di svuotarsi la vescica.
Qualcuno reagisce così al panico, capita.
«Non devi studiare, oggi? O sprecare il tuo
tempo in biblioteca? Devi proprio stare qui?»
«Sirius... per favore. Per favore,
aiutami a chiarire questa cosa una volta per tutte».
Il clima iniziò a cambiare e la presenza di
Remus divenne ingombrante. Lo sentiva nei borbottii indecisi degli Elfi,
che, alle sue spalle, si domandavano se fosse il caso o meno di chiedere
a Remus di andare via. Erano creature pacifiche e amavano prodigarsi per
gli altri, ma non amavano che qualcuno intralciasse il loro lavoro o un
ingranaggio di esso.
E Sirius, al momento, rappresentava un
ingranaggio lento e ostacolato dalle chiacchiere dell’amico.
«Iniziano ad agitarsi; vai via, Remus. Ne
riparliamo questa sera» consigliò a bassa voce, spingendolo verso
l’uscita.
Remus si divincolò pacatamente.
E poi scosse la testa, indirizzandogli il più
deluso degli sguardi.
Oh, fottiti anche tu, Remus. Non è colpa mia.
° ° °
Lily stava ancora cercando di venire a capo di
due enigmi contemporaneamente (“Perché mai ho detto di sì,
ritrovandomi qui a perdere tempo?” e “Perché mai mi preoccupo di
Potter mentre fa le sue stupide acrobazie?”), quando scoppiò il
litigio.
Non stava seguendo le dinamiche della squadra –
stava pensando ad incantesimo da usare nel caso in cui James, James!,
fosse precipitato da un’altezza media di quattro o cinque metri – ma, da
quanto aveva capito, Mandy Vane – Cacciatrice, sostituta di Sirius –
aveva avuto un battibecco aereo con James, ripresa dal ragazzo per
chissà quali motivazioni, e, in un momento di rabbia, aveva scagliato la
Pluffa contro lui – mirando al suo naso, per inciso – sbalzandolo dalla
scopa.
Fortunatamente, era caduto da un metro e mezzo
d’altitudine, i danni furono irrilevanti.
Lily si sporse oltre la balaustra di metallo.
«Potter! Potter, stai bene?» domandò il Capitano
della squadra.
«Sì, benissimo. Vane, sei una maledetta
stronza!» imprecò, rialzandosi per affrontare di petto la ragazza che,
compiaciuta, incrociò le braccia al petto, sorridendo altezzosa.
«Adesso ho abbastanza mira, Potter?»
«Tu reagisci sempre così alle critiche
altrui?»
«Solo a quelle infondate» si compiacque,
dondolando sui talloni e ravviandosi i capelli lunghi capelli d’un forte
rosso acceso.
«Infondate? Infondate? Non hai messo a
segno una Pluffa, una!» si infervorò, facendosi più vicino. Il
Capitano dovette correre a trattenerlo; Potter era famoso per il suo
senso civico da maschio – secondo cui era da vigliacchi colpire una
donna, nonché un gesto ripugnante – ma il ragazzo, in quel momento, non
era certo che Potter ricordasse d’averlo, il senso civico.
«Calmati, tesoro; non è colpa mia,
dopotutto, se il tuo amichetto del cuore ha pensato bene di finire in
punizione a tempo indeterminato, né se il Capitano ha fatto e concluso
le audizioni in due giorni scarsi. Non gioco a Quidditch da anni, dammi
un attimo» spiegò, gesticolando blandamente, come se la conversazione la
tediasse profondamente.
«Hai avuto una settimana per allenarti»
ribatté lui prontamente.
«Ho una vita, oltre il Quidditch.
Studiare, fare i compiti, prepararsi agli esami, hai presente? Sai,
siamo in una scuola, se non te ne fossi accorto».
James strattonò il ragazzo che lo tratteneva,
sbuffando.
Si rassettò la maglia, passandosi le dita tra i
capelli.
«Non ho voglia di discutere con te.
Riprendiamo, dai» disse, rivolto agli altri. Montò sulla sua scopa e,
con un piccolo slancio, si librò in aria, compiendo due ampi giri di
campo, forse per rientrare in modalità Cacciatore.
Lily tornò a sedere, scrutando impassibile la
ragazza, Mandy Vane. Era una Grifondoro del sesto anno, non così
studiosa come aveva voluto far credere. Forse era proprio per questo che
James aveva preferito ignorare la questione.
Forse non voleva impelagarsi in una discussione che si preannunciava
lunga e logorante.
Ma ciò che la sorprese di più fu, appunto, il
suo inatteso self-control; non molto tempo prima, Potter si
sarebbe scagliato contro la ragazza – verbalmente, è inteso – perché il
suo senso civico da maschio esulava dagli insulti.
Prese anche in considerazione la sua presenza,
il fatto di saperla lì, a pochi metri da lui, ma le parve inverosimile.
Potter non era uno che le mandava a dire né si era mai preoccupato di
lei.
Lo sapeva fin troppo bene.
E, sebbene si sforzasse di darsi torto, in Mandy
rivedeva qualcosa di lei.
Riviveva la stessa arroganza con cui era solita
rapportarsi con lui, lo stesso sorriso impertinente che le piegava le
labbra, la stessa forte ironia delle sue parole.
Il paragone, vero o falso che fosse, la turbò e
la infastidì.
Distolse gli occhi dalla ragazza solo per
puntarli su James – una figuretta sbiadita e lontana – che gridava
qualcosa ai suoi compagni di squadra.
«Ciao».
Sobbalzò.
«Remus! Cosa fai qui?»
«Ogni tanto vengo a vedere James» spiegò
semplicemente, stringendosi nelle spalle e sedendo accanto a lei.
«E tu? Perché sei qui?»
Perché la mia testa ha qualcosa di guasto,
quindi anziché rifiutare, eccomi qui. È un po’ come gli incidenti
stradali, la carta igienica che manca e te ne accorgi solo quando sei
sul water, le pessime figure: cose che capitano, insomma.
«Non avevo niente da fare...» rispose invece,
sforzandosi di sorridere disinvolta.
«Come va con Black? James mi ha detto che avete
dei problemi, ultimamente».
Doveva ammetterlo: la tattica del mi faccio
gli affari tuoi prima che tu possa farti i miei e costringermi a
fare conti troppo complicati non era molto leale.
Ma Remus non ne sembrò infastidito. Anzi,
sorrise. Sorrise come se avesse assistito ad una piacevole sorpresa.
O forse era solo la sua mente a interpretare
male; probabile, dal momento che ne aveva già appurato un guasto
dire-fare.
«Va. Spero di risolvere tutto, stasera» spiegò,
piegando un po’ la testa per fissarla con curiosità.
«Cosa c’è?» chiese allarmata, rassettandosi i
capelli. Aveva qualcosa tra i denti? Un insetto sulla faccia? (Dovette
controllarsi per contenere la repulsione)
«Non te ne sei accorta, vero?»
«Di cosa?»
Lo vide stringere gli occhi per intercettare un
giocatore. Poi mosse il braccio, sollevandolo in un saluto. Potter,
ovviamente.
«L’hai chiamato per nome. Mi è piaciuta la
leggerezza con cui l’hai fatto, del tutto spontaneo... forse le cose
stanno davvero cambiando». L’improvviso tono rammaricato avrebbe dovuto
accendere in lei una scintilla di sospetto, nonché farle notare che
forse non si riferiva affatto a lei e Potter, ma era troppo preoccupata
per la prima parte della sua affermazione per badarvi.
«Lui è... diverso» disse, anche se
quell’aggettivo non era del tutto corretto. Avrebbe voluto dire nuovo,
ma non avrebbe avuto poi così senso.
«No, Lily; lui è così, lo è sempre stato;
solo, eravate troppo impegnati a urlarvi addosso per guardarvi».
Ancora una volta, gli occhi di Lily cercarono
Mandy, per trovarla e quindi abbandonarla immediatamente.
«Eravamo pessimi, vero?»
«Non direi. Eravate solo... immaturi.
Adesso che siete cresciuti non avete più così tanta voglia di strillarvi
addosso. Volete... no: avete bisogno di essere adulti e quindi,
vi venite incontro. In un certo senso, è come se vi stesse conoscendo
adesso» spiegò, sorridendo e salutando nuovamente James quando
questo sfrecciò davanti a loro, sollevando un turbine d’aria.
«Già, forse è come dici tu».
Realizzò che era come diceva lui. Remus
era una manna dal cielo per le povere indecise e mentalmente guaste
come lei.
Avrebbe potuto amarlo, in un altro universo.
E dire che al sesto anno si era quasi
convinta di provare qualcosa per lui, prima di realizzare che era
semplice affetto, che Remus era quel fratello che non aveva mai avuto.
«Spero che tu possa risolvere le tue
incomprensioni con Black, Remus, te lo auguro davvero».
Sorrise, lasciandole una carezza distratta sulla
mano.
«Lo speriamo un po’ tutti, Lily».
° ° °
«Grazie per oggi».
Il sole accendeva d’arancio il campo da
Quidditch, incendiandone l’erba che sapeva essere verde e brillante.
James, ancora umido di doccia, inforcò gli
occhiali, incamminandosi verso il castello. Lily lo affiancava e,
talvolta, il dorso delle loro mani sfregava, ma entrambi facevano finta
di niente: l’imbarazzo era palpabile.
«Prego» replicò scioccamente.
«Potremmo rifarlo...» buttò vagamente, infilando
le mani nelle tasche dei pantaloni.
Lily rallentò impercettibilmente, soppesando
l’affermazione.
Aveva tutta l’aria di essere una domanda
indiretta.
«Aehm... uhm...» biascicò, nel mentre che
cercava di risolversi a rispondere coerentemente. Sì o no. Non era poi
così difficile.
Ma in quel momento le sembrò la cosa più
complessa del mondo.
«Sabato prossimo, magari?»
Be’, quella era una domanda. Per niente
indiretta. Poco carino da parte sua; adesso doveva necessariamente
risolversi.
«Vacci piano, Potter; insomma, non saprei,
forse, o forse no».
«Non ti sei divertita, oggi?»
«Ma non è questione di divertimento...»
«Allora ti sei annoiata?»
«Ma non è una questione di noia...»
«Ti sto ancora antipatico, allora».
«Ma non è una questione di antipatia...»
«Pene» disse, voltandosi a guardarla. Lily
fissava un punto inesistente e rispondeva meccanicamente. E se la sua
teoria era corretta, avrebbe dovuto rispondere...
«Ma non è una questione di pene... Idiota!»
sbottò irritata, riavendosi.
«Mi piace come lo dici, sai? Lo ripeteresti
un’altra volta?» la provocò, azzardandosi perfino a tirarle una ciocca
di capelli.
E distrusse tutto nel giro di due secondi scarsi. Gli schiaffeggiò la
mano, allontanandosi come se si fosse scottata.
«Sei un maiale e non toccarmi i capelli! E
comunque è no, non uscirò con te, sabato».
«Dai, Evans... aspetta, rallenta... Evans, si
chiama “provocazione”, fatta in buona fede, per altro. Su, non fare la
permalosa...»
E, seppur nuova, diversa e stravolta da tutti i
cambiamenti, la routine ricominciò.
° ° °
Sirius si sentiva un’entità estranea al suo
corpo.
Non era più certo di essere lui ad ordinare alle gambe di muoversi.
Forse era l’inerzia, o la stanchezza, o la Divina Provvidenza. Chissà.
Quando entrò in Dormitorio, alle ventidue in
punto, si gettò a peso morto sul letto, prono e interamente vestito.
Che sensazione paradisiaca! Sarebbe scivolato nel sonno da lì a quattro
secondi, godendosi un lungo, ininterrotto, meritato riposo...
Poi però entrò Remus.
«Sei qui» constatò, uscendo dal bagno, infilato
nel suo pigiama nero a righe grigie.
(Era di Sirius, quel pigiama. Gliel’aveva
prestato molto tempo prima, quando Frank, in seguito ad un violento
litigio – era volato addirittura qualche spintone, aveva fatto sparire
ogni suo capo intimo, senza mai restituirli. Era inverno e Remus tremava
di freddo, seppur avvolto dalle spesse coperte di lana. Ricordava
d’essere sgusciato fuori dal suo, di letto, per rovistare nel baule e
porgergli quel pigiama.
Non ne era certo, ma gli era sembrato di vedere
gli occhi di Remus luccicare, come se fossero stati colmi di lacrime. Ma
era buio e non lo dava per scontato. A tutt’oggi, sapeva solo che James
e Frank, in seguito a quell’episodio, si parlavano a stento e con una
certa freddezza.)
«Sono qui solo fisicamente; in realtà non sono
davvero qui» lo informò, la faccia affondata nel cuscino. Remus
dovette chinarsi per decifrare il suo mugolio indistinto.
«Sei stanco?»
«Sono molto più che stanco».
«Allora ti chiedo una risposta sintetica e
veloce. Ne ho bisogno» aggiunse, sedendo accanto a lui. Tanto bastò per
far voltare Sirius. Aprire gli occhi fu uno sforzo insolitamente
dispendioso.
E tra tanta stanchezza, brillò un barlume di
lucidità; improvvisamente, seppe cosa dire. Parola per parola, nel modo
più conciso e preciso possibile.
Era fiero della sua mente: aveva lavorato come e
meglio di quella di Remus.
«So che sei uno dei miei migliori amici, Remus,
ma non provo altro che affetto, per te. E ti prometto che d’ora in poi
mi comporterò come al solito e se avrò dubbi circa il tuo comportamento,
te lo dirò. Posso dormire, ora?»
Remus sorrise, come se fosse finalmente in pace.
O piombato all’inferno, dipendeva dai punti di vista.
«Sì, adesso puoi dormire».
E come se gli avesse gettato addosso un
incantesimo, Sirius chiuse gli occhi e s’addormentò. Il suo respiro
divenne lento e placido, regolare e misurato.
Remus non riuscì a trattenersi e, accertatosi
che fossero effettivamente soli – a proposito, dov’erano tutti? – liberò
la fronte dai capelli scuri, spingendoli indietro. Trattenne lì le sue
dita anche molto dopo che le ciocche furono ben lontane dal viso,
saggiandone la consistenza, come a volerla imprimere tra uno strato
d’epidermide e l’altro.
Avrebbe voluto avvicinarsi, respirare il suo
profumo, forse baciarlo, ma non sarebbe stato corretto.
Un bacio in cui Sirius era incosciente bastava e
avanzava.
Così, gli indirizzò un sorriso parimenti triste
e amorevole; poi, si alzò e s’infilò nel suo letto.
E anche per lui, da domani, sarebbe iniziata una
nuova routine.
° ° °
Lily aveva deciso di scrivere a James.
Non un telegrafico biglietto, ma una lettera.
Una di quelle vere, di quelle con le cancellature e con le emozioni
inespresse infilate tra una riga e l’altra.
Era già a buon punto quando Mary sedette sulla
scrivania, fissando Lily e iniziando a giocare una ciocca dei suoi
capelli rossi.
Il gesto, tanto affettuoso e tanto amichevole,
nonché appartenente alla vecchia Mary, quella che amava profondamente,
le fece venire le lacrime agli occhi.
Sciocchezze; è solo un po’ di polline.
(Le venne quasi da ridere: il suo tentativo di
ingannarsi fu così goffo che si domandò dove diavolo mai avrebbe potuto
esserci del polline, là dentro)
«Sono stata una vera stronza, in questi giorni»
disse tranquillamente, iniziando ad intrecciare la ciocca che stringeva
tra le dita.
«E come darti torto?» sbuffò l’altra, mettendola
poi al corrente dei recenti sviluppi: l’uscita con James – Potter,
Lily, Potter, non James! ... oh, al diavolo, io lo posso chiamare come
mi pare, nella mia testa – il suo tentativo di sabotare
l’appuntamento, tutto.
Mary non si prese neppure la briga di negare.
Non era da lei, dopotutto.
Aveva un contratto con la verità, o qualcosa del
genere.
«Ti ricordi quando mi dicesti di trovare un
ragazzo che potessi amare?»
Annuì, intuendo con orrore dove volesse andare a
parare.
«Be’, ho sempre avuto questa... cosa, per
James. Non mi sono mai preoccupata di te, non ti ho mai vista come una
rivale. Ti volevo bene, eri mia amica e, soprattutto, vedevo come
trattavi James e come lui ti guardava. Poi, però...» fece una pausa e il
suo viso si accartocciò in una smorfia di disappunto. Sbuffò.
«Poi però ho iniziato a vedere i cambiamenti. La
tua antipatia era svanita e lui ti guardava... ti guardava come se tutto
il resto fosse solo un’ombra. Ho iniziato a considerarti una rivale, ma
a quel punto era già tardi. E poi, oggi vi ho visti al campo... il modo
in cui interagivate... forse un giorno, molto vicino, ti sveglierai e
capirai di esserti innamorata di lui – è così palese! – e fino ad allora
io mi sarò messa l’anima in pace. Quel tentativo di sabotaggio è stato
una stronzata, lo so; di fatto, non ha funzionato neppure un po’, anzi!»
rise, scuotendo la testa.
Lily si sentì paralizzata.
Era ancora più orribile di quanto avesse
immaginato.
La sua migliore amica incredibilmente innamorata
di James. Certo, ebbe la premura di non dirle che l’ultima parte del suo
discorso faceva acqua da tutte le parti.
Sentiva fosse vero: non era innamorata. Non in
quel momento, almeno. Tra lei e Potter si era solo instaurata una nuova
complicità, una forma di tolleranza.
Erano cresciuti, come aveva detto Remus.
Avrebbe potuto dirle di non preoccuparsi, di
gettarsi, ma non volle.
Per una ragione confusa e che le sfuggiva, non
volle farlo.
«Mi dispiace» disse invece, chiudendo il suo
quaderno. Nascondendo quelle parole che, adesso, sembravano tanto
inopportune, private del loro originario valore.
«Non farlo; hai una grossa fortuna per le mani,
non lasciartela scappare. James non guarda nessuna come guarda te. Forse
un giorno o l’altro te ne accorgerai. E io... ah, io non starò certo qui
a struggermi per lui!» squittì, saltando giù dalla scrivania, tornando
ad essere la Mary vanesia e spensierata di sempre.
«Ne sei sicura?»
«Sono rassegnata, Lily. E poi, forse me la
prendo tanto perché lui è l’unico che non mi ha mai guardata, che non si
è mai interessato a me, chissà... So solo che adesso andò a farmi una
doccia, lo shopping mi sfianca e mi fa sudare» disse, chinandosi per
baciarle la guancia.
Poi, a balzelli, sparì nel bagno.
Lily restò a fissare il muro, intontita.
Avrebbe voluto analizzare la cosa, sviscerarla
fino alla morte, ma non adesso.
Domani. Domani sarebbe stata domenica, avrebbe
avuto un sacco di tempo libero per spenderlo su quei pensieri.
Aveva bisogno di dormirci su, sì. Dormire,
riposare, dare alle cose la giusta collocazione nella scala
dell’importanza. Staccarsi da quell’assurdo mondo che era il suo per
essere scaraventata in quello onirico, altrettanto assurdo ma
momentaneo, parallelo, scollegato dalla realtà.
Si gettò le coperte addosso e, mossa da chissà
quale volontà, aprì il cassetto per tirarne fuori i biglietti che James
le aveva inviato non molto tempo prima.
Li lesse fino ad impararli a memoria, li lesse
fino a consumare le energie e scivolare in un sonno profondo e compatto,
buio.
Ci fu una sola certezza che l’accompagnò nel
riposo: da domani, sicuramente, tutto sarebbe cambiato.
E non vedeva l’ora di scoprire come.
NdA: Infine, giunsi.
No, non è una poesia né il mio epitaffio
(sarebbe carino però; quasi quasi me lo segno).
È la fine di questa fanfiction *so sad*.
Ma eravamo tutti belli e preparati, quindi
ricacciamo indietro le lacrime e mettiamo da parte i sentimentalismi.
E quindi sì, è finita.
Così, in maniera molto leggera (be', mica
tanto). In verità, non si è giunti a nessuna conclusione; le coppie sono
rimaste in sospeso, ma non era questo che mi importava. Mi importava far
emergere i cambiamenti e tutto il resto. L'importante era il viaggio,
non la meta.
E spero vivamente che questo si sia notato, che
tra il prologo e l'epilogo - e tutto quel che c'è in mezzo - si noti la
differenza e che tale differenza non sia troppo netta, ma graduale.
Non ho altro da aggiungere, credo; per qualsiasi
problema, critica o dubbio, però, non esitate a contattarmi.
E passiamo adesso ai ringraziamenti, che sono
d'obbligo in ogni capitolo, ma ancor di più a fine storia.
Perciò, un sentito, immenso, sincero
GRAZIE a
March, che mi segue dall'inizio e non si è mai persa un capitolo,
che mi ha allietata con le sue frecciatine ironiche;
lietome, che si è aggiunta negli ultimi
capitoli e ne sono davvero contenta, di questo; a
betabi, che mi ha sempre fatto sorridere con il suo entusiasmo; a
Libra, che è un po' una delle mie
official supporters e che mi segue ovunque e io, di questo, non
posso che esserle grata; a Nipotina, cara,
simpatica ragazza che ho avuto il piacere di conoscere a tre quarti
della storia e che non manca mai di commentare quando la taggo nei miei
stati Facebook; a Silver_River, che mi
segue da parecchio, in questa storia e altrove, e che è stata sempre
puntuale nell'esprimere il suo parere; a Lucky,
che mi segue davvero ovunque, che mi dedica tanto del suo tempo,
recensendo sempre fin nei minimi dettagli e che sì, le sono affezionata,
dopo tutto questo tempo; a Jè, la mia fan
numero uno, lei che mi segue davvero ovunque, in qualsiasi fandom e che
è la spalla migliore che una fanwriter possa desiderare; a
Nali, mia sorella, mia mogliA e mio
respiro, che segue questa storia sin da quando neppure esisteva (!) e
che mi ha sempre, sempre spronata a fare del mio meglio, anche quando
volevo prendere e mollare tutto; a Frency,
che mi contatta su FB per chiedermi spoiler su spoiler, che era
disperata perché si perdeva questo capitolo, che ama questa storia; a
Puccetta (Silvia), che ha seguito questa
storia e che le è piaciuta nonostante fosse una Jily; a
Dan, che non si è mai persa un tag.
Grazie a voi, che mi avete lusingata con i
vostri complimenti che, nonostante gli sforzi, sento di non meritare;
non perché vi consideri dei bugiardi - figurarsi! - ma perché ho dei
seri problemi di autostima, ragazzi.
A voi, che mi siete rimasti accanto fino alla
fine.
(La sto tirando troppo per le lunghe, vero?)
Grazie a voi, che avete fatto raggiungere cifre
vertiginose a questa fanfiction: 47 preferiti, 16
ricordate, 120 seguite e 162, meravigliose recensioni.
E grazie anche a voi, che avete
letto in silenzio: spero almeno che abbiate
apprezzato. :)
E adesso è davvero il caso di tagliare. Ci
ribecchiamo presto in giro, con qualche altra Jily (non long, però!).
Con affetto,
Sara aka Roxar aka La Rana.
Passo e chiudo.