Prima di un nuovo oblio

di Libra Prongs
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Prima di un nuovo oblio
 



Ho sviluppato un’avversione per le fotografie.
Immagini di me troppo nitide perché possa obliarle come ricordi offuscati dal tempo, impresse su carta fragile e cedevole.
Come le mie ossa, la carta crocchia.
Scricchiola.
E ciò che era memoria immediata diviene conquista.
La conquista delle fibre di cellulosa nel compattarsi in solida carta malgrado le crepe; la conquista della mia mente nell’accostare i pezzi isolati, gli sprazzi improvvisi, i colori e le luci e i rumori per ricreare il ricordo.
Malgrado le crepe, provo da sola a ricostruire le fotografie.
Invano.
Immagini di me troppo nitide perché possa obliarle come ricordi offuscati dal tempo, le oblierei — potessi volerlo.
Ma spariscono da sole, dall’oggi al domani, lasciandomi esistere sospesa.
Appigliata a un passato che so di avere perché è impresso qui, tra le pagine di quest’album, ma che non rammento che a flash.
La mia memoria lavora per flash e scatti e fotografie.

“Sorridete e dite… Alzheimer.

So di non avere più molto tempo per essere me, benché mia figlia tenda a esorcizzare con un sorrisino tremulo il timore che io smetta di riconoscerla, e parla, parla tanto — di età che avanza e normalissime conseguenze del tempo, di Albus che ride poco e la abbraccia stretta, del frigo sempre troppo vuoto a suo giudizio.

Hugo, d’altro canto, tace e mi bacia con gli occhi lucidi — ho il terrore che pianga, non visto.

Tu sei così giovane sotto i miei polpastrelli e, ne fossi in grado, pronuncerei il tuo nome con voce carezzevole.

Ron viene a trovarti spesso, torna da me con delle fragole fuori stagione e riposa sul suo dondolo, fissa un punto con sguardo truce e mi osserva di sottecchi. Continua a farlo.

Oggi piove.
Sfoglio le foto e ripeto a me stessa, come ogni giorno, che:
Una volta avevo un gatto fulvo, Ron lo detestava.  
Il gatto aveva una curiosa predilezione per te; in tua presenza non soffiava. Mai.
Quell’anno temevo scioccamente di essere bocciata all’esame di Trasfigurazione.
Ho volato in groppa a un Ippogrifo.
Mi piace il tè con due zollette di zucchero.
Hai gli occhi verdi e la tua torta preferita è quella di melassa, ti piace la Burrobirra con una spruzzata di zenzero e detesti quando ti si accusa di essere ostinato, ma lo sei fino al midollo.
Ti manca la tua civetta delle nevi.
Non ami i luoghi affollati.

So più cose di te di quante ne sappia di me.
Ma non ricordo il tuo nome e mi sembra di impazzire.  
Ci riprovo, ancora una volta, agitandomi un po’ mentre Ron sospira forte.
Hai gli occhi verdi e la tua torta preferita è quella di melassa, ti piace la Burrobirra con una spruzzata di zenzero e detesti quando ti si accusa di essere ostinato, ma lo sei fino al midollo.
Ti manca la tua civetta delle nevi.
Non ami i luoghi affollati.

Una volta ero con te sotto la pioggia, tu non potevi vedermi. Piangevo.
La tua lapide è grigio chiaro.
Tu sei così giovane sotto i miei polpastrelli. Non so il tuo nome.
Non so nemmeno se sono io quella cui stringi la spalla, in questa fotografia.  
Lo ero.
Ma adesso non so il tuo nome.
Non so più il mio. Non sono io.
Se tu non ci sei — e io non ricordo, non ricordo perché diavolo sei morto — io non sono.

Ron continua a guardarmi, ha la testa tra le mani e vorrei dirgli qualcosa — vorrei tanto.

Ma non so il tuo nome e lo osservo disperata; si avvicina.
Come ogni giorno, mi scosta i capelli grigi dalla fronte e, come ogni giorno, i suoi occhi azzurri mi scrutano.

«Harry, si chiama Harry» sussurra. Come ogni giorno.
E il sollievo zampilla dal cuore alle labbra, sorrido felice.
«Harry» ripeto, affidando al tuo nome la mia preghiera.

Aiutami a ricordarti, ricordami chi sono.
Ancora per poco, prima di un nuovo oblio. 


 





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