Ubriaco Canta Amore.
A Michele e Matteo. Agli ubriachi d’amore.
Ubriaco Canta Amore è © Bandabardò. Ma di questa bella
canzone qui c’è rimasto solo il titolo, purtroppo… avevo pensato di sviluppare la
*cosa* intorno ad essa, ma scrivendo è cambiato tutto -_-’
*Ed eccolo, il nostro cavaliere.
Ritto in sella: fiero ed elegante nel suo mantello di
velluto indaco; nobile e ardente saetta lo sguardo sotto il cappello piumato.
Il suo destriero dal crine sanguigno corre sulla strada che
trafigge la brughiera di brina lunare e argentea, pronto e scattante sotto le
sollecitazioni del padrone.
Ha fretta, il nostro cavaliere.
Andrà a salvare qualche svenevole pulzella dal peggiore
dei draghi?
O a lanciare il suo guanto di pelle chiara a qualche suo
mortale nemico?
O ad offrire il suo aiuto a qualche signore in
difficoltà? Chissà.
Fermati, o paladino nostro. Fermati e raccontaci la tua
storia…
Ok, tanto per cominciare io non sono un cavaliere. Io sono
un bandito. No, non insistere, mocciosetto: non è più o meno la stessa
cosa. Io sono libero come l’aria, vivo senza debiti né crediti con
nessuno, faccio quello che mi pare. Credo che se fossi nato femmina avrei fatto
la puttana. Ma poi alla fine la mamma mi ha fatto maschietto e anche se mi ha
dato un nome stronzo come Michele ne sono abbastanza contento. Soprattutto per
quando mi appunto sul petto la spilla Ti Sborro In Faccia. In ogni caso, ecco,
sono un guerrigliero, un attentatore, un autonomo. Non certo un, puah,
cavaliere.
Poi, non sto ritto in sella ma tranquillamente sciallato sul
sellino della mia Honda, fiero ed elegante nel mio giubbotto di pelle. E il mio
sguardo, ardente più che nobile, è protetto dalle lenti scure dei Predator.
E ho fretta, sì. Alla mia svenevole pulzella si è fermata la
macchina in un autogrill, e, siccome mi ha chiamato almeno mezz’ora fa per
avvertirmi, penso che quando arriverò da lei la sua incazzatura si sarà
evoluta in primordiale istinto omicida. Nei miei confronti. Ergo per non
peggiorare le cose do gas, faccio una pinna, scalo la marcia. Ergo le macchine
rientrano subito nella corsia normale mentre io mi caccio in quella di
sorpasso. Mi scappa un ghigno. Ma come sono bastardo.
Giro nel primo autogrill che incontro, avvolto nell’autorità
svogliata che mi perseguita da quando ho imparato ad allacciarmi le stringhe da
solo.
Noto subito la Jeep scoperchiata nel parcheggio. È l’unica
nel suo genere, penso. Chi altro potrebbe pensare di tenere la capote aperta di
notte con questo freddo? Mi scappa un altro ghigno.
Poi mi maledico, perché nonostante tutto non è ancora
tornato tutto come prima, dopo quella sera nefasta. Mi rimane un certo
senso di orgoglio e soddisfazione, quando ci penso. Merda.
E mi maledico ancora perché non ho capito un cazzo. Non ho
capito se sa che ci siamo baciati, corchi persi, o se non ricorda.
E mi rimaledico perché continuo a farmi seghe mentali per
una cosa che può essere accaduta ma poi-sì-forse-magari-no. Eccheccavolo, un
po’ di contegno.
Comunque posteggio accanto al fuoristrada e mi allontano
verso il bar. Ho le mani gelate dal vento sferzante e dal freddo dell’inverno
incipiente: una cioccolata non me la leva nessuno.
Entro scatenando le moine del campanello appeso sopra la
porta.
Matteo mi vede dal fondo del locale e sbraitando e facendosi
strada in mezzo alla gente con il suo carisma distribuito in spintoni e i suoi
occhi da gatto infuriato sempre fissi nei miei avanza verso di me. Eccola, la
mia svenevole pulzella, che in un secondo mi ha già aggredito.
Sbraita “Toh, lo stronzo! Si può sapere dove cazzo ti eri
cacciato, maledetto di uno?”. È più basso di me, e più esile, anche, ma
quando vede che reagisco con un sorrisetto irriverente alla sua rabbia mi molla
un pugno nello stomaco che schivo per un pelo. Devo bloccargli i polsi per
impedire che mi faccia male sul serio.
Un tre ante baffuto si avvicina accigliato. Dice “Se avete
la situazione sotto controllo, devo chiedervi di uscire, o mi farete evacuare
il locale”.
Prima che Matteo possa investirlo con una sequela di insulti
spaventosi riesco a guidarlo fuori. Sospiro: niente cioccolata…
Non appena gli libero il polso, schizza via come una molla.
Mentre gli vado dietro dico “Ehi, stronzetto! Guarda
che per farti venire a prendere mi hai svegliato in piena notte! E per di più
mi hai fatto fare un pezzo di autostrada e mi hai impedito di bere una
cioccolata calda! Non mi pare che possa fare lo schizzinoso, adesso… ma
dove cazzo vai?”.
Lo vedo svoltare dietro un camion, poi mi arriva la sua voce
ridotta ad un sibilo, sarcastica e incazzata “A pisciare, va bene? Posso farlo,
questo, da solo?”.
Vado verso il mio tesoro e metto in moto. Lo lascio qui,
questo stupido essere, e me ne torno a dormire. Che si fotta, lui coi
suoi scheletri nell’armadio che non vuole tirare fuori. Mi chiama perché ha
bisogno e poi mi manda affanculo così. Mica è colpa mia se uno è complessato e
non vuole parlarne. Siamo amici, ok, ma questo non gli dà il diritto di
trattarmi a pesci in faccia.
Mentre sto partendo lo vedo passarmi davanti incerto.
D’accordo, d’accordo. Sospiro, rimetto il cavalletto alla moto e lo raggiungo
nella sua Jeep. Mi siedo vicino a lui e mi metto comodo accendendomi una rossa.
Gliene passo una e gliela accendo con la mia.
Lo guardo rilassarsi un po’, quindi dico “Cosa succede?”.
Credo di avere un tono patetico, cazzo. Mammachioccia. E sparatemi pure
al cuore.
Matteo allunga un dito e me lo passa sulla fronte. Sorride.
Dice “Ti sei mai accorto che quando sei preoccupato per me ti si forma una ruga,
proprio qui?”. Almeno anche lui è sul patetico andante, e non devo nemmeno
sentirmi imbarazzato come un riccio senza aculei, deo gratia.
Inarco un sopracciglio. Rispondo “Chi ti ha detto che sono
preoccupato per te?”.
Mi guarda incerto, di nuovo, il sorriso sparito. Dico “Non
me n’ero mai accorto”, distolgo lo sguardo come se avessi scoperto che tutto a
un tratto qualcuno è in grado di leggermi nel pensiero. Beh, più o meno è così.
Ripeto “Che succede?”.
Butta fuori un “Succede che mi sono rotto di avere sempre
bisogno di qualcuno che mi tiri fuori dai casini e mi guardi le spalle”,
così, con nonchalance.
Ehi, mocciosetto, guarda dove metti i piedi. Quello lì per
terra è il mio stomaco, chiaro? Non pestarlo, ci ha già pensato la svenevole
donzella a ridurlo in pappa.
Lo guardo e mi sembra di avere l’espressione dell’animale
ferito. Ma non riesco a far altro se non guardarlo.
In un angolo del mio cervello c’è la voglia di alzarmi e
andarmene di qui. Purtroppo è un angolo del mio cervello ben nascosto.
Alla fine erutto “Basta dirlo”, ma non so neanch’io cosa
voglia dire perché mi sento materialmente incollato sul posto e spiritualmente
lontano diecimila miglia da qui.
E penso che Michele-l’uomo-navigato è uno stronzo, perché
gli basta una cazzata del genere per crollare miseramente. Gli basta una
cazzata del genere per sentirsi peggio che dopo essere stato scaricato da, non
so, Pamela Courson. Vaffanculo, Michele, ok?
Matteo fissa un punto imprecisato sul vetro, mi sembra in trance.
Mi sfiora l’idea di riempirlo di pugni e piantarlo qui. Poi mi risolvo
ad accendere un’altra rossa.
Dice “Voglio cavarmela da solo” e non mi sembra tanto
convinto. In ogni caso penso di averne avuto abbastanza, di pare, ed esco dalla
macchina.
Ma non mi è ancora dato sgommare, perché scende anche lui e
mi si piazza davanti. Dice “Il fatto è che mi sento come un animale
nella gabbia di uno zoo. Ogni tanto qualcuno si ferma a guardarmi o
fotografarmi ma nessuno mi porta via”.
Sono tanto tentato di metterlo sotto, perché non voglio
addentrarmi in questi discorsi scabrosamente esistenziali. Non voglio e basta,
non ci dev’essere per forza una ragione, mocciosetto. Chiedimi la testa di
qualcuno, una partita di avana contrabbandata, un carroarmato della prima
guerra mondiale in buone condizioni. Ma non di parlare di questo a Matteo.
Alla fine chiedo “Allora è questo il problema?”. Per lo meno
è una frase che non implica niente.
Matteo mi guarda mordendosi un labbro. Risponde “Non lo so
qual è il problema”.
Gli dico brusco “Allora, hai un problema con la macchina e
mi chiami. Io vengo. Poi mi mandi allegramente affanculo. Poi hai un
problema ma non ce l’hai e se ce l’hai non sai qual è. Amico, io di problemi ne
ho abbastanza da non crearmene di nuovi. Vuoi un consiglio? Risolvi quelli
vecchi, poi si vedrà”.
E sono proprio arrabbiato. Lui esala qualcosa tipo “Lo
sapevo”. E io mi incazzo ancora di più.
Gli urlo “Matteo, cazzo, ma cosa c’è? Hai qualche problema
con me?”. Bestemmia, si gira, se ne va verso la macchina. Così smonto per
l’ennesima volta, mollo la moto alla cazzo e lo seguo correndo, bestemmiando
anch’io per gli orridi sfregi di cui adesso avrò dotato il mio tesoro
lasciandolo cadere così sul cemento. Lo tiro per un braccio e lo faccio
sbattere contro la fiancata spartana della Jeep. Ma dal fatto che non mi guarda
capisco che c’è qualcosa che non ha ancora tirato fuori. Dico “Matteo…”
con tono piuttosto esasperato, non capisco cosa gli prenda stasera e ancora
meno capisco cosa prenda a me che non sono capace di andarmene, merda.
Alla fine mi guarda, e mi sembra arrossito. Lo lascio
andare, piego le braccia una sull’altra. Dico “Dimmi cosa vuoi che faccia,
adesso”.
Apre la bocca ma mi sembra di assistere ad una di quelle
scenette da film muti, lui parla e non esce voce. Vorrei un telecomando per
alzare il volume. Vorrei non essere così esasperato e vorrei non pendere
dalle sue labbra e vorrei essere nella mia cazzo di casa a dormire sotto
le mie cazzo di coperte o meglio a bere una cioccolata calda. Vorrei una cioccolata
calda.
Alla fine dice “Portami via”. E io non capisco. Non
capisco davvero, mi sto girando per andare a recuperare la moto che ho lasciato
cadere sul cemento e il casco e sto pensando a quanto è stata strana
questa ultima ora quando due braccia mi avvolgono la vita. Due braccia fasciate
in un maglione grigio che mi chiudono in una morsa. E qualcosa mi si
scioglie all’altezza del plesso solare mentre realizzo che non mi dispiacerà
avere un animale in casa, non mi dispiacerà affatto, e poso le mie mani
ormai tiepide sulle sue fredde sorridendo al pensiero di girarmi e assaggiare
le sue labbra, magari sperando che sappiano di cioccolata calda, e sarà il caso
che adesso tu chiuda il sipario, mocciosetto, perché il cavaliere, o meglio il bandito,
alla fine è riuscito a salvare la sua svenevole pulzella.*