Ebbene sì…
Ebbene sì… Ebbene sì…
Avevo detto che
non lo avrei fatto…
Ed invece l’ho fatto… Questo è il seguito di 'Last
night a rocker saved my life (but not my broken heart)' e di 'Rock my life'... La coppia Mac e
Tom...
Non dirò altro,
solo che spero che vi piaccia anche più degli altri due capitoli!!! E che mi
recensirete il doppio, ovviamente, ma questo lo dico sempre!
Per la
vostra felicità.... cioè, anzi, diciamola così, ho dovuto mettere ROSSO come
rating, purtroppo... e capirete perchè...
Quindi, che lo
spettacolo inizi!
With love -
RubyChubb
DISCLAIMER: i personaggi
qua sotto citati, esclusi quelli di mia invenzione, non sono stati utilizzati
per scopo di lucro. Né intendo dare con questa storia rappresentazione veritiera
delle loro vite. Se, in fondo ad ogni capitolo, non ci saranno disclaimer su
personaggi, canzoni, o quant’altro inventato da altri citati nel chap, si
considerano comunque ‘no scopo di lucro’.
1. NOTHING LASTS FOREVER
Andò con
noncuranza verso la porta, grattandosi la gamba. Sbadigliò, senza mettersi la
mano davanti alla bocca. Starnutì, come faceva sempre appena sveglia. Beh, era
pomeriggio inoltrato… una dormita un po’ troppo lunga, ma necessaria, se andava
a letto alle cinque del mattino.
Passò davanti a tre porte: un’altra camera, un bagno, camera degli ospiti….
Qualcosa la bloccò…
La fece tornare indietro, sui suoi passi.
Uno, due, tre quattro passi indietro, davanti alla porta del bagno.
Una cosa fastidiosa, talmente insopportabile, così indescrivibilmente odiosa le
entrò come una trave dentro l’occhio.
La tavoletta
del gabinetto alzata.
Decise che era da troppo poco tempo in piedi per potersi arrabbiare.
Uno, due, tre, quattro passi avanti.
Poi un altro oggetto la spinse a indietreggiare.
Un paio di mutande penzoloni sul bordo della vasca.
Si era appena svegliata, non poteva farsi montare l’incazzatura per quel cazzo
di paio di cazzose mutande su quel cazzo di bordo della vasca.
Uno, due,tre… nemmeno il quarto passo in avanti.
Tornò di nuovo indietro, in cerca di qualche altro pugno nell’occhio.
Scarpe da ginnastica puzzolenti vicino al lavandino.
Quello era troppo. Non era semplicemente la classica gocciolina che faceva
traboccare il vaso. Era il macigno che si staccava dal fianco della montagna e
cadeva direttamente dentro al bacino artificiale e squarciava completamente la
diga, portando via tutto nel raggio di circa trenta chilometri.
Prese le mutande. Prese le scarpe.
Uscì dal bagno.
Si ricordò della tavoletta.
Tornò nel bagno e la abbassò.
Visto che c’era, tirò anche lo sciacquone.
Tornò fuori dal bagno, con in braccio il risultato del suo pessimismo
quotidiano, e andò nella camera da letto. Con la mano rimasta libera scostò la
tenda nera, facendo entrare il sole di settembre dentro la stanza.
Un gorgoglio sotto le coperte. Una richiesta di pietà. Voleva dormire ancora…
solo cinque minuti.
“Cinque minuti…”, ripetè lei, mentre si stropicciava il naso. Quando il
naso pizzicava, era segno che una bella litigata era in arrivo…
“Dai… ti prego… abbiamo fatto tardi ieri sera.”
“No… tu hai fatto tardi. Io volevo tornarmene a casa presto. Stamattina avevo
un colloquio, meno male che ho potuto spostarlo a domani.”, disse lei. Si stava
quasi dimenticando delle scarpe e delle mutande che aveva in mano, “E comunque…
questa roba qua! Lo sai qual è il suo posto!”
"E che palle… erano le cinque di notte! Chiudi un occhio almeno per questa
volta!”, disse lui, scostandosi definitivamente le coperte dalla faccia.
“Te lo chiudo io uno occhio… Kaulitz!”, esclamò lei, prendendo una scarpa e
iniziando picchiarlo sulle gambe, ma non troppo forte. Anche se a volte avrebbe
voluto strozzarlo con le sue mani… poi non riusciva mai a farlo!
“No… smettila! Basta! Mi fai male!”, disse Tom, cercando di fermarle le mani,
“Sei una serpe Rosenbaum!”
***
Non ci poteva
credere.
Quello che si era promessa di non fare mai e poi mai, all’inizio della loro
storia tormentata, che sapeva tanto di telenovelas, era concedersi alla stampa.
Cioè, era lui quello famoso, lei era la ragazza di provincia. E come si diceva
popolarmente, lei era la grande donna (dietro) del grande uomo. Grande… era Tom
Kaulitz, non John Fitzgerald Kenney o Orson Welles.
Ma cosa ci poteva fare? Già dopo due mesi che si frequentavano, iniziavano ad
essere pubblicate fotografie di una strana e infida ragazza che si intrufolava
in casa Kaulitz… e non era la signora che faceva loro le pulizie. Poi uno
scatto di un bacio rubato in macchina, davanti alla casa di questa ragazza. E da
li si seppe tutto: nome, cognome, data di nascita, professione… insomma, la
carta di identità di Mackenzie Rosenbaum pubblicata su tutti i giornaletti
stupidi delle ragazzine.
Domande idiote all posto di lavoro, sguardi strani dei suoi amici… poi qualche
fotografo che si piazzava sotto casa sua. Occhiatacce delle ragazzine che
incontrava nei centri commerciali. Paroline poco amorevoli alle sue spalle.
Insomma, non era da tutti i giorni vedere la propria faccia pubblicata sul
giornale! E non era da tutti i giorni essere odiata da delle perfette
sconosciute. E non era nemmeno da tutti i giorni trovarsi una lettera di
minacce, scritta con le lettere tagliate dai giornali, infilata nella cassetta
della posta.
Ma quando iniziò a diventare paranoica, non per le minacce verbali, ma per gli
scatti dei giornalisti, decise che era meglio dare retta a Tom. Cambiare casa.
Lasciare la casa che aveva acquistato, lasciare il mutuo che le pendeva come la
spada di Damocle sul collo, lasciare la terribile vicina di casa e tutti i suoi
gatti che le facevano venire l’allergia…
Per andare dove?
Ma
che bella idea! Fare bagagli, valige, scatoline e scatoloni, prendere tutta la
propria vita e impacchettarla con i vecchi giornali.
Lo odiava.
Le era bastato farlo quando si era trasferita dalla vecchia casa di sua zia a
quel suo appartamento. E aveva sperato di non farlo mai più. Ma cosa aveva
potuto dire quando un paio di occhioni castani le avevano chiesto, prendendole
teneramente la mano, di andare a vivere con lui? Cosa aveva potuto dire, se non
sì…
“Cosa?!? Non ci penso nemmeno a venire a vivere con te! Già litighiamo
ottantasei ore su ventiquattro!”, disse Mac a Tom, “Non voglio finirmi la bile!”
“Ma senti cosa devo sentire… sei proprio… sei proprio…”, disse lui,
infiammandosi.
“Sono ragionevole Kaulitz.”, disse lei. Ancora lo chiamava in quel modo. Non
era capace di chiamarlo Tom… E lui non poteva chiamarla in altri modi se non
Rosenbaum, oppure Rose, se proprio voleva essere romantico.
Lui aveva scosso la testa, calcandosi il capellino sulla fronte. Era segno che
la discussione era finita per lui, che non sarebbe più stato a sentirla. Poi
lei lo aveva preso per la mano, tirandoselo verso di sé.
“Sei proprio sicuro di quello che mi stai chiedendo?”, gli disse dolcemente,
guardandolo negli occhi.
“Certo che sono sicuro… nessuno sa che abitiamo qui. Così staremo tutti più
tranquilli e tu non sarai assediata da ragazzine idiote e dai fotografi.”
Mac, che per un attimo aveva sperato di sentire quelle determinate parole,
rabbuiò il suo viso.
“Ah! E’ così? Allora tu non me lo stai chiedendo perchè vuoi vivere con me,
perchè mi ami… ma solo perchè vuoi togliermi da un impiccio!”, fece, esplodendo
di nuovo.
Era così.
Finita una litigata, ne iniziava un’altra.
Ma tutti sapevano che la catena non si sarebbe spezzata molto facilmente. Lo
sapeva anche Bill, che viveva insieme a loro. Da quel famoso natale, aveva
assistito a tutte le loro discussioni casalinghe ed aveva alzato il volume del
televisore, passivamente, come fanno i figli durante i bisticci dei genitori.
Oramai ci era abituato! E non gli dispiaceva che Mac fosse venuta a vivere
stabilmente in casa sua. Da quando c’era lei aveva notato il profondo
cambiamento di Tom e ne era rimasto molto contento. Almeno lei riusciva a
metterlo in riga!
Accanto ai Tokio Hotel, aveva affiancato una prosperosa carriera televisiva,
accoppiato con quel gran pezzo di gay quale era Thiago, il migliore amico di
Mac. Avevano creato insieme una serie televisiva di successo, chiamata
‘Primadonna ed Io’, in cui entrambi recitavano. Il protagonista non era Bill,
che interpretava un modello esasperato di se stesso, cioè il cantante famoso e
le sue crisi da star, ma Thiago, il suo manager ad alto potenziale omosessuale
e le strane vicende che ogni volta si creavano tra i due ed il mondo dello
spettacolo. Era un telefilm molto seguito e la seconda serie, che era stata
trasmessa fino all’inizio dell’estate, aveva visto la partecipazione di
numerose star del jet set tedesco, ma anche internazionale, che interpretavano
se stesse o personaggi ‘anonimi’, creando gag abbastanza esilaranti, di solito
basate sul non sense e sui fraintendimenti.
Insomma, la casa dei Kaulitz era diventata una specie di porto franco. Grande
com’era, riusciva ad ospitare benissimo i due fratelli, Mac ed anche Thiago,
che vi risiedeva nei periodi in cui c’era da lavorare in terra germanica.
L’unico piano in comune era il piano terra: il secondo era riservato a Bill e,
eventualmente, c’era la camera di Thiago. Il terzo era di Tom e Mac. Anche i due
fratelli avevano deciso di spostarsi dalla vecchia casa, per trovarne una
spaziosa abbastanza per tutti loro.
Oramai, aveva visto qualsiasi scena davanti ai suoi occhi: Mac che minacciava
Tom con un mestolo di legno, Tom che si ribellava rincorrendola per tutto il
giardino con un tubo di plastica per annaffiarla… Thiago che si disperava
perchè aveva finito la ceretta per i suoi peli del petto…
Insomma, casa Kaulitz poteva diventare una sit-com.
Dal successo assicurato.
D’altronde, come era sempre stato.
Ma Mac ancora non poteva raccapezzarsi, non riusciva a ripercorrere quel
procedimento logico che l’aveva portata a dire sì a quell’intervista
fotografica. Due settimane prima Tom aveva ricevuto una chiamata da una rivista
di moda. In principio, aveva chiesto per ben tre volte se avessero chiamato il
Kaulitz giusto, dato che era sempre Bill ad essere contattato da giornali del
genere. Poi, accertatosi che era Tom che volevano, aveva domandato quale fosse
stata la questione da sottoporgli.
“Volevamo fare un’intervista a lei ed alla sua fidanzata Mackenzie, corredata
anche da un servizio fotografico… non so se legge la nostra rivista, ma
facciamo molti di questi servizi.”
“Beh… sì… la leggo.”, disse lui, mentendo profondamente.
“Ecco, ci chiedevamo se eravate disponibili… magari nelle prossime settimane.
Volevamo pubblicarla per il mese di novembre.”
“Dovrei sentire
lei… comunque non credo che sarà d’accordo.”
“Forse sapere che molte delle nostre lettrici ci hanno scritto dicendoci che
trovano lo stile di Mac come un modello da seguire l’aiuteranno a cambiare idea
a nostro favore.”, disse con voce suadente la ragazza con cui stava parlando.
Beh, un tempo avrebbe subito pensato ad una determinata cosa. E quel tempo era
tutt’ora attivo, tranne che lo nascondeva abilmente. Anche se era, diciamo,
fidanzato (oh, che brutta parola) sapeva qual era il bene e qual era il male.
Poi riflettè… Mac come modello? In che senso?
“In che senso scusi?”, chiese.
“Beh, mi dispiace, non volevo offenderla.”, disse subito la ragazza, notando un
certo fastidio nella voce di Tom.
“Assolutamente… volevo sapere che tipo di modello era Mac… mi suona così
strano…”
“Un modello nel senso del suo modo di essere, di vestirsi… così normale, così
semplice, così uguale a tutte le altre.”
Se Mac avesse sentito quelle parole, si sarebbe imbufalita, pensò.
“Ho capito.”
“Essere come lei e stare con una star come Tom Kaulitz… beh, da molta speranza
a tutte le donne di questo paese!”, disse lei, ridendo quasi maliziosamente.
“Ok… glielo proporrò.”
“La richiamerò domani.”, disse la ragazza, prima di agganciare.
La
risposta di Mac lo sorprese… o forse no.
Cioè, Mac che diceva di sì ad un servizio fotografico concentrato sulla loro
storia… questo era strano.
Mac che sorrideva al sapere di essere un modello per alcune delle lettrici di
quella rivista… questo non era strano. Era una donna e le lusinghe facevano
sempre effetto.
Eppure fu molto contento nel vederla a sua volta felice.
“Davvero vuoi farlo?”, le chiese.
“Certo… beh, non sarò abituata ad una cosa del genere, ma oramai è quasi un
anno che stiamo insieme.”
Già… un anno, pensò Tom. E che anno! Se c’era una cosa di cui non poteva fare a
meno era lei. Sì, questo era molto molto strano. Potevano litigare come pazzi,
tirarsi dietro gli oggetti… ma alla fine non poteva resistere al suo sorriso.
C’erano dei giorni in cui non voleva saperne di lei, perchè si erano offesi
così tanto che aveva bisogno di respirare aria pulita. Potevano passare giorni
senza vedersi: lei, di solito, infilava qualcosa dentro uno zaino e se ne
andava in un albergo. Ma poi tornava, o era lui a pregarla di tornare. Quante
volte Bill gli aveva dato del rammollito, si disse, ma poi aveva sempre
concluso la frase con: ‘Adesso mi piaci. Non come prima che sembravi una
trottola.’.
Una volta si era davvero preoccupato… dopo un concerto, ad un after show, aveva
ecceduto con l’alcol e una delle ragazze che gli giravano intorno si era
avvicinata un po’ troppo. O meglio, lui si era avvicinato un po’ troppo a lei.
Mac, che non aveva previsto di essere nei dintorni, li aveva beccati a baciarsi
in un angolo, in disparte ma sotto gli occhi di tutti. L’avevano chiamata
contemporaneamente, al telefono, Bill, Georg e Gustav.
Quella volta lei aveva impacchettato tutti i suoi vestiti, dal primo all’ultimo,
e se ne era tornata a vivere da sua madre. Non rispondeva al telefono e non
aveva dato a nessuno, nemmeno il suo recapito. Un mese intero chiusa in casa,
lontana da tutti e anche dal suo lavoro. Oramai era diventata una free lance ed
aveva solo un piccolo contratto di collaborazione con una rivista di musica,
che spesso la contattava per servizi, appunto, sui Tokio Hotel. Era una
fotografa indipendente, quindi nessun orario di lavoro se non quello che
decideva lei.
Un mese in solitario, a fare la casalinga da sua madre e da suo padre, che
puntualmente le ricordavano quanto fosse sbagliata quella sua relazione.
Formalmente, non aveva mai presentato Tom ai suoi: virtualmente non ce n’era
bisogno, sapevano chi era e a loro non piaceva affatto, ma più che altro era a
lei che non interessava farlo. Non c’era un motivo specifico, solo non le
andava.
Un mese in solitario, Tom e Bill. Fu Bill ad implorare Thiago di contattare
Mac, in un modo o in un altro, perchè non sopportava più quel campione olimpico
di lamenti di suo fratello.
“Allora dici di sì? Vuoi davvero fare questa intervista?”, le chiese di nuovo,
per conferma.
“Sì, va bene.”, ripetè Mac, e gli dette un bacio.
“Facciamo
prima l’intervista o il servizio fotografico?”, chiese loro una signora sulla
quarantina, ma molto giovanile nel suo abbigliamento elegant-casual.
“Beh… non saprei…”, disse Mac, stringendosi tra le braccia, “E’ lui quello
abituato ai giornalisti.”
“Ma non sei anche tu una fotografa? So che spesso viene ingaggiata anche come
intervistatrice…”, le domandò la donna.
“Sì… vabbè, facciamo prima l’intervista.”, disse Mac, che non era interessata a
sciogliere quel ginepraio di pensieri che le stava tempestando la mente. Al
sentire le sue parole, alle loro spalle il team del fotografo si dette automaticamente
una pausa, spegnendo le luci di scena e lasciando il set, composto
semplicemente da un telone bianco e da luci neutre.
“Va bene… sedetevi qua, nel frattempo vado a prendere da bere.”, disse la
donna, indicando loro un comodo divanetto, fronteggiato da una poltrona.
“Stai calma… vedrai, andrà tutto bene.”, le disse Tom in un orecchio, “Non
essere così nervosa.”
“Di solito sono io a fare le domande e le fotografie…”, fece Mac, mettendosi i
capelli biondi dietro alle orecchie e nascondendo le mani dentro alle maniche
del suo pullover color lilla. Non era il suo colore preferito, ma andava
dannatamente bene con la sua gonnellina a pieghe ed i suoi anfibi al ginocchio,
come l’avevano consigliata contemporaneamente Bill e Thiago.
“Quest’aria da punk perbenista… un’evoluzione nel tuo look!”, aveva affermato
Thiago, mentre le aggiustava il colletto della camicia bianca, che spuntava
fuori dal maglioncino, “Hai abbandonato quegli orripilanti pantaloni a
quadretti, vero? Facevano così misto barbona…”
“Misto barbona?!”, ripetè Mac, quasi offesa.
“Sì… insomma, ti ho portato un bel paio di shorts firmati
Dannatament&Gnocca! Te li sei mai messi?”, fece lui. Con quel
Dannatament&Gnocca indicava una celeberrima firma italiana, composta dalle
prime due lettere dei cognomi dei due stilisti, e che lui aveva abilmente
riadattato.
“Thi…. Sembrano dei boxer….”, fece Mac, incrociando le braccia. Erano talmente
corti che sembravano mutande, “Tom li ha scambiati per un paio di sue mutande e
se li è portati per un mese prima che me ne accorgessi.”
“Siete degli assassini! Avete ucciso la moda!”, esclamò l’altro, infuriato per
la disaccrazione che quei due avevano fatto al nome del buon gusto.
“Calze nere, calze a rete, calze decorate… o calze colorate?”, chiese Bill,
portando alcuni esemplari dei collant di Mac.
“Colorate… a righe!”, disse subito lei, prediligendo le sue calze preferite.
“Assolutamente sbagliato!”, esclamò Thiago, assumendo l’espressione del
celeberrimo urlo di Munch, “Calze a rete.”
“Ti sembro una prostituta?”, disse Mac, disgustata dalla scelta.
“Ok… calze decorate… la rosa laterale va bene.”, fece l’altro, spulciando tra i
collant e scegliendone un paio liscio sul davanti, con delle rose ricamate sui
lati.
“Molto
bene.”, disse la donna, premendo il pulsante record sul suo registratore e
appoggiandolo sulle sue gambe, “Iniziamo l’intervista con te, Mackenzie.”
“La prego, Mac. Mi chiami Mac.”, disse la ragazza.
“Va bene Mac… mi parli pure brevemente di sé stessa. Sa, ho letto qualcosa per
preparare l’intervista e non sono riuscita a distinguere realtà dalla
fantastia.”, disse la donna.
Era vero, sui giornali che avevano pubblicato articoli su loro due si poteva
leggere di tutto: da Mac spogliarellista in un night club, a dolce commessa di
negozio per bambini. Insomma, un mucchio di cazzate che le avevano fatto
perdere la pazienza più di una volta ma, su consiglio di Tom, che era abituato
a vedere pubblicate storie incredibilmente false sul suo conto, aveva imparato
a dargli l’importanza che si meritavano.
“Beh… cosa posso dire. Mi chiamo Mackenzie Rosenbaum, ho ventisette anni.”
“Ventisette?”, chiese la giornalista, interrompendola.
“Sì… ho un anno, quasi due, più di Tom…”, disse Mac, voltandosi per guardarlo.
Lui le sorrideva dolcemente e, con il braccio che le cingeva la vita, le faceva
un lieve solletico sul fianco. Anche lui si era sottoposto alle ‘cure
estetiche’ di Bill e Thiago, che gli avevano tassativamente proibito di
mettersi cappellini e fasce varie, che avrebbero coperto i suoi rasta, già
lunghi sotto al suo orecchio, tantomeno di indossare abiti di taglie più grosse
della sua. Contrattando aspramente per più di mezzora, aveva accettato di
indossare un maglioncino nero aderente a collo alto, a patto di farlo
contrastare con i pantaloni extra large vecchio modello.
“Devo ammettere che proprio non si nota questa differenza.”, disse la
giornalista.
“Beh… grazie.”, disse Mac, arrossendo, “Comunque, tornando al discorso, sono
una fotografa indipendente, ma continuo a collaborare saltuariamente con la rivista
‘Rock On’. Soprattutto vendo loro servizi sui Tokio Hotel.”
“E su chi sennò.”, disse Tom, facendola sorridere.
“Beh, mi hanno anche chiamato per fare uno speciale sui Muse e devo dire che mi
sono divertita più con loro che con voi!”, disse Mac.
“Che traditrice…”, fece Tom, giocando con la sua affermazione e facendo
sorridere anche la giornalista.
“Ha fatto anche altri lavori?”, domandò poi la donna.
“Sì, sono stata assistente sottopagata di redazione in una rivista che oramai
non pubblica più niente… o forse ha cambiato nome, non so. Comunque si chiamava
‘Pop my life’. Poi ho anche lavorato in un locale come guardarobiera, prima di
buttarmi nella fotografia.”
“Bene… penso che possa bastare come inizio… andiamo avanti, come vi siete
conosciuti? C’è chi dice che vi hanno presentato ad un party…”
“No, non è vero. Ci siamo conosciuti quando lei lavorava per ‘Pop my life’.
Venne con una giornalista della redazione, faceva la sua assistente… fu un
momento abbastanza esilarante!”, disse Tom, sorridendo al ricordo di quei
momenti, “La giornalista la lasciò improvvisamente da sola e lei non
sapeva più che pesci prendere!”
“Le era nato il suo primo nipote…”, disse Mac, “Quanti anni fa è successo?”
“Otto lunghissimi anni fa.”, fece Tom.
“E da quel momento state insieme?”, chiese la giornalista.
“No no, ne è passato di tempo prima di compiere questo passo …”, disse Mac.
“Sì, è vero. Dopo quell’intervista siamo diventati tutti suoi amici poi, per un
motivo o per un altro, non ci siamo più visti per sei anni. Ci siamo incontrati
per il matrimonio del nostro Georg.”
“Sì, e abbiamo ripreso la nostra amicizia.”, continuò Mac.
“Poi un altro anno separati.”
“E poi ci siamo…”
“Conosciuti approfonditamente,”, disse Tom, ridendo, “la notte di Natale.”
“Ci siamo ritrovati per Natale, è vero!”, fece Mac, ripensando a quella festa,
tenutasi nella vecchia casa di Tom.
“E come mai tutte queste separazioni?”, venne automaticamente da chiedere alla
giornalista.
“Beh… penso che sia stata un po’ per colpa di entrambi.”, disse Mac.
“Ma vi siete piaciuti subito?”
“A dire il vero no, almeno non per me.”, disse Mac, “Sinceramente non avevo mai
posato gli occhi su di lui. Il nostro rapporto era sempre venato di molto
sarcasmo e molta ironia, ci becchettavamo sempre.”
“Almeno non per te? Significa che non è stato lo stesso per Tom.”, sottolineò
la giornalista, deducendolo dalle sue parole.
“Infatti… sì, mi era piaciuta da subito, mi aveva molto colpito. Ma avevo solo
diciassette anni e non lo compresi subito. Poi quando ci siamo incontrati di
nuovo… insomma, ci siamo scoperti a vicenda.”
“Vivete insieme?”
“No.”, disse Tom. Mac, che avrebbe risposto di sì, si voltò a guardarlo,
nascondendo il suo stupore. Sicuramente lo aveva detto per un motivo ben
preciso, pensò.
“No, non abitiamo insieme.”, disse Mac.
“Mac, questa domanda è rivolta direttamente a te. Sai che molte fans di Tom non
ti vedono molto di buon occhio?”, le domandò la giornalista, “Mi azzarderei
quasi a dire che per loro sei come fu Yoko Ono per i fans dei Beatles… la
rovinatrice dei Tokio Hotel!”
“Sì, è una cosa che ho capito poco dopo che abbiamo iniziato a frequentarci. Ma
sinceramente non mi interessa più di tanto. Io non sto rovinando nessuno.
Possono pensare ciò che vogliono.”
“Non sei gelosa affatto?”, le domandò Tom, scherzosamente.
“Per me puoi avere tutto il mondo ai tuoi piedi. L’importante è rigare diritto,
Kaulitz.”, gli rispose Mac, a metà tra il serio e l’ironico, dandogli un
colpetto sulla mano.
“Me la sono meritata…”, fece Tom.
“Già…”, disse l’intervistatrice, “Non la spaventano le sue fans, che hanno
messo in piedi un sito contro di lei, Mac?”
“Davvero? Ho un sito internet tutto mio senza saperlo?”, fece lei, “Tu lo
sapevi?”
“No, proprio non lo sapevo.”, rispose Tom, cadendo dalle nuvole come lei.
“Sì ed è visitato quotidianamente da più di diecimila persone.”, precisò la
donna.
“Oh cavolo! Sono famosa!”, esclamò Mac, sarcasticamente.
“Stanno facendo una petizione per farvi lasciare.”, disse la donna.
“Se non sono sufficienti le nostre litigate a farci lasciare… figuriamoci una
petizione!”, disse Tom, ridendo.
“Litigate spesso?”
“Sì, abbastanza.”, disse Mac, che avrebbe preferito tenere nascosto quel
particolare, “Il più delle volte solo per stupidaggini.”
“Come si dice? L’amore non è bello se non è litigarello.”, disse la
giornalista, sorridendo, “E come sono le vostre discussioni?”
“Beh… come vuole che siano…”, disse Tom, infastidito da quell’ovvietà,
“Litighiamo, ci prendiamo a parole…”
“Ci tiriamo dietro le cose.”, aggiunse Mac, quasi sussurrandolo, mentre faceva
la gnorri guardandosi intorno.
“L’ultima volta mi voleva buttare dentro la piscina.”, disse Tom.
“E la volta precedente mi ci hai spinto tu dentro.”, precisò Mac.
“Amore violento?”, disse la giornalista.
“No!”, risposero entrambi, contemporaneamente.
Come no… altro che sì.
L’intervista si concluse di lì a poco, dato che né Tom né Mac volevano
rispondere a domande troppo… piccanti. Cioè che riguardavano la loro vita molto
privata. Tom fu contento di rispondere a domande che riguardavano il suo
lavoro: anche lui, come Bill, accanto ai Tokio Hotel aveva affiancato
un’attività che aveva a lungo sognato, negli ultimi tempi, ossia produrre altre
band. Mettersi in sala registrazione e maneggiare su quei pulsanti, decidere
quanta chitarra aggiungere, togliere un po’ di basso, mettere più rullante…
Poteva sembrare un lavoro facile, ma dividersi tra il proprio gruppo e un altro
di cui si era fatto ‘mentore’ non era per niente un gioco da ragazzi. Ma gli
‘Asian Fever’, musicisti divisi tra rock e melodie hip hop, gli rubavano quasi
più tempo dei Tokio Hotel.
La giornalista
li ringraziò per il tempo concessole e li lasciò nelle mani del fotografo.
“Come sono andata?”, gli domandò Mac, “Bene?”
“Certo che si.”, disse lui, schioccandole un bacio sul collo, “Sei andata
benissimo Rosenbaum.”
“Credi che la giornalista traviserà completamente le nostre parole? Scriverà
tutto quello che non le abbiamo detto?”
“Forse sì, ma se ci prova la strozzo.”, disse Tom.
“Bene bene bene!”, esclamò il fotografo, “Un po’ di trucco!”
I due ragazzi si trovarono assediati da spugnette di cipria e da spazzole nei
capelli, spuntate improvvisamente alle loro spalle per dare loro una sistemata.
Non che fossero proprio disastrati, ma per il fotografo una ritoccatina
all’aspetto era fondamentale prima dell’inizio del suo servizio.
“Perfetto, mettetevi sul set, sopra la croce rossa.”, disse loro, molto
sbrigativamente, “Tom, tu valle dietro, abbracciala e appoggia il viso contro
il suo.”
“Così va bene?”, chiese lui, dopo che ebbe cinto la sua ragazza sui fianchi.
“Tienile le mani.”, lo corresse lui, “Incrociate le vostre dita e sorridete.”
Tom, che non riusciva a stare fermo durante i servizi fotografici, iniziò a
giocare con Mac, facendole il solletico ovunque ed ignorando le direttive del
fotografo. Ad ogni posa diversa, trovava sempre il modo per fargli scappare la
pazienza. Mentre la teneva in braccio la faceva dondolare e gridare dalla paura
di cadere in terra.
Poi mentre se ne stavano stesi per terra, su un fianco, con Mac che teneva la
sua testa appoggiata sul braccio piegato, Tom, sdraiato dietro di lei, le dava
dei pizzicotti sul sedere.
Seduti a gambe incrociate, l’uno di fronte all’altro, lui le faceva le boccacce.
Ma riuscirono anche a recuperare un po’ di serietà, quando l’assistente del
fotografo dette loro un paio di chitarre elettriche.
“Ecco, adesso, se riuscite a non fare i bambini dell’asilo,”, disse l’uomo,
“Comportatevi come delle rock star.”
Tom imbracciò subito la sua chitarra, Mac gli si affiancò, appoggiando la sua
schiena contro la sua spalla e usando la chitarra come se fosse stato un
bastone. Con le mani una sopra l’altra sulla testa della chitarra, e la gamba
destra piegata con la punta del piede che toccava terra, guardava sorridente
l’obiettivo.
“Molto bene!”, disse il fotografo, finalmente contento, dopo cinque o sei
scatti, “Adesso mettetevi così.”
Andò verso di loro e, come fossero manichini, li mise nella posizione che
voleva. Fece sedere Tom, a gambe incrociate, con la testa appoggiata sulla
mano, in contrasto con il suo ginocchio.
“Fai un espressione alla Ollio quando Stanlio fa una cavolata.”, gli disse il
fotografo.
“E… come sarebbe?”, gli chiese.
“Fai la faccia che ti pare.”, rispose l’uomo scocciato, “Tu, Mac, mettiti alle
sue spalle, gambe divaricate, e fai finta di suonare la chitarra.”
Detto e fatto, gliela fece indossare ma Mac, che era mancina per natura,
dovette cambiare direzione dello strumento, altrimenti non avrebbe saputo come
suonarlo, se non goffamente.
“Ah… sei mancina?!?”, le fece Tom, con falso stupore.
“Stai zitto o te la rompo in testa.”, disse lei, ridendo.
Il fotografo, oramai rassegnato all’irriducibilità dei due, fece qualche scatto
annoiato e, quando finì, fu contento di andarsene a casa a riposarsi. Tom, che
era un giocherellone per natura e poco sopportava i servizi fotografici, aveva
approfittato di quel momento per divertirsi con Mac.
“Ma che ti era preso!”, gli disse lei, una volta dentro alla piccola stanza che
avevano affidato loro come ‘camerino’, “Il fotografo stava quasi per picchiarti
con la sua macchina!”
“Mi stava antipatico a morte, era troppo serio per me…”, si giustificò lui, “E
poi mi volevo divertire con te…”
Le si avvicinò e la abbracciò, appoggiando la fronte contro la sua. Iniziarono
a dondolarsi, come per seguire una melodia inesistente.
“Sì… ma sicuramente siamo venuti dei mostri in quelle fotografie. Tutto per
colpa tua.”, disse lei.
“Tranquilla, siamo noi a scegliere quali pubblicare e quali no.”, fece Tom,
“Quindi sceglieremo solo le foto che ci piacciono.”
“Speriamo bene.”
Tom la baciò, profondamente, lasciandola quasi senza fiato. Gesto che poteva
significare solo una cosa. Quella cosa.
“Dai… adesso non è proprio il momento…”, disse Mac, che cercava di riprendere
il controllo di sé, ignorando i piccoli ma potenti baci che le stava dando sul
collo.
“Sai a cosa stavo pensando durante il servizio?, disse lui, senza fermarsi, ed
iniziando a muovere le sue mani sotto al maglioncino di lei.
“A cosa?”
“Che sarebbe stato molto eccitante iniziare a farlo lì… davanti a tutti…”
“Oh sì, una cosa bellissima…”, disse Mac, sarcasticamente.
“Non prendermi in giro.”, sbottò lui, prendendole con forza i fianchi.
Altro segno, il cui significato era ben preciso. Non si stava arrabbiando,
stava semplicemente definendo la sua posizione di ‘maschio dominante’. Il che
aveva come conseguenza un tipo di sesso molto particolare… il preferito da
entrambi.
“Non c’è la chiave nella porta.”, gli ricordò Mac, guardandolo molto
maliziosamente.
Tom la lasciò, si affiancò al divano che stava vicino all’entrata e lo spinse
fino a che la porta non fu completamente bloccata.
“Contenta adesso?”, le disse.
Mac non gli rispose a parole, ma a gesti: si tolse il maglioncino, rimanendo
con la camicia bianca. Lui se la riprese e, baciandola avidamente, gliela
sbottonò in un secondo. Poi la afferrò per i fianchi e la avvicinò al muro…
“Diamine Tom!
Mi hai rotto le calze!”, esclamò Mac, mentre cercava di rivestirsi. Lui, steso
sul divano, in piena pace post-sessulale, non aveva la benché minima intenzione
di riassettarsi. O meglio, era già completamente vestito, aveva solo i
pantaloni abbassati… insomma, non era stato completamente necessario per lui
togliersi gli abiti. E poi gli piaceva farlo in quel modo, in determinate
situazioni… Con tutti i vestiti indosso, mentre si divertiva a togliere quelli
di Mac.
“Non te le metti… è anche meglio…”, rispose, apaticamente.
Qualcuno bussò alla porta, era l’assistente del fotografo che chiedeva loro se
entrambi fossero ancora lì dentro.
“Sì!”, esclamò Mac, imbarazzata, “Un momento e usciamo.”
“Tutto a posto?”, chiese di nuovo il ragazzo.
“Mai stato meglio.”, disse Tom, alzandosi e riappropriandosi dei suoi pantaloni
bracaloni. Aveva bisogno di una sigaretta, e subito. Mentre Mac si pettinava i
capelli allo specchio e si riassettava il trucco, se la fumò in santa pace, con
la schiena appoggiata contro il muro sui cui lo avevano appena fatto. Cosa
c’era di meglio di una bella scopata selvaggia?
La guardava pettinarsi i lunghi capelli biondi, sciolti, che rimanevano
impigliati nella lana del suo maglioncino. Poteva avere tutte le donne di quel
mondo; ad ogni after show, ad ogni festa, c’era sempre qualcuna che iniziava a
sussurrargli pensieri molto allettanti, in un orecchio. Ma le altre, benché
fossero veramente ‘belle da paura’ e lo mettessero terribilmente in tentazione,
non erano Rosenbaum. Non erano Mac.
Mac era semplicemente Mac, lo aveva sempre pensato e lo avrebbe pensato fino
all’ultimo giorno della sua vita. Non sapeva spiegarsi definitivamente il
motivo per cui era irresistibilmente innamorato di lei. Non era bellissima,
tutto sommato era decisamente carina quando decideva di mettersi in tiro per
lui. Eppure poteva esserlo anche quando, per casa, si aggirava in pantofole,
con una delle sue larghissime felpe dimesse, gli occhiali ed il naso gonfio per
il raffreddore, che la faceva parlare come una papera.
Però il suo lato selvaggio, da ‘pervertito’, come lo chiamava Bill, continuava
a vessarlo con pensieri su altre donne. Non poteva farci niente, era una parte
innegabile di se stesso. Ma a sue spese aveva imparato a metterlo a tacere,
anche quando la sconosciuta di turno gli diceva flebilmente che ‘glielo avrebbe
succhiato fino a farlo impazzire’.
A volte, tralasciando quella volta, fu quasi per cadere in tentazione,
doveva ammetterlo. Ed era quasi sicuro che sarebbe successo un’altra volta. Ma
non lo avrebbe fatto perchè i suoi sentimenti per Mac si sarebbero consumati
nel tempo… era tutta colpa di se stesso, del suo carattere, del suo modo di
essere… del Tom Kaulitz che c’era in lui. Quello con le cornina rosse e il
forcone in mano…
Mac riusciva a capirlo all’istante, come solo Bill sapeva farlo. Lo guardava in
faccia e subito lo comprendeva. E così era capace di farlo lui, anche se era un
po’ più complicato… beh, le donne erano tutte, a modo loro, complicate. Anche
se più di una volta si erano ringhiati in faccia e si erano minacciati di
reciproche separazioni… erano irrefrenabilmente attratti l’uno dall’altra.
Nemmeno Mac
riusciva a comprendere il motivo per il quale c’era sempre lui tra i suoi
pensieri. Era odioso, era infantile, era scostante, era disordinato… ma era
Kaulitz. Lei, che non perdonava nessun tradimento, aveva chiuso gli occhi ed
era tornata da lui. Erano bastate centoventicinque rose a convincerla!
Sapeva che quelle continue litigate non erano per niente salutari, né per la
loro storia, né per il suo pancreas, continuamente corroso dalla sua bile.
Sapeva che, prima o poi, sarebbe tutto finito, stanca delle discussioni.
Eppure, quando si svegliava la notte, e lo trovava lì, accanto a lei, anche se
dormiva a bocca aperta e a volte russava… non gli resisteva. Nonostante tutto,
nonostante le brutte parole, nonostante quel suo ‘piccolo’ errore, Tom riusciva
sempre a stupirla. Non si riferiva però a quelle piccole cose quotidiane che
ogni donna desiderava dal proprio uomo… si riferiva bensì a come lui poteva
cambiare, da un momento all’altro, da essere il Tom pubblico, quello che lei
poco sopportava, quello dei Tokio Hotel, quello che ammiccava alle fans durante
i concerti e si comportava da brutto maschilista, ad essere il suo Tom. Un
tutt’altro tipo di Tom, quello privato. Un adulto bambino, una persona
terribilmente consapevole della sua vita e del suo successo, che non aveva
bisogno di nient’altro che di una persona accanto che lo stabilizzasse. Detta
in questo modo, la loro storia sembrerebbe quasi un rapporto madre-figlio.
Tutt’altro.
Si completavano a vicenda: quando era Mac a fare le bizze, era lui a prendere
la parte dell’adulto responsabile e viceversa. Quando era lui ad aver bisogno
di coccole, era lei a fargliele, e viceversa. Al di là dell’alchimia fisica, ce
n’era anche una immateriale, legata ai loro modi di essere.
Ciononostante, entrambi erano mortalmente coscienti che l’amore non era per
sempre.
L’amore bruciava
l’anima, come il titolo di un bel film.
|