Lbc
Disclaimer: I
personaggi di questo racconto, a parte Alex Stryker, appartengono a
Stan Lee e a Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox.
Salve a tutti!
Come vedete, anche questa
volta non si tratta di Dark Road, il seguito della storia di Meredith e
John che ho promesso (ahimè) mesi fa e che ormai sta diventando
una specie di tela di Penelope. Spero di venirne a capo prima o poi;
nel frattempo, ecco a voi questa piccola one-shot. Spero che vi piaccia.
Mi rendo conto che come
storia è un po' anomala, ma lasciate che vi spieghi come
è nata. Qualche settimana fa ho rivisto X Men 2 e per la prima
volta mi sono resa conto di quanto siano interessanti le storie
personali e le motivazioni dei "cattivi", in particolare Stryker e
Yuriko (che secondo me è il personaggio più sfortunato e tragico della
trilogia; spero di scrivere qualcosa su di lei prima o poi), e ho
pensato che sarebbe stato un vero peccato trascurare del materiale
tanto interessante.
Dopo aver rimuginato
qualche giorno sul personaggio del colonello Stryker e del suo
"rapporto" (scusate le virgolette ma credo che in questo caso siano
d'obbligo) col figlio Jason, il mio cervello ha creato questo
personaggio assolutamente sgradevole, una "figlia di papà"
arrogante, pavida e viziata ma contemporaneamente così fragile.
Ancora non so se sono contenta o no di questo racconto; non riesco
ancora a capire se Alex sia funzionale alla storia della famiglia
Stryker oppure sia un personaggio assolutamente inutile e ridondante. E' che ho l'impressione che la gente tenda ad essere più spietata se combatte per qualcosa invece che contro qualcosa, ma questa è solo una mia idea.
Ancora più che per
gli altri miei racconti avrei davvero piacere se qualcuno mi volesse
dire cosa ne pensa di questa fic e del personaggio di Alex Stryker,
dato che nemmeno io so bene cosa pensarne. Vi ringrazio fin da ora per
ogni singola recensione che vorrete lasciarmi.
Buona lettura!
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Mi chiamo Alex Stryker.
Credo che il mio nome non vi sia totalmente nuovo. Se siete mutanti,
probabilmente a questo punto avrete già smesso di leggere. Se
invece fate parte di quei circoli privati con nomi tipo “Amici
dell’Umanità”, o “Lega Contro i
Mutanti”, allora con tutta probabilità io e voi ci siamo
già presentati ad una delle riunioni di mio padre.
Mio padre. Il colonnello William Stryker.
Di solito io sono la ragazza che se ne sta in un angolo senza parlare.
No, non la giovane donna asiatica con gli occhi spaiati e la stretta di
mano come una pressa di ghisa. Quella è Yuriko, povera crista, e
prima o poi vi parlerò anche di lei. Io sono la ragazza con i
capelli biondi e gli occhi verdi seduta accanto alla finestra, quella a
cui Stryker si rivolge chiamandola bambolina.
“Bambolina, abbi ancora un po’ di pazienza. Abbiamo quasi
finito.” “Bambolina, sei sicura di non voler mangiare
qualcosa? Sei pallida.”
Sì, immagino che a voi (siate pure mutanti o simpatizzanti
fascisti pro-umanità) faccia un certo effetto pensare che un
uomo come mio padre possa pronunciare un nomignolo tanto dolce, eppure
è così. Per quanto io mi sforzi, non riesco a ricordare
che lui si rivolga a me in altro modo. Credo di essere stata la sua
bambolina dal giorno in cui sono nata.
Dopo tanti anni, e dopo averci rimuginato a lungo, sono giunta alla
conclusione che questo dipenda principalmente da due fattori.
Il primo è che sono quello che comunemente si definisce
“il figlio della vecchiaia”. La mia nascita non era stata
programmata in alcun modo, e credo nemmeno desiderata. A quattordici
anni di distanza dal loro primo figlio i miei genitori non avevano
alcuna intenzione di metterne al mondo un altro, specialmente
considerando tutte le variabili e i rischi connessi. Ma alla fine sono
arrivata io, una neonata sana che con le sue urla e i suoi gorgogli
riempiva una casa altrimenti buia e silenziosa.
Il secondo fattore è che io non sono Jason.
“Sano”, nella mia famiglia, ha sempre avuto
un’accezione molto particolare. Per la maggior parte delle
persone questa parola indica la mancanza di patologie o menomazioni che
invalidino un soggetto. Per i miei significa tutto ciò che mio
fratello non è, o meglio, il contrario di tutto ciò che mio fratello ha in più delle altre persone. Il che dovrebbe bastare da solo a spiegare molte cose.
In tutta onestà, ancora mi meraviglio del fatto che mia madre
non abbia abortito non appena ha saputo di essere nuovamente incinta.
Ho provato a chiederglielo una volta, anni fa, quando era ancora in
vita, ma lei si è subito innervosita e ha rifiutato di
continuare ad ascoltarmi. Non so se è stato più
perché la parola “aborto” urtava la sua
sensibilità da stereotipo bianca-anglosassone-protestante che si
era costruita o perché tutto ciò che anche da chilometri
di distanza riguardasse mio fratello la faceva trasformare
improvvisamente in una statua di gesso. Non vedo, non sento, non parlo.
No, non sono tenera con mia madre. La amavo moltissimo e il suo
suicidio mi ha spezzato il cuore, ma riconosco il suo ruolo. Dietro
ogni persecuzione c’è sempre un istigatore silenzioso.
Da piccola ero convinta di essere malata. Periodicamente, (diciamo una
volta ogni quattro mesi circa, ma è capitato che accadesse anche
una volta ogni quindici giorni), mia madre mi metteva i vestiti belli e
mi diceva che oggi sarei andata con papà a fare “la
visita”. Ricordo un cappottino di panno color blu scuro e il pelo
morbido del mio orsacchiotto che mi solleticava la guancia. Ricordo la
mano di mio padre in cui la mia scompariva, mentre camminavo insieme a
lui lungo i corridoi bianchi di quello che suppongo fosse una sorta di
laboratorio. Ricordo i sorrisi gentili del personale medico che ci
passava a fianco. “Ciao, Alex! Santo cielo, sei proprio un amore
con quel cappottino!” Credo di avere anche una foto vestita in
quel modo da qualche parte, scattata insieme al personale della base
durante una delle mie “visite”.
Ricordo i miei pianti perché non volevo la puntura, e ricordo la
voce dolce di mio padre che cercava di convincermi: “Shh,
bambolina, non fare così. Ancora questa e poi torniamo a casa.
La fai ancora questa puntura soltanto, eh? Solo questa e poi basta. Per
il tuo papà.”
Le “visite” sono continuate finché non ho compiuto
quattordici anni. Ogni volta, terminati gli esami, rimanevo seduta sul
lettino con il cuore in gola e osservavo mio padre controllare
ansiosamente lo schermo del computer e scorrere febbrilmente i fogli
che i suoi assistenti si affrettavano a consegnargli. Io ero troppo
piccola per comprendere pienamente quello che stava accadendo, ma avevo
la vaga sensazione che l’amore di mio padre dipendesse da quello
che era scritto su quelle pagine. Che la mia unica possibilità
fosse non essere “sbagliata” come lo era mio fratello.
Quando tornavamo a casa mia madre ci aspettava appena fuori la porta,
in piedi a pochi passi dall’albero di ibisco che cresceva nel
parco. Il suo sguardo angosciato passava rapidamente da me a mio padre
finché lui non si avvicinava e sussurrava pianissimo: “Va
tutto bene, Theresa. E’ sana.” Mia madre si posava una mano
sul cuore e sospirava come se si fosse appena liberata di un macigno
pesante tonnellate, poi lei e mio padre si mettevano a confabulare tra
di loro. Io sgusciavo in salotto, dove sapevo che avrei trovato ad
aspettarmi un nuovo giocattolo. Una bambola, la maggior parte delle
volte. Sono sempre stata viziata da fare schifo.
In caso ve lo siate domandando, sì, sapevo di Jason, ma in
maniera molto vaga e nebulosa. Sapevo di avere un fratello grande che
stava lontano, in una scuola speciale, e che era meglio non parlarne.
Nessuno me lo aveva detto esplicitamente, ma io sapevo che c’era
qualcosa che non andava in Jason, e che mai e poi mai avrei dovuto
menzionarlo, soprattutto davanti a degli estranei. I bambini le
capiscono queste cose, sapete, anche se nessuno gliele spiega. E’
il Grande Segreto di Famiglia di cui nessuno ammette l’esistenza
anche se è lì di fronte a tutti. Dicono che ogni famiglia
ne abbia uno, e a me era bastato sentire un paio di volte mio padre
sbraitare al telefono contro qualcuno e mia madre piangere al di
là della porta del suo studio per capire che Jason era il nostro segreto.
Se i miei erano reticenti e ostili nei riguardi di mio fratello, di
contro con me erano protettivi fino a sfiorare l’ossessione. Mia
madre soprattutto. Ho avuto diverse tate, ma nessuna durava mai
più di due o tre settimane, perché per mia madre erano
tutte troppo poco attente oppure apertamente negligenti. (E per essere
bollati come negligenti bastava permettermi di giocare sul pavimento).
Così, alla fine, lei ha smesso di lavorare ed è rimasta a
casa per occuparsi di me a tempo pieno. Non potete nemmeno immaginare
quanto potesse essere apprensiva. Mi ricordo che una volta, quando
avevo otto anni, stavo correndo sul vialetto di cemento davanti ai
garage quando improvvisamente inciampai e caddi, sbucciandomi le
ginocchia e procurandomi un taglietto sul labbro. Mia madre ebbe una
crisi isterica. Fece persino venire dal St. Hellen di Boston il
primario di chirurgia pediatrica (uno degli
“amici-degli-amici” di mio padre) perché mi
visitasse. Non che mio padre fosse poi da meno, a dire la
verità. Se davo un colpo di tosse tutta la casa smetteva di
respirare finché non riprendevo a farlo io.
L’unico momento in cui mi era concesso farmi male era quando
danzavo. Vedete, mia madre era stata una ballerina di danza classica da
ragazza, ma quando aveva circa vent’anni un infortunio
l’aveva costretta a smettere. Così fu deciso che sarei
stata io a portare a termine i suoi sogni di gloria e diventare prima
ballerina al Bolshoi, alla Scala o all’Opèra di Parigi, a
scelta. La danza classica mi è sempre piaciuta, ma non quanto
credevano i miei genitori. Fin da piccolissima ho sempre cercato di
essere all’altezza delle loro aspettative, la copia perfetta di
come secondo loro doveva essere un bravo figlio, e così ho
finito per assomigliare alle bambine che si vedono nelle
pubblicità dei biscotti: sempre buona, tranquilla ed educata.
Non ricordo di essere mai stata rimproverata perché facevo i
capricci, ma d’altra parte non ne avrei avuto motivo, dato che
molto raramente mi veniva negato qualcosa. E così, quando
è arrivato il momento di dire no, ho scoperto di aver totalmente
disimparato a farlo. Ma questo è avvenuto molti anni dopo; a
quell’epoca io ero la bambina più dolce e affettuosa del
mondo, e se i miei genitori volevano che diventassi una ballerina io
non li avrei delusi.
Non per essere presuntuosa, ma posso dire di essere diventata, negli
anni, piuttosto brava. Certo, magari non brava come una ballerina del
Bolshoi, ma ho ottenuto comunque un certo numero di ruoli da
protagonista negli spettacoli che la mia scuola di ballo (la migliore
che ci fosse a Providence, ovviamente; i miei genitori volevano sempre
che tutto ciò con cui avevo a che fare fosse alla mia altezza)
metteva in scena. Se siete mai entrati nell’ufficio di mio padre,
al Dipartimento per le Politiche Mutanti, avrete sicuramente visto la
grande fotografia in bianco e nero che è appesa dietro la
scrivania. La ballerina che vi è ritratta sono io: avevo dodici
anni e mi stavo esibendo al National Theatre di Boston. I miei genitori
erano così orgogliosi di me. Mio padre lo è ancora a tal
punto che nella base di Alkali Lake ha fatto sistemare una stanza,
pavimentandola di legno e piazzando degli specchi e la sbarra alle
pareti, in modo che io possa continuare ad esercitarmi anche reclusa
qui sotto il lago.
Forse alcuni di voi hanno sentito qualcosa a proposito degli
avvenimenti che hanno portato alla morte di mia madre e a tutto
ciò che ve ne è scaturito, ma posso assicurarvi che
quello che sapete è solo una menzogna. La storia che Jason ha
fatto impazzire mia madre perché ce l’aveva con i miei, la
storia che era arrabbiato perché all’Istituto Charles
Xavier non era riuscito a farlo “guarire”, beh, quella
è solo la versione di mio padre, la favoletta che lui si
racconta per riuscire a dormire, altrimenti nemmeno la dose da cavallo
di sonniferi che trangugia ogni notte per racimolare due o tre ore di
sonno basterebbe.
La prima volta che vidi Jason io avevo tre anni e lui diciassette. So
che è impossibile da immaginare oggi, ma prima che mio padre
facesse scempio del suo corpo e della sua mente mio fratello era
splendido. Arrivò a casa nostra un giorno d’inverno, i
capelli biondi inumiditi dalla neve e le sue iridi spaiate, una blu e
l’altra verde a causa dell’eterocromia, che riflettevano le
luci artificiali dei lampadari di cristallo. Mia madre mi disse di
andare subito in camera mia, ma io non resistetti e rimasi a sbirciare
dalle scale mentre i miei genitori discutevano in salotto. Lui era
lì; il nostro Grande Segreto di Famiglia, mio fratello Jason,
era tornato a casa. Ed ora cosa sarebbe successo?
“Non dirmi di stare calma, William!” sentii gridare mia
madre. “Perché lo hai riportato qui? Cosa dirà la
gente? E la bambina? Hai pensato ad Alexandra, almeno?”
A quel punto qualcuno afferrò una delle mie trecce e diede un
leggero strattone, e allora mi voltai di scatto e vidi Jason
troneggiare su di me con un’espressione severa sul volto.
Trattenni il respiro.
“Stiamo spiando, eh, mostriciattolo?” disse lentamente.
Lo guardai sconvolta. Nessuno mai mi aveva tirato i capelli e mi aveva
chiamato mostriciattolo. Mai. Incapace di distogliere lo sguardo dai
suoi bizzarri occhi spaiati, misi le mani nelle tasche del mio
maglioncino ed annuii.
Jason scoppiò a ridere. “E bravo mostriciattolo!”
esclamò. “E’ così che si fa. Vedo che
fortunatamente i geni migliori non sono andati sprecati. Ed io che mi
aspettavo una marmocchietta piagnucolosa. Sei molto meglio di come
pensavo, mostriciattolo.”
Io distolsi lo sguardo e feci il broncio. “Non sono un mostriciattolo!” protestai.
Jason si mise le mani sui fianchi. “Ehi, ti ho appena fatto un
complimento, non costringermi a cambiare idea.” rispose, per
nulla intenerito. “E poi sei una tappetta con le braccia corte e
la candela al naso, secondo te come dovrei chiamarti?”
Ero talmente oltraggiata che dimenticai tutte le regole di mia madre e
mi strofinai il naso con il dorso della mano. “Non è vero,
non ho la candela!” replicai. “Sei un bugiardo!”
Mio fratello rise di nuovo. “Bleah, che schifo!” disse tra
le risate. “Molto, molto bene, mostriciattolo, a mamma verrebbe
un attacco di cuore se ti vedesse pulirti il naso in quel modo. Sono
molto fiero di te.”
Da bambina viziata e coccolata quale ero, non ero abituata ad essere
presa in giro e Jason era decisamente andato oltre quello che potevo
sopportare come prima esperienza. Troppo offesa persino per parlare,
chinai la testa e cominciai a piangere. Jason smise immediatamente di
ridere e si inginocchiò di fronte a me.
“Oh, andiamo, mostriciattolo, non c’è bisogno di
mettersi a frignare.” disse. Io singhiozzai più forte, e
allora mio fratello mi mise entrambe le mani sulle spalle e
sospirò. “Va bene, va bene. Alex. Ti chiedo scusa, Alex,
ok? Non volevo farti piangere. Stavo solo scherzando, davvero. Mi
dispiace se te la sei presa.”
Io continuai a piangere con lo sguardo basso, arrabbiata e ferita, e
allora Jason mi attirò più vicino a sé.
“Ehi, ehi, Alex.” sussurrò. “Ehi, piccola,
guardami.” Mi mise una mano sotto il mento e mi fece alzare il
viso. Io tirai su col naso un paio di volte prima di alzare gli occhi
su di lui, ma appena lo feci rimasi immediatamente incantata dalle sue
iridi colorate, così diverse da qualunque altra cosa io avessi
mai visto prima. Sentii una strana sensazione di vertigini, ma
durò solo un istante, poi vidi che mio fratello aveva alzato la
mano destra e tra le dita stringeva una grande margherita con i petali
bianchi raccolti a corolla.
“Dai, prendila.” mi disse Jason. “E’ tua.”
Perplessa e incuriosita allo stesso tempo, allungai cautamente una
mano, ma un secondo prima che le mie dita sfiorassero lo stelo i petali
si dischiusero improvvisamente, rivelando una faccina seminascosta dai
pistilli gialli. Rimasi a bocca aperta mentre la margherita si
schiariva la gola e cominciava a cantare con la voce più
sguaiata del mondo:
“You are my sunshine,
My only sunshine,
You make me happy
When skies are grey…”
Risi di gusto, l’offesa di poco prima già dimenticata, e
Jason sorrise. Guardai di nuovo il viso di mio fratello, i suoi tratti
perfetti piegati in un’espressione serena e divertita, e mi
chiesi per quale ragione i miei pensavano fosse sbagliato. La
margherita canterina faceva ridere; sicuramente non era per quello.
Innocente e sfacciata come tutti i bambini, aprii la bocca per
domandarlo direttamente a lui.
“Jason!”
Quella voce inaspettata mi fece sobbalzare. Mio fratello si girò
di scatto e di nuovo provai quella sensazione di vertigine, ma questa
volta fu abbastanza forte da farmi chiudere gli occhi. Quando li
riaprii, la margherita e la sua canzone stonata erano svanite. Per
qualche secondo mio fratello continuò a guardare preoccupato
dietro di sé, verso il punto da cui era provenuto il richiamo,
poi si girò nuovamente verso di me e mi scoccò un altro
dei suoi proverbiali sorrisi sfacciati.
“Oh, non c’è bisogno di farsela sotto,
mostriciattolo, è me che vogliono.” disse. Rimasi a
guardarlo mentre si incamminava lentamente verso il salotto, dove i
nostri genitori erano in attesa. “E’ meglio se te ne vai
in camera tua, adesso. Ci saranno un sacco di urla.”
Jason si sbagliava. Urla e strepiti non erano nello stile di mio padre
e di mia madre, e come sicuramente saprete ci sono altri modi,
più sottili e crudeli, per fare del male a qualcuno, modi che
sono, come potrei dire? Più eleganti, ecco.
Mia madre si comportava come se nemmeno lo vedesse. Se ne stava sempre
rigida e impettita, lo sguardo vacuo e il viso pallido e tirato come se
Jason fosse un intruso che suo malgrado le toccava sopportare, o, in
alternativa, una cacca di cane che qualcuno aveva spiaccicato sul
tappeto. E tutto questo, badate, senza mai dire una sola parola, come
un efficientissimo Torquemada muto.
Mio padre, invece... Beh, mio padre non è sempre elegante,
questo sono sicura che lo sapete. E così, ogni tanto, quando
guardavo fuori dalla finestra, vedevo Jason fare flessioni nella neve
fino a quando non crollava a terra sfinito, o stare in piedi per ore e
ore sotto il salice che cresceva accanto al laghetto, tremando per il
freddo finché mio padre non gli permetteva di tornare in casa.
Sapete quante volte ho sentito mio padre ordinargli di seguirlo in
cantina e poi vedere Jason uscirne dopo qualche ora con i lividi sul
volto e le labbra spaccate, magari perché non aveva risposto
“sì, signore.” o “no, signore.”
abbastanza in fretta?
E accadeva che a volte, a volte,
mio fratello perdesse il controllo. Credo che ci sia solo una certa
quantità di umiliazioni e di sofferenze che un essere umano
può sopportare prima di esplodere, e dopo, quando Jason riusciva
a tornare padrone di sé, il suo sguardo era talmente
terrorizzato che credo lui temesse quegli episodi molto più dei
nostri genitori. Non importa quello che dice mio padre: Jason non ha
mai, mai, usato di proposito
i suoi poteri su di noi, potete credermi. Sì, mio fratello era
arrabbiato con i nostri genitori, ma non perché li incolpava
“della sua condizione”. Quale “condizione”? Mio
fratello non si sentiva malato, ma odiava che qualcuno lo facesse
sentire malato. Avanti, voi come avreste reagito? Credo che Jason sia
stato fin troppo buono con loro; forse persino più buono di
quanto non avrebbe voluto essere.
La notte, quando era tutto buio e i nostri genitori già
dormivano, Jason sgusciava nella mia stanza e si sdraiava accanto a me,
sul mio letto. Io rimanevo in silenzio per un po’, poi gli posavo
una mano sulla spalla.
“Jason.”
Mio fratello continuava a fingere di dormire, ma, grazie alla fioca
luce proveniente dalla finestra, vedevo le sue labbra piegarsi in un
impercettibile sorriso. Allora cominciavo a scuoterlo delicatamente.
“Jason.”
Mio fratello grugniva infastidito, come se lo avessi appena svegliato
da uno splendido sogno. “Che vuoi, mostriciattolo?”
mormorava ad occhi chiusi.
“Fammi vedere una storia.”
Lui si voltava su un fianco, dandomi la schiena. “Adesso no, mostriciattolo, non vedi che sto dormendo?”
Io mettevo il broncio. “Questo è il mio letto.” replicavo. “Tu non puoi dormire qui.”
“Dormo dove mi pare, mostriciattolo.”
Per un po’ nessuno di noi due parlava, poi io cominciavo a
scuoterlo di nuovo, con più forza. “Jason. Jason.”
Lui si voltava verso di me, sbuffando. “Ma insomma, che ti
prende? Possibile che uno non possa stare tranquillo?” Vedevo i
suoi strani occhi guardarmi attraverso la penombra.
“Fammi vedere una storia.” ripetevo. “Per favore.”
Jason si sforzava di mantenere un’espressione scocciata, ma le
sue labbra faticavano a trattenere un sorriso. Gli è sempre
piaciuto fare il prezioso.
“E va bene, mostriciattolo, ma solo perché così
chiudi la bocca.” sbuffava. “Guardami, adesso...”
E io lo guardavo mentre i suoi occhi mi trasportavano in un mondo di
castelli incantati e di cigni di cristallo, di draghi e di eroi dove la
protagonista era sempre una coraggiosa principessa dai capelli
biondissimi e gli occhi verdi di nome Lixandre di Greenwillow. Quante
avventure meravigliose ho vissuto, semplicemente guardando negli occhi
verde e blu di Jason.
Nessuno, nemmeno mio padre, nemmeno Charles Xavier, conosce gli occhi
di mio fratello quanto li conosco io. Io mi sono tuffata nel blu del
loro mare e ho corso nel verde dei loro prati, e nemmeno posso
cominciare a descrivervi che cosa si prova. Ogni notte, per quasi un
anno, le iridi di mio fratello si illuminavano soltanto per me, il
mostriciattolo con il moccio al naso. E in quelle notti ho capito
più io di mio fratello di quanto mio padre, anzi, nostro
padre, riuscirà mai a capire in una vita intera. Ho provato a
spiegarglielo una volta, di mostrargli quello che io ho visto negli
occhi di Jason, ma lui non mi ha voluto ascoltare. E dopo tutto quello
che ha fatto e detto, nemmeno credo sia più in grado di
comprendere, ammesso che lo sia mai stato.
Accadde la notte in cui mio fratello commise l’errore fatale di
addormentarsi nel mio letto dopo che Lixandre aveva ucciso la strega
cattiva e riportato la pace nel paese di Greenwillow. La porta della
mia stanza si aprì di colpo, poi sentii le urla di mia madre.
“Lasciala stare, mostro! Lasciala immediatamente!”
Cinque parole. Le uniche che io le abbia mai sentito rivolgere a mio fratello.
Jason balzò in piedi, e io vidi mio padre arrivare dal corridoio
e afferrarlo per i capelli. Mi misi a urlare, tentando di spiegare che
era solo colpa mia , che Jason si era addormentato nel mio letto solo
perché io lo avevo implorato di mostrarmi la fine della storia,
ma mio padre nemmeno mi sentì. Trascinò mio fratello
fuori dalla mia stanza, e mentre mia madre si sedeva accanto a me sul
letto e mi abbracciava, sussurrandomi frasi di conforto di cui non
avevo bisogno, sentivo la voce furibonda di mio padre allontanarsi
lungo il corridoio, di tanto in tanto punteggiata dai rumore dei colpi
e dalle urla di dolore di Jason:
“Ti avevo avvertito, disgraziato! Ti avevo avvertito di non avvicinarti a lei!”
Già all’ora di pranzo di Jason non c’era più
traccia. Né lui né le sue cose sembravano essere mai
state nella nostra casa, e su mio fratello tornò a calare il
silenzio. Fu come se lo avessero inghiottito le tenebre
dell’oblio, talmente oscure e potenti da cancellarne persino il
ricordo. Piansi due giorni interi dopo che Jason sparì, e i miei
genitori pensavano che fosse per qualcosa che lui mi
aveva fatto; nemmeno si posero il problema di ascoltare quello che io
avevo da dire. E così, alla fine, smisi di tentare di spiegare e
tornai lentamente ad essere la bambina buona e ubbidiente dei loro
sogni, la bambolina, la loro unica figlia.
Mentre mio fratello veniva massacrato nella sua tomba sotto la diga di
Alkali Lake, io crescevo in un’elegante casa in stile coloniale
immersa nella ricca campagna del Rhode Island, frequentavo le migliori
scuole private che i soldi di mio padre potessero pagare e mi preparavo
a diventare una stella del balletto. Il ricordo di Jason aleggiava
sullo sfondo come un disegno sbiadito, un’oscura maledizione di
cui nessuno voleva parlare e che pesava sui miei genitori. Il senso di
colpa è qualcosa a cui nessuno può sfuggire, anche se ti
sei costruito un alibi talmente convincente che alla fine cominci a
crederci tu stesso. Di tanto in tanto mio padre stava via di casa per
alcune settimane (“per lavoro”, diceva mia madre), e quando
tornava mi portava sempre una bambola. Così io sapevo che aveva
fatto del male a Jason. Alla fine avevo talmente tante bambole che
nella villa a Providence ho dovuto liberare una stanza per riuscire a
conservarle tutte.
Col passare degli anni mia madre divenne sempre più protettiva.
Era ossessionata all’idea che io non fossi mai abbastanza al
sicuro. Arrivai al punto di dover fare di nascosto anche le cose
più elementari, come iscrivermi al corso di nuoto o andare a
pattinare con le amiche. Quando mi chiese di smettere di ballare
perché aveva paura che io cadessi e mi rompessi una gamba avrei
dovuto capire che c’era qualcosa che non andava, ma ero troppo
arrabbiata con lei per preoccuparmene. Ero arrabbiata per quello che
aveva fatto a Jason e perché mi stava rendendo la vita
impossibile. Sapete come mi chiamava la mia amica Abby?
“La ballerina di cristallo.”
Per il mio decimo compleanno i miei genitori mi avevano regalato un
carillon di legno laccato della fine del diciannovesimo secolo. Quando
lo si apriva, una piccola ballerina di ceramica volteggiava in una
perfetta pirouette sur la pointe
sulle note della Ninna Nanna di Brahms. Le sue membra aggraziate erano
talmente sottili e fragili che sembravano sul punto di spezzarsi da un
momento all’altro. “Questa sei tu.” mi diceva Abby
indicando la ballerina. “Non ti si può nemmeno guardare
per paura di romperti.”
Mia madre viveva nel perenne terrore che questo succedesse. Aveva paura
che io potessi farmi male, o ammalarmi, o che qualcuno mi facesse
qualcosa. Riusciva a tranquillizzarsi un po’ solo quando stavo
vicino a lei, al suo fianco, ma appena mi allontanavo ecco che tornava
ad enumerare dentro di sé tutte le cose orribili che potevano
capitarmi e ricominciava a dannarsi. Avrei dovuto prestarle un
po’ più d’attenzione, preoccuparmi di più per
lei, ma ero troppo impegnata ad odiarla per le sue stupide ossessioni,
e perché mi faceva sentire sporca nei riguardi di Jason. Forse
è normale, a quindici anni, odiare i propri genitori. Non lo so.
Ma oggi vorrei essere stata un po’ più buona con mia
madre. Se potessi tornare indietro, al giorno prima di quel pomeriggio,
farei di tutto per spiegarle perché non doveva farlo. Per farle
capire che avevo ancora bisogno di lei. Mi piace pensare che mi avrebbe
dato retta.
E’ strano, come le cose che fanno a pezzi la tua vita per poi
rimettere insieme i brandelli in una forma totalmente nuova accadono
sempre in quelle che paiono essere le giornate più banali e
ordinarie della tua esistenza. Ero appena tornata da scuola, e come
ogni giorno presi la posta dalla cassetta delle lettere e la scorsi
distrattamente prima di appoggiarla sul tavolino stile Luigi XVI
accanto allo specchio, nell’ingresso. Poi, dopo aver annunciato
di essere tornata, entrai in cucina e presi una mela dal cesto della
frutta sul tavolo, afferrai una rivista che giaceva sul bancone accanto
alla finestra e mi diressi verso la veranda. Chiamai ancora una volta
mia madre, ma ero talmente presa dall’intervista a Colin Farrel
che solamente una piccola parte del mio cervello registrò il
silenzio che c’era nella casa. Fu solo quando arrivai in salotto
e vidi mio padre in piedi nel centro della stanza che mi resi conto di
tutti i dettagli che erano fuori posto. Come il fatto che tutte le
tende erano tirate e la casa era al buio. O che ancora nessuno era
sceso dalle scale per assicurarsi che anche oggi fossi tornata a casa
tutta intera.
Abbassai la mela, a cui avevo appena dato un morso, e guardai mio
padre. Lui mi restituì lo sguardo senza parlare. “Come mai
sei a casa così presto, papà?” chiesi.
Mio padre abbassò gli occhi per un secondo, poi tornò a
guardarmi. “Bambolina.” disse. “Devo parlarti a
proposito della mamma.”
I due giorni successivi passarono come in una nebbia. Non so dirvi
esattamente cosa è successo; credo di aver pianto, di aver
urlato, forse ho perfino rotto qualche oggetto, non ricordo molto bene.
So che dopo il funerale me ne stavo seduta in un angolo a piangere in
silenzio, poi mio padre entrò nella stanza, si avvicinò a
me e mi abbracciò senza dire niente. Io appoggiai la testa sul
suo petto, come quando ero piccola, e piansi e piansi finché non
ebbi più lacrime. Mio padre mi tenne stretta ancora per qualche
minuto dopo che ebbi finito di singhiozzare, poi mi asciugò il
viso, mi baciò e prese le mie mani tra le sue.
“Alex, ascoltami, voglio che adesso tu vada a preparare le
valige. Devi venire con me in un posto per qualche tempo,
d’accordo bambolina?”
So che portarmi qui ad Alkali Lake, nel luogo più sicuro che mio
padre conosca, sia il suo modo di volermi bene. Di proteggermi dal
mondo. Da tutti voi. Dalla guerra che sta per scoppiare. Credo che in
qualche parte oscura e dimenticata della sua mente questo vada a
pareggiare tutto il male che continua a fare a Jason. E la cosa che mi
fa più paura di tutte, quella che mi fa più male di tutte, è che credo che tutto questo lui lo faccia per me. Per me. Per la sua bambolina.
Avete idea di che significhi essere la condanna del vostro stesso
fratello? Essere la pietra di paragone al confronto della quale lui
uscirà eternamente sconfitto?
Oh, non è che io mi stia lamentando. So bene che tra me e Jason
quello che soffre davvero è lui, non io, e che il mio dolore non
può nemmeno lontanamente essere paragonato al suo. Fa meno male
torturare che essere torturati, per dirlo in maniera brutale. Se non
altro, da due anni a questa parte, siamo tornati a vivere insieme come
una famiglia, noi tre. Sì, sto facendo del sarcasmo. Scusate.
Quello che succede qui sotto non ha niente di normale o rassicurante, e
mi è bastato guardare negli occhi di Yuriko una sola volta per
capirlo. Guardare i suoi occhi spaiati, uno verde e l’altro blu,
che scrutano il nulla finché mio padre non si avvicina e le
sussurra qualcosa nell’orecchio. Come vi ho detto poco fa,
conosco gli occhi di mio fratello talmente bene da riconoscerli in un
secondo. E da lì è bastato poco a rendermi conto che mio
padre aveva creato un’infelice in più.
Ci sono molte cose che io non voglio sapere qui ad Alkali Lake,
così per la maggior parte del tempo sto in camera mia, che mio
padre ha fatto sistemare in modo che assomigli il più possibile
alla mia stanza nella nostra villa di Providence, fatta eccezione per
le finestre, ovviamente. C’è qualcosa di estremamente
tragico ed estremamente poetico in tutto questo, una ballerina di
cristallo che danza all'interno di un carillon di acciaio e cemento
armato.
La parte “positiva” della mia reclusione forzata ad Alkali
Lake è che ho moltissimo tempo libero, dato che non frequento la
scuola e non faccio vita di società. Il primo anno mio padre
è riuscito a farmi ammettere d’ufficio alla classe
successiva, dato che prima della morte di mia madre avevo già
frequentato quasi tutto l’anno scolastico. Sì, lo so che
è illegale, ma per uno come mio padre, che pranza con il
Ministro della Difesa e cena con il Presidente, che volete che sia
ottenere un piccolo favore come questo?
Quest’anno probabilmente dovrò dare un esame, ma la cosa
non mi preoccupa poi tanto. Come ho detto, il tempo è
l’unica cosa che proprio non mi manca. Ho perfino iniziato a
studiare il russo, per nessun altra ragione se non quella di fare
qualcosa. E poi mi piace la letteratura russa dell’ottocento;
Tolstoj, soprattutto. Piace molto anche a Nadja, il mio gatto
d’angora grigio, la mia unica compagnia. Quando leggo o studio
lei sonnecchia sdraiata sulle mie gambe, così ogni tanto le
leggo qualche frase che io trovo particolarmente bella. Di solito
miagola disturbata dalla mia voce, ma quando le leggo Tolstoj continua
tranquilla a fare le fusa. Sospetto però che sia anche
perché è pigra in maniera patologica.
Dato che di permettermi di uscire insieme a Nadja per fare due passi
nella foresta nemmeno se ne parla, le uniche occasioni che ho di
emergere dal mio sarcofago sotto il lago è quando accompagno mio
padre a Washington, le volte che lui ha una riunione al Dipartimento o
deve incontrare qualche pezzo grosso. Dopo che ha finito, mi concede di
fare tutto quello che voglio. Una volta, in una boutique del centro, ho
speso cinquemila dollari in vestiti solo per vedere che cosa sarebbe
successo. Mio padre ha tirato fuori la carta di credito e ha pagato
senza battere ciglio. Immagino che cinquemila dollari sia una cifra
tutto sommato accettabile per avere l’amore di tua figlia.
Forse sarà la solitudine, forse sarà per tutte le cose
inquietanti che, nonostante io mi impegni, a volte non riesco a fare a
meno di vedere, ma credo di essere cambiata, qui ad Alkali Lake. In
meglio o in peggio, ancora non lo so. So che una volta ero in camera
mia a fissare le ballerine di Degas che danzano nei poster sulle
pareti, e improvvisamente mi sono sentita furiosa. Mi sono sentita come
se stessi per... per annegare, credo. Come se stessi andando a fondo e
intorno a me ci fosse solo buio e gelo. E allora mi sono detta che non
volevo morire ad Alkali Lake, almeno non senza aver lottato.
Ho preso Nadja sottobraccio, il primo volume di “Guerra e
pace” nell’altra mano, e mi sono diretta verso la stanza in
cui tengono mio fratello. I soldati di guardia mi fissavano come se
fossi un alieno mentre camminavo in mezzo a loro senza nemmeno
guardarli, come avevo visto mia madre fare con Jason, molti anni fa.
Solo quando ormai avevo aperto la porta il sergente Lyman, il segugio
capo del branco di mio padre, si è fatto avanti e ha messo una
mano sullo stipite.
Mi sono stretta più forte Nadja contro il petto e l’ho
guardato negli occhi. “Voglio vedere mio fratello. Adesso.”
Lui ha scosso la testa. “Mi dispiace, signorina Stryker. Non è autorizzata ad entrare.”
Io gli ho riso in faccia e ho attraversato la soglia. “E allora
perché non mi spara, sergente?” ho risposto chiudendomi la
porta alle spalle.
Lui guardava in basso, verso il pavimento, perciò per qualche
istante non ho capito chi o cosa fosse quell’essere seduto su una
sedia a rotelle in fondo alla stanza. Poi sono riuscita a scorgere i
suoi occhi, uno blu e l’altro verde, ed immediatamente è
stato tutto chiaro.
“Ciao, Jason.”
Lui non mi ha guardata, perciò io mi sono avvicinata e mi sono
inginocchiata davanti a lui. Da qualche parte, dietro i tratti del suo
volto deturpati dalla sofferenza e dalla cicatrice della lobotomia,
dietro la placca di adamantio che è innestata nella sua spina
dorsale e che ormai è l’unica cosa che lo mantiene in
vita, mio fratello era in ascolto.
“Sono io, Jason.” ho sussurrato. “Sono Alex.”
Ho cercato i suoi occhi e mi sono sforzata di sorridere. “Ehi,
chi è il mostriciattolo adesso?” gli ho detto. Sì,
lo so che a voi può sembrare una frase davvero orribile, ma sono
sicura che Jason ne ha apprezzato l’ironia.
Nadja ha miagolato debolmente, ed io le ho dato una veloce carezza
prima di sistemarla in braccio a Jason. “Nadja, lui è mio
fratello Jason. Jason, questa è Nadja. Sono sicura che
diventerete amici.”
Jason è rimasto immobile. Nadja si è stiracchiata, ha
sbadigliato, e poi si è acciambellata sulle sue gambe. Io mi
sono seduta su una sedia lì a fianco, ho aperto il libro e ho
cominciato a leggere ad alta voce.
Mio padre è arrivato proprio mentre Nikolàj perdeva la sua partita a carte contro Fëdor Dolòchov.
“Che stai facendo qui, Alex?”
Io sono arrivata alla fine della frase, ho piazzato un segno tra le
pagine e ho chiuso il libro. “Trascorro del tempo con mio
fratello.” ho detto mentre guardavo la mia mano posarsi sulla
copertina nera.
Ho sentito mio padre sospirare. “Bambolina.” ha iniziato
con il tono condiscendente che usa sempre quando vuole convincermi di
qualcosa, lo stesso che usava durante “le visite”.
“Questo non...”
Ho alzato la testa di scatto e l’ho guardato negli occhi.
“Sì, invece.” ho risposto. “Sì che lo
è.”
Non so se è stato perché sono una ragazzina prepotente e
viziata, o perché Alkali Lake mi aveva reso un po’ meno
vigliacca. Fatto sta che per la prima volta nella mia vita avevo
deliberatamente deciso di deludere mio padre e non essere la bambina
buona e ubbidiente che lui voleva. Di non essere la bambolina per la
quale sta combattendo.
Per qualche minuto nella stanza ci fu solo il rumore del respiratore di
Jason e le fusa di Nadja. Poi mio padre ha chiuso gli occhi per qualche
secondo, ed è stato come se qualcosa dentro di lui fosse
improvvisamente invecchiato di anni. “Adesso devi uscire,
Alex.” ha detto infine. Non avevo mai sentito la sua voce suonare
così debole e stanca, nemmeno dopo la morte di mia madre.
Io mi sono alzata in piedi. “Vorrei tornare domani.”
Mio padre ha scosso la testa. “No. I miei uomini hanno l’ordine di non farti più entrare.”
Ho guardato Nadja fare la fusa in braccio a Jason, poi ho di nuovo
alzato gli occhi su mio padre. “Allora rimarrò qui fuori e
leggerò attraverso la porta chiusa, se per te va bene.” ho
risposto alzando le spalle.
Mio padre ha chiuso di nuovo gli occhi. “E’ quello che vuoi davvero?” mi ha chiesto.
Per un istante mi è sembrato di avere di nuovo quattro anni e di
stare seduta sul lettino del laboratorio mentre mio padre leggeva i
risultati degli esami. Per un istante ho avuto paura che lui mi avrebbe
guardata come guarda Jason. “Sì, papà. E’
quello che voglio davvero.”
Mio padre ha fissato i suoi occhi nei miei, ma nel suo sguardo non
c’era traccia del disprezzo e della freddezza che riserva a mio
fratello. Mi stava guardando come mi aveva guardata anni e anni prima,
la prima volta che io avevo avuto un pezzo da solista nella
rappresentazione di “Romeo e Giulietta” che la mia scuola
di danza aveva messo in scena. Mi aveva detto che non ci sarebbe stato,
invece era comparso in fondo alla sala proprio mentre io iniziavo a
ballare. Per un istante, mentre eravamo l’uno di fronte
all’altra nella stanza di Jason, ho visto nei suoi occhi la
stessa luce di allora. Lo stesso totale, incondizionato amore.
“D’accordo, bambolina.” mi ha detto, e io mi sono sentita morire. “Puoi tornare domani.”
Da quel pomeriggio le mie visite a Jason sono diventate quotidiane.
Ogni giorno, per un ora, Nadja dorme sulle sue gambe e io leggo a mio
fratello qualche pagina di “Guerra e pace”. Di tanto in
tanto ho un po’ di paura a guardare Jason negli occhi, sapete, ma
non per via dei suoi poteri. Anche senza la lobotomia a cui mio padre
l’ha sottoposto anni fa so benissimo che non mi farebbe mai del
male. Quello che temo davvero è scrutare dentro le sue iridi
spaiate e avere la certezza che lui mi odia.
Che mi disprezza per aver avuto tutto mentre lui non aveva niente. Per
essere stata ciò che lui, agli occhi dei nostri genitori, non
avrebbe mai potuto essere.
A volte, quando l’ora che ho a disposizione è terminata, e
mi chino lentamente su Jason per prendere in braccio Nadja e riportarla
nella mia stanza, quando io e lui siamo abbastanza vicini da ingannare
le telecamere che lo sorvegliano giorno e notte avvicino piano la bocca
al suo orecchio e gli sussurro delle cose. Gli dico che andrà
tutto bene, che finirà presto, e che io e lui ce ne andremo
lontano da Alkali Lake. Soprattutto gli dico che gli voglio bene. Spero
davvero che lui riesca a sentirmi.
Ieri è c’è stato un nuovo arrivo alla base. Un
mutante con la pelle blu e una lunga coda appuntita. L’ho
intravisto per un secondo mentre i soldati di mio padre lo portavano
verso i laboratori, ma dato che alcune cose preferisco non saperle mi
sono girata in fretta dall’altra parte. Poi mi è venuto in
mente che sto cominciando ad assomigliare a mia madre e mi sono
vergognata. Subito dopo, però, l’idea di vergognarmi di
mia madre mi ha fatto stare ancora peggio.
Ieri sera, dopo cena, mio padre è venuto nella mia stanza. Io
stavo seduta alla scrivania, di spalle alla porta, e mi sono resa conto
della sua presenza solo quando lui mi ha posato una mano sulla spalla.
Sa essere estremamente silenzioso, quando vuole. Immagino che gli anni
trascorsi a organizzare operazioni segrete nella giungla del Vietnam
gli abbiano insegnato qualche trucchetto.
Non mi sono voltata a guardarlo. Come ho detto, sono una vigliacca.
“So che non capisci, Alex.” Le sue dita hanno stretto un
po’ più forte la mia spalla. “So che per te è
impossibile capire. E sono contento che sia così. Spero che tu
non debba mai arrivare a comprendere perché io stia facendo
tutto questo.”
Le lacrime mi hanno immediatamente offuscato gli occhi. Ho lottato con
tutte le mie forze per trattenerle, perché non volevo che mio
padre l’avesse vinta così facilmente.
“Tra qualche giorno sarà tutto finito. Te lo prometto.
Ancora qualche giorno e potremmo lasciare Alkali Lake, e tornare a casa
nostra. Ricominceremo tutto da capo, vedrai.” Mio padre ha tolto
la mano dalla mia spalla e mi ha accarezzato i capelli. “Non
piangere, bambolina.”
Avevo appena perso la mia battaglia con le lacrime che ora mi
scendevano silenziose e roventi sul volto, eppure nemmeno allora mi
sono voltata a guardarlo. Ho continuato a guardare il poster appeso
davanti alla scrivania, una riproduzione dell’
“Ofelia” di Paul Steck. Anche quello è stato un
regalo di mio padre: una volta, anni fa, quando mia madre era ancora
viva, ero andata con i miei genitori in vacanza a Parigi, e al
Musée du Petit-Palais ero rimasta incantata davanti a quel
dipinto, ai capelli rosso fuoco di Ofelia che si confondevano con le
alghe mentre la ragazza affondava nel fiume. La sera, in albergo, avevo
trovato il poster con la riproduzione arrotolato e appoggiato sul mio
cuscino.
Mio padre si è chinato lentamente verso di me. “Siamo
rimasti solamente io e te, bambolina.” ha sussurrato. “Io
ho solo te.” Mi ha dato ancora una carezza, l’ultima, poi
si è voltato ed è uscito.
Io ho guardato Ofelia sprofondare nelle acque alcuni centimetri sopra
la mia testa. I suoi capelli ondeggiano verso l’alto, verso la
superficie, e la corrente le sta strappando via dalle mani il mazzo di
fiori che si stringe al petto, eppure il suo viso è talmente
sereno e tranquillo che uno pensa che forse, forse, annegare non le dispiace poi così tanto.
Beh, a me dispiacerebbe. Non sono ancora pronta per affogare ad Alkali Lake. Non voglio affogare ad Alkali Lake.
Oggi, dopo che la mia ora con Jason è terminata, ho ripetuto a
mio fratello quello che nostro padre ha detto a me ieri sera, ma ho
cambiato la frase finale. “Io non ti lascio qui, Jason. Verrai
via con noi. Ancora non so come, ma vedrai che mi inventerò
qualcosa. Devi solo...” Ho fatto scivolare la mia mano nella sua
e ho dato una leggera stretta. Veloce, così i soldati di guardia
non si sarebbero accorti di niente. “Devi solo avere fiducia in
me.”
Ancora non so se quelle frasi le ho dette a Jason per consolarlo, o a
me stessa per farmi coraggio. Fatto sta che quando ho preso in braccio
Nadja ho avuto l’impressione che gli occhi di mio fratello
cercassero i miei. Per un secondo solo, anzi, per una frazione di secondo, i nostri sguardi si sono incrociati, poi Jason è ritornato a fissare il pavimento.
Non so ancora cosa ho visto negli occhi di mio fratello, se la
ragazzina ricca e viziata che spende migliaia di dollari in vestiti
solo per capriccio, o la bambolina buona e obbediente che mio padre
desidera, o questa nuova Alex, questa ballerina di cristallo che ha
deciso di smettere di danzare in tondo sul suo piedistallo e di
affrontare la vita. Anche a rischio di spezzarsi alcune delle sue
membra di vetro. Anche a rischio di perdere l’amore di suo padre.
Immagino che a questo punto vi starete domandando quale di queste
persone sceglierò di essere quando arriverà il momento.
Di solito le storie finiscono con l’eroina buona e coraggiosa che
prende la decisione più nobile anche a costo di sacrificarsi;
questa storia, invece, non terminerà così. Non ci
sarà nessun “... e vissero tutti felici e
contenti.”; almeno, non subito. L’atto finale è
ancora da scrivere, e non posso dirvi cosa sarà accaduto quando
la parola fine comparirà sulla pagina. Per il momento, osservo
il poster di Ofelia in camera mia, stringo forte Nadja tra le mie
braccia e aspetto.
Auguratemi buona fortuna. Ne avrò bisogno.
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Allora, come vi è parso? Che ne dite di questo finale aperto?
Secondo voi, per semplice e pura ipotesi, cosa potrebbe fare Alex di
fronte agli avvenimenti di X Men 2? Sarei molto curiosa di conoscere la
vostra opinione, dato che io non ne ho la più pallida idea. Non
ho ancora ben capito se Alex sia o meno una brava ragazza.
Seguono alcune precisazioni:
1)
Sono sicura che avrete riconosciuto la canzone che Jason
fa cantare alla margherita il giorno in cui lui e Alex si
incontrano per la prima volta, ma tanto per non incorrere in una
denuncia per violazione dei diritti d'autore ci tengo a precisare che
si tratta di "You Are My Sunshine" di Jimmy Davis e Charles Mitchell.
2)
Ammetto di non essere un'esperta di danza classica. Se ho utilizzato
qualche termine a sproposito fatemelo sapere e sarò felicissima
di correggermi.
3)
Ho letto "Guerra e Pace" qualche anno fa e non sono sicura al cento per
cento di ricordare esattamente chi fossero i due partecipanti alla
famosa partita a carte, e non ho avuto la forza di rileggermi i quattro
volumi che compongono il romanzo. Di Dolòchov sono quasi sicura,
ma non mi ricordo se l'altro giocatore fosse proprio Nikolàj Rostov.
Anche in questo caso una correzione sarebbe più che benvenuta.
4)
Vorrei tanto poter dire che il titolo "La ballerina di cristallo" sia
una mia invenzione. Purtroppo non lo è. Nell'originale inglese,
una delle puntate della terza serie di "Lost" si intitola "The Glass
Ballerina" (non so se in italiano abbiano fatto una traduzione
letterale o se lo abbiano cambiato radicalmente). Io l'ho trovato
bellissimo e molto poetico, e anche se in "Lost" il titolo si riferiva
ad un soprammobile di cristallo raffigurante appunto una ballerina,
questa frase mi è sembrata molto indicata per descrivere
Alexandra Stryker.
Come
ho detto all'inizio qualsiasi recensione, sia positiva o negativa,
sarebbe molto apprezzata. Un bacio a tutti quanti e a presto!!!
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