Luisa la vede intingere il pennello
nell’acqua e poi
asciugarlo meticolosamente sul panno che porta in grembo. Ogni tanto lo
porta
sul foglio mentre passa il colore per evitare che sbavi fuori dai
contorni dell’ombrello.
- Marianna. –
La chiama, anche se sa già
che dovrò farlo altre tre volte perché
si accorga che la sta chiamando.
- Marianna. –
Marianna intinge di nuovo il pennello
nel tappo nel quale ha
versato l’acqua, così da sapere di preciso quanto
si bagna il pennello. Poi ricomincia
a stendere il pastello acquerellabile.
Con una meticolosità
snervante passa prima quello più
grande, sfumando il rosso scuro con quello più chiaro,
passando dunque all’arancione.
Ne usa uno più piccolo per attenuare il prugna dei contorni
più scuri, poi ne
prende uno sottile per le tinte del giallo. E ricomincia a mescolare i
colori,
dal più chiaro verso il più scuro.
- Marianna. –
c’è un lieve accenno di supplica nel tono
della madre stavolta, e forse è quello che la ragazzina
coglie, più che il
richiamo in sé. – Che bel disegno. –
Marianna non risponde, annuisce. Non
capisce bene cosa sia
un complimento, non sa che deve rispondere grazie. Luisa ancora spera
che un
giorno sua figlia impari a riconoscere le cose.
- Perché questa bambina ha
un ombrello se non sta piovendo,
Marianna? –
Ripete sempre il suo nome, Luisa, non
ha mai capito se
Marianna sia capace di realizzare che quello è il suo nome.
Marianna alza le spalle. È
la sua risposta a tutto, da
sempre, uno non capisce se lo faccia d’istinto o comprenda
davvero quello che
le si dice.
Luisa si accorge che Marianna ha
finito di colorare l’ombrello,
la vede soffiarci sopra per far asciugare prima l’acqua con
cui ha steso il
pigmento dei pastelli.
È un lavoro di precisione
impressionante, solo per quel
piccolo ombrello.
- Non colori anche tutto il resto?
– Le domanda.
Marianna guarda prima lei, poi il
disegno e poi di nuovo lei.
Poi lo prende, si alza, e lo appende
con lo scotch insieme
agli altri. Ha colorato solo quello stupido ombrello, il resto
l’ha lasciato in
bianco.
Luisa non ha ancora capito
perché sua figlia abbia disegnato
un ombrello e non la pioggia. Anche se effettivamente, anche quando se
la porta
dietro al mercato, le mattine piovose, Marianna continua a tenere
aperto l’ombrello
finchè lei non glielo chiude.
Ancora non capisce perché
l’abbia lasciato bianco.
La dottoressa le ha spiegato che
Marianna comunica con i
disegni, ritrae quello che vede perché è
l’unico modo di mettersi in contatto
con la realtà. La rappresenta.
E Luisa non capisce, assolutamente,
perché Marianna abbia disegnato
una bimba con un ombrello, quando tutt’attorno ci sono
soltanto paesaggi e
alberi e piante e foglie e fiori.
- Perché, Marianna?
–
Alza le spalle, Marianna. Si tortura
l’orlo della gonna con
le dita.
L’unica soddisfazione che
ha Luisa è vestirla.
Marianna è una bambola,
non capisce cosa le piace finchè non
lo disegna, così lei la mattina è libera di
vestirla come vuole, tanto lei non
si lamenta, tanto Marianna si lascia strapazzare tra le camicie e i
vestitini
senza neanche alzare un dito. Tiene semplicemente la bocca aperta e gli
occhi
semichiusi, ha ancora sonno.
E se è nervosa, Luisa
finisce anche per strattonarla troppo
quando lei non collabora. Poi se ne accorge e la abbraccia.
Ma Marianna non capisce, non lo sa.
Nessuno saprà dire a
Luisa se è una buona madre.
- Marianna. – la figlia non
la degna di uno sguardo, ma ha
una luce negli occhi, sembra quasi far capire che invece sta ascoltando
attentamente. – Ti va di uscire? –
Tanto vale
non
esserlo.
La macchina sbanda più
volte a causa della pioggia lungo la
discesa e Luisa riesce appena in tempo a frenare prima che
l’auto finisca nel
fiume. C’è mancato poco, nota.
Scende dall’auto, sta
piovendo.
Marianna non scende, la guarda
finchè non apre la portiera e
la trascina dolcemente fuori dalla vettura.
- Ti faccio vedere una cosa bella,
Marianna. Anche se sta
piovendo. –
Marianna si lascia trascinare fino
agli argini artificiali
del fiume.
Le prende un dito e indica un punto
tra la boscaglia dall’altra
parte della riva.
- Ranocchie. – Dice.
– Le abbiamo viste l’altro giorno sul
libro. Le hai anche disegnate, ricordi? –
Chissà se Marianna si
ricorda. Nessuno lo sa. Sembra che le
cose restino nella sua testa quanto basta perché lei riesca
a disegnarle. Poi
il nulla.
- Ti ricordi, Marianna? Ti ricordi,
Marianna? – La smuove
gentilmente per un braccio, poi sempre più veloce.
– Eh? Marianna, ti ricordi? –
Marianna alza le spalle.
Luisa smette di strattonarla e la
guarda. Sorride, pensando
che quella è comunque è una risposta. A cosa
forse non lo sa nemmeno sua
figlia.
Le rane cominciano a gracidare, di
colpo, quando un tuono
squarcia il solito ticchettio della pioggia.
Marianna allora risponde a quel
rumore alzando gli occhi
verso l’altra riva.
E le guarda, le ranocchie.
Luisa sa che Marianna in quel momento
è cosciente di star
facendo qualcosa. Anche se non sa dove si trova, anche se non sa cosa
sta
guardando, anche se non sa chi è, Marianna in quel momento sa.
Marianna è fortunata,
perché non sa niente, ma sa tutto.
Così, mentre sua figlia
sta guardando le ranocchie, Luisa fa
un passo indietro, lasciando cautamente le sue dita. Poi ne fa un altro
e un
altro ancora.
Marianna nel frattempo si sposta in
avanti, sempre di più,
sempre più vicina agli argini.
Luisa la guarda mentre sta facendo
per la prima volta
qualcosa, e sa già che la ricorderà
così, di spalle, con i capelli bagnati, il
vestitino fradicio, infreddolita, a guardare le ranocchie. E in
quell’immagine
manca un ombrello.
Luisa sbatte le palpebre proprio
mentre Marianna mette un
piede in fallo e cade in acqua. Succede in una frazione di secondo,
Marianna
prima c’era, ora non c’è più.
C’è solo un tonfo nell’acqua.
E nessuno che cerca di tornare a
galla.
Luisa rimane lì a fissare
le ranocchie.
Non ha un ombrello.
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