“Prega per me, perché ho perso fiducia nelle guerre sante
Il cielo mi è stato negato, perché non posso più farne parte?
L’oscurità mi ha avvolto, consumando la mia anima mortale
Tutte le mie virtù sacrificate, può il paradiso essere così crudele?”
The Truth Beneath The Rose – Within Temptation
Quella mattina, nella città di Tokyo si era arrivati a
sfiorare i quaranta gradi di caldo.
Vampate roventi di calore si alzavano dall'asfalto, andando ad investire i
passanti, che si trovavano schiacciati fra quei vapori quasi liquidi e gli
impietosi raggi del sole.
Se in strada la situazione era insopportabile, in auto o in un qualunque
ufficio non dotato di aria condizionata pareva di stare vicino alla bocca degli
inferi.
Il calore emanato dal motore di una macchina in corsa, quello di un computer,
quello emanato dagli stessi umani... Tutto sembrava volersi trasformare in
fiamme di un fuoco invisibile.
Al pomeriggio, come se il tempo stesso avesse voluto fare
uno scherzo crudele a tutti coloro che si erano attrezzati al meglio per
affrontare quell’insolita giornata autunnale di caldo torrido, il cielo si
rabbuiò improvvisamente e cominciò a piovere di quella pioggia sottile e
fastidiosa che sapeva infilarsi con innaturale abilità fin dentro i vestiti.
Subaru Sumeragi si strinse addosso il leggero spolverino
scuro che indossava e non trattenne un brivido di freddo. Alzò il bavero, per
proteggersi almeno il collo, e continuò per la sua strada.
Si fermò soltanto davanti ad un portone di ferro ormai
arrugginito, in un quartiere in cui non si era mai recato prima di allora, e
per ovvi motivi.
Nessuno amava mettere piede in territori abbandonati
dalla stessa yakuza, perché nemmeno la mafia aveva alcun interesse a
controllarli, e per questo erano in preda alla più totale anarchia. In quel
luogo, un quartiere dimenticato di una delle città più moderne del mondo in cui
vigeva, più che in altri posti, la legge del più forte.
Pezzi di vernice essiccata si staccarono dalla porta,
quando l’onmyouji la spinse leggermente per entrare. All’interno dell’edificio,
una vecchia fabbrica elettronica abbandonata da ormai una decina d’anni,
regnava un tanfo maleodorante di umidità ristagnante e rifiuti di animali del
sottosuolo.
Gemette leggermente, sentendo quell’odore, ma si
costrinse ad avanzare nel buio, a tentoni come un cieco.
Le vecchie tubature scricchiolavano, graffiate dai
piccoli zampettii dei topi, quasi volessero sottolineare ogni suo passo col
loro rumore, e qualche rara goccia d’acqua cadeva dai muri ricoperti di vecchio intonaco
screpolato ed ammuffito.
Malgrado l’ambiente ed il buio gli impedissero di vedere
bene, - l’unica luce veniva dagli spiragli delle finestre sbarrate e
leggermente rientranti sul muro, almeno da quanto riusciva a vedere, - il suo
passo era veloce. Strizzando gli occhi, sforzandosi di dare forma e nome alle
ombre più chiare davanti a lui, procedeva spedito in avanti, con ogni senso
all’erta.
Si bloccò quando il suo piede scivolò su qualcosa di
morbido. Lo raccolse. Era una scarpetta nera. Diverse macchie scarlatte ne
macchiavano la suola.
La scarpa era immersa in qualcosa di più vischioso
dell’acqua. Abbassandosi e toccando il pavimento con la punta delle dita, si
portò la mano bagnata alle labbra. Le ritirò subito, quasi inorridito, e si
pulì sul cappotto.
Il sangue non si era ancora seccato. Come temeva, non era
arrivato abbastanza in fetta.
Almeno doveva trovare il corpo di quella bambina.
Riportarla ai suoi genitori.
Sapeva quanto il dolore si acuisse, nel piangere ogni
giorno davanti ad una tomba vuota.
Qualcosa lo colpì sulla testa. Qualcosa di liquido.
Solo allora capì come mai la pozza di sangue non si fosse
ancora rappresa. Il cadavere doveva essere là sopra.
Vicino a lui c’era una scala di metallo, nuova,
appoggiata su un’impalcatura anch’essa in metallo stranamente in buone
condizioni.
Dopo aver preso fiato, Subaru cominciò lentamente a
salire. Non era così impaziente di arrivare a fine scalata.
Una parte del tetto era sfondata, permettendo alla debole
luce che riusciva a filtrare tra le nuvole di entrare. Era molto fioca, ma per
lui era abbastanza per permettergli di distinguere la piccola sagoma scura che
sembrava librarsi poco sotto una delle numerose travi di sostegno in acciaio.
Si puntellò sulle ginocchia per mantenersi in equilibrio,
una volta issatosi sull’impalcatura. Un tempo si sarebbe sentito arrabbiato per
un tale scempio, ma in quel momento sentiva solo un dolore profondo all’altezza
del cuore, e tristezza.
La bambina era tenuta fissa alla trave con una corda
attorno al collo. Era stata impiccata, era vero, ma la causa della morte non
era stata quella. Numerosi squarci amarantini all’altezza del petto della
bambina, che lasciavano cadere il vestito azzurro che la piccola indossava in
piccoli brandelli di stoffa misti a sangue ormai rappreso, testimoniavano i
veri segni dell’assassinio.
Il sangue le colava lungo la gamba nuda, raccogliendosi
appena nella stoffa della calza bianca, per poi continuare a scendere. Da lì
veniva il sangue che gli era caduto addosso.
Il viso della bambina sembrava una maschera di cera, per
quanto era pallido, cianotico solo all’altezza del collo, ma quella era una
cera su cui uno scultore poco pietoso aveva voluto imprimere dei lineamenti di
paura e di dolore. Al giovane ricordarono le maschere che si usavano per le
rappresentazioni teatrali drammatiche.
Lentamente – non tanto lentamente, forse – si spostò dal
suo appiglio alla trave. La corda era stata legata a quasi metà percorso, come
se lo stesso assassino avesse voluto rendere difficile il recupero di quei
poveri resti.
Mettendo con cautela un piede davanti all’altro, Subaru
avanzò lungo la trave, fino a trovarsi a pochi centimetri dalla bambina.
Sciogliere il nodo stando in equilibrio fu stranamente più facile del sollevare
quel corpo inerme.
Ormai si era abituato a tenere corpi morti tra le
braccia, comunque…
Non gli faceva più molta impressione stringere forte
delle membra gelide come marmo, non pensava più ai cadaveri come dei pupazzi di
stoffa che sembravano volersi afflosciare su loro stessi, privi di sostegno e
privi di appoggio. Erano dei corpi svuotati, non tanto diversi da dei gusci
vuoti di una crisalide.
In quello, Seishirou era stato un buon maestro. Gli era
bastata una sola lezione, per fargli imparare il concetto.
Aveva cominciato a piovere forte. L’acqua entrava a
fiotti dal buco del tetto, cadendo su parte della trave e sul pavimento.
Subaru inspirò l’aria umida per darsi coraggio, quando un
altro odore, già più pungente e fastidioso di quello della pioggia, gli colpì
le narici. Si concesse un attimo di riflessione per identificarlo, anche se
dentro di sé aveva già capito.
Benzina.
Qualche metro più in basso, nell’oscurità si accese un
piccolo puntino fiammeggiante, come quello di una sigaretta che si accende.
Poi, una piccola scia luminosa fatta di piccole braci.
Dèi del cielo, doveva aspettarselo.
Qualcosa esplose sotto i suoi piedi talmente forte da
farlo traballare mentre delle sottili lingue di fuoco, alimentate dalla non
modica quantità di benzina in giro per l’edificio, cominciarono a distribuirsi
in giro per l’edificio con uno scoppiettio allegro.
Se prima non c’era luce, ora ce n’era davvero troppa.
Subaru non si fermò a considerare l’assurdità della
situazione ma arretrò lentamente lungo lo spazio percorso in precedenza,
cercando di guadagnare l’uscita.
L’ossigeno venne risucchiato dalle fiamme, facendo
annaspare il giovane e costringendolo ad inalare lunghe boccate di un’aria che
sapeva di benzina e vernice che andava incendiandosi. Chissà quanto avrebbe
potuto resistere.
Sotto di lui, sentì un altro paio di tubature scoppiare.
Una parte della struttura di metallo su cui si era arrampicato poco prima franò
su se stessa, e lui dovette schiacciarsi contro il muro per non fare la stessa
fine. Le fiamme avevano raggiunto la porta d’uscita. Rimanevano le finestre
come unica uscita, anche se il fuoco era paurosamente vicino.
Ma per salvarsi la pelle, era anche disposto a lasciarsi
abbrustolire un po’.
A parte un leggero
calore alla mano che aveva alzato per proteggersi il viso, quando superò le prime
fiamme non provò particolarmente dolore. Atterrò perfettamente sulla rientranza
della parete, larga abbastanza per stare seduto.
Non si aspettava proprio che la finestra su cui si era
gettato fosse chiusa.
Incredulo, Subaru le mollò un pugno, ma sentì la mano
sbattere contro il ferro. Da lontano credeva che le avessero bloccate al solito
modo, con delle travi di legno, ma le avevano sigillate con il metallo. Aprirle
a spallate o a calci non era possibile.
Tirò fuori un ofuda dalla manica, tenendo sempre stretta
a sé la bambina con un braccio, e cominciò a recitare una breve formula di
offensiva, ma a metà le parole gli si troncarono in gola.
Era da tempo che non aveva più quel tipo di potere.
- Maledizione! – imprecò ad alta voce. Il fuoco si era
propagato ad una velocità spaventosa, e già stava lavorando alacremente per
circondarlo, sfiorandogli i piedi. Non c’era davvero più niente da fare.
Subaru si rannicchiò contro se stesso, stringendo il
cadavere della bambina. Era lei il motivo della sua presenza in quel posto.
Anche per lei doveva fuggire.
Ma non sapeva come fare ad uscire da quella situazione.
Una parte di sé esultò, disgustosamente felice.
Meglio, no? Morire.
Raggiungere Hokuto e Seishirou. Basta responsabilità, basta sensi di colpa,
basta storie sulla fine del mondo, basta tutto. Fai un passo avanti e lasciati
raggiungere, stupido. Sarà doloroso, è vero, brucerai, ma poi non ci sarà più
nulla. L’intensità del dolore dura solo qualche attimo, poi c’è solo silenzio
al posto del crepitio del fiamme, poi c’è il nero al posto della luce del
fuoco, poi c’è l’odore della notte al posto della carne bruciata.
Ma poi c’è lui, no?
Anche se ti sforzi di farlo diventare parte integrante di te, il suo occhio non
sarà mai tuo. Sarà sempre parte di Seishirou Sakurazuka, e non di Subaru, ormai
ex capofamiglia dei Sumeragi.Tu potrai anche morire, ma non è giusto che anche
ciò che rimane della sua essenza scompaia con te.
E’ così crudele
farlo morire ancora…
Senza nemmeno accorgersi di quello che stava facendo, diede
un ultimo colpo violento con la mano alla copertura d’acciaio della finestra,
gridando dalla voglia di rimanere vivo e dal dolore al polso.
Senza un apparente motivo logico, il metallo saltò in
aria.
Senza più un appoggio, Subaru si sentì per un attimo
sospeso in aria, poi vide se stesso precipitare verso il basso, come
risucchiato da un buco nero.
I suoi polmoni inalarono ossigeno e pioggia.
Era fuori. Non sapeva come, ma era fuori da lì.
Sentì le reni battere violentemente contro qualcosa di
duro, ed il colpo gli fece mancare il fiato di colpo. Tutte le ammaccature, le
bruciature e le escoriazioni si misero ad urlare il loro dolore tutto in una
volta. Aveva la vaga percezione di essere ancora abbracciato al cadavere della
bambina, ma non aveva alcuna intenzione di lasciarlo andare, malgrado si
sentisse le braccia ridotte alla stregua di due stuzzicadenti rotti.
La testa pulsava dolorosamente in zona tempie, facendolo
sentire come una pallina da flipper che schizza impazzita dentro una stanza
vuota.
- Subaru Sumeragi, - mormorò, a bassa voce, stupendosi
del suono roco della sua stessa voce, - Subaru Sumeragi, vivo per miracolo.
…A sette anni, Hokuto già sapeva cosa sarebbe diventata:
una stilista di grido. Rubava ogni rivista che riusciva a trovare e le
nascondeva dentro la fodera vuota di un cuscino, poi la sera le tirava fuori e
gliele mostrava. Si armava di un paio di forbici e ritagliava le pubblicità che
ritraevano dei vestiti e le incollava su un quaderno a seconda di come voleva
comporle. Si sedevano poi sul pavimento e lei, sfogliando le pagine, indicava
le figure e si inventava le storie di quelle persone. Quando i loro genitori
erano ancora vivi, lei si intrufolava nella loro camera e prendeva i vestiti
della loro mamma, per provarseli. Uno dei suoi primi ricordi era lei che si provava
un vestito bianco davanti allo specchio, con una striscia di rossetto sul
labbro superiore e le palpebre completamente azzurre di trucco.
Solo qualche anno più tardi aveva preso lei stessa a
disegnare i propri modelli, prima a matita, dove risultavano ben visibili le
cancellature, poi con una penna a punta fine nera, ma lì doveva sforzarsi di
tenere la mano che ripassava sollevata dal foglio, o si sarebbe macchiato
tutto.
Altro ricordo: Hokuto sul lavandino che si pulisce le
mani, dopo che una sua fedele penna aveva perso inchiostro, ed il liquido scuro
inghiottito nel vortice metallico di una tubatura. Lei che solleva la testa e
gli sorride, mostrandogli la mano completamente nera, mentre una goccia d’acqua
le scivola lungo il palmo, tingendosi di scuro man mano che scende…
…Seishirou che accosta la Mild Seven alle labbra, la mano
sopra scarlatta di un sangue non suo, mentre una goccia cremisi gli scivola lentamente
lungo il polso…
Quando la testa smise di girargli, Subaru si arrischiò a
tentare di mettersi in piedi. Il peso dell’acqua piovana l’aveva tenuto
inchiodato al suolo fino a quel momento, ed ancora lottava per costringerlo in
ginocchio. Anche i vestiti inzuppati gli pesavano. La prima cosa che desiderò,
molto egoisticamente, fu di trovarsi da qualche parte lontano da lì, con dei
vestiti asciutti addosso ed una sigaretta in mano.
Riuscì a mettere a fuoco una sagoma scura ed un paio di
fari, attraverso la nebbia che gli offuscava gli occhi, quando abbassò la testa.
Chi se ne importava.
Qualcuno gli appoggiò qualcosa sulla schiena. Qualcosa di
caldo e, dèi del cielo, asciutto. Una giacca.
Due mani appoggiate sui suoi avambracci lo aiutarono a
mettersi in piedi. Le gambe gli traballavano.
Quando lo sconosciuto tentò di levargli la bambina dalle
braccia, Subaru la strinse a sé più forte.
Subaru Sumeragi.
Vivo per miracolo, lei non ha avuto questa fortuna.
Senza nemmeno usare la forza, l’altro gli aprì lentamente
le dita strette attorno alla nuca della bambina. Subaru non ebbe nemmeno la
forza di stringerle ancora e lasciò cadere il braccio lungo il fianco.
Il cadavere gli venne levato di dosso con la stessa
delicatezza che si usava per togliere un neonato dalla braccia della madre
apprensiva.
Chiuse gli occhi, stranamente scaldato dal tessuto di
quel cappotto troppo grande per lui.
Li riaprì. Stava fissando quello che sembrava il tetto di
una macchina. Nero. Era sdraiato sul sedile del passeggero. Sul parabrezza, la
pioggia schizzava con tanta violenza da sembrare grandine. Malgrado la sottile
nebbia che offuscava il vetro per via del riscaldamento acceso, si vedevano i
bagliori non troppo lontani dell’incendio. Gli indicatori del quadro del
guidatore erano accesi, le chiavi erano ancora inserite. La portiera era
aperta, non c’era nessuno vicino a lui.
Chiuse gli occhi, li riaprì ancora.
Aveva la guancia premuta contro la stoffa ruvida del
poggiatesta. Tutto rannicchiato su se stesso, usando la giacca come coperta, sembrava
un feto nel grembo della madre.
Non se n’era accorto, ma il cappotto aveva un odore tutto
suo. Annusandolo, scoprì un lievissimo odore di tabacco, quello che sembrava il
profumo di un balsamo agli oli essenziali cinesi e qualcos’altro che non riuscì
ad identificare.
Quando aprì gli occhi, la prima cosa che vide fu il
cerchietto arancione di una sigaretta accesa. Lo sguardo risalì sulla mano
appoggiata quasi svogliatamente sul volante, lungo il braccio della persona
accanto a lui, - camicia scura, registrò il suo cervello ancora sopito – le
spalle e le ciocche disordinate di capelli neri. Poi, più niente.
L’auto andava. Vedeva, oltre la sagoma scura del
guidatore, le luci schizzare a velocità folle.
- Dove siamo? – chiese, con voce roca. Si sentiva in bocca
un gusto amaro, il suo stomaco era a pezzi.
- Non ti preoccupare.
- Dove andiamo?
- Non ti preoccupare.
- Sei troppo veloce, Seishirou-san, - biascicò Subaru,
pur sapendo che stava dicendo cose prive di senso, - Così ti fermano…
Il guidatore si girò verso di lui. Il suo viso sembrava
un buco nero.
Sentì delle labbra calde premergli contro la fronte. Senza
respirare, sentì l’altro compitare lentamente: Dormi.
Come obbedendo ad un ordine, le sue palpebre si chiusero
di scatto.
Ci mise qualche secondo per svegliarsi e ricordare chi
fosse. Sentiva una metà del corpo calda e l’altra fredda. Si ricordò di una
volta che si era addormentato sul treno di ritorno a Tokyo, dopo un impegno di
lavoro particolarmente spossante. Si sentì come allora, rigido come una statua,
confuso, imbarazzato senza un motivo preciso.
Senza aprire gli occhi, provò a muoversi, voltato su un
fianco com’era. Il corpo reagiva con la stessa lentezza di quello di un malato
terminale, si sentiva le membra pesanti. Ma la testa era davvero la cosa
peggiore.
Doveva averla battuta da qualche parte, perché sentiva
qualcosa di gonfio sulla nuca. Quello che prima era un dolore fatto di piccole
punture di fastidio che si propagavano dalla fronte ai nervi del collo era
diventato un'unica pulsazione sorda ed opaca.
- Ben svegliato, dormiglione che non sei altro. Credevo
ci sarebbero volute la trombe del giudizio per riportarti sulla terra. Hai
dormito la bellezza di sei ore filate. Come va la testa?
- Cosa? – chiese lo sciamano, ancora con le idee in disordine,
aprendo istintivamente gli occhi e girandosi sulla schiena.
Si trovava disteso su un futon, ed aveva una coperta di
lana stesa con cura dal collo alle caviglie. Kamui, il capo del suo nuovo
schieramento, era seduto sul tatami, con un libro aperto sulle ginocchia e dei
piccoli occhiali rettangolari da lettura indosso.
- La testa, - ripeté lentamente l’altro indicando il capo
con un gesto vago della mano, – Ti ho chiesto come va.
- Non molto bene, - ammise Subaru. Kamui annuì, come se
si fosse aspettato una risposta non molto diversa.
- La prossima volta, potrei suggerire un bel salto dai
resti del Raimbow Bridge? Di sicuro sarebbe un suicidio molto meno indolore che
gettarsi da una finestra di un edificio in fiamme, anche se di minor effetto.
Lo sciamano non rispose e si mise a fissare il soffitto. Gli
dava fastidio vedere il volto sorridente e rilassato del capo dei Chi no Ryu.
Al confronto si sentiva uno zombie.
- Guidavi tu quella macchina?
- Sì.
- Hai diciassette anni…
- Credimi, non li dimostro.
Come se fosse stato quello il punto, che conversazione
puerile. La cosa che più infastidiva Subaru era aver chiamato l’altro – e con
quella le volte salivano a quota due – Seishirou.
Eppure erano due persone diverse. Completamente diverse.
Perché finiva per confonderli?
Senza contare che, con l’occhio destro ora funzionate,
non avrebbe più dovuto avere certi problemi.
Il suo dolente flusso di pensieri venne interrotto dalla
mano di Kamui che gli toccava la fronte per sentirgli la temperatura.
- Sei la prima persona che conosco che dopo essere
scampata ad una giornata del genere rischia di morire di polmonite, - commentò il
giovane, alzandosi, - Vado a prendere qualcosa che ti faccia calare la febbre.
Vuoi un tè?
- Come? – chiese stupefatto Subaru, chiedendosi se aveva
capito bene. L’altro scrollò le spalle.
- Al latte, con tanto limone e poco zucchero, come vuoi
tu.
Aveva frainteso la sua domanda. Tanto valeva adeguarsi.
- Come ti fa comodo.
- Bravo ragazzo, - disse Kamui con un sorriso furbo,
prima di sparire dietro lo shoji che dava sul corridoio.
Visto che il dolore al capo non gli dava tregua e lo
costringeva a stare con il collo rigido, Subaru decise di limitare i movimenti
il più possibile per guardarsi attorno.
Le pareti in legno che lo circondavano erano totalmente
spoglie, completamente impersonali, talmente bianche da fargli socchiudere gli
occhi. Alla sua sinistra c’erano un armadio di mogano scuro ed un cassettone,
entrambi mobili di buon gusto, ma stranamente privi di graffi, come se non
fossero mai stati usati. Dietro di lui, una finestra leggermente sopraelevata
rispetto al suo giaciglio. Allungando la mano, sentì anche il frusciare
delicato di una tenda di stoffa ruvida. La lampada sul soffitto era spenta, ma
la luce che passava oltre la finestra era abbastanza forte da illuminare la
stanza, per quanto tenue; forse era il colore delle pareti che potenziava quei
deboli raggi. Non pioveva più.
Nell’aria c’era un gradevole odore di cannella che diede
un po’ di pace ai suoi nervi infiammati. Gli faceva pensare ad un posto lontano
dal mondo reale, che galleggiava nel vuoto.
- Se un uomo la mattina conosce la retta via, potrà
morire la sera stessa senza alcun rimpianto, – disse il Kamui della Terra,
quando rientrò nella stanza. Replicò allo sguardo perplesso dello sciamano con un
sorriso.
- Andiamo. Dovresti conoscere questa frase. Prova ad
indovinare.
- Non credo di essere nella condizione di ricordarmi chi
l’ha detta.
- Confucio. Comunque hai ragione, neanche io me lo
ricorderei se avessi trentanove di febbre e così tante ustioni e lividi sul
corpo da poter essere scambiato per una persona di colore, - commentò il
ragazzo, posando sul pavimento di tatami un piccolo vassoio con sopra due tazze
di tè, due cucchiaini, un contenitore di zucchero di canna ed una scatoletta
bianca che sembrava contenere medicinali, - Non ho aggiunto il limone, so che
non ti piace, ma se vuoi posso andartelo a prendere, - aggiunse.
Subaru sapeva che era sincero. Una volta lasciato il
mondo esterno fuori dalla porta, lo spietato capo dei Chi no Ryu si ritirava e
lasciava il posto ad un’altra persona. Nel vederlo così bello con la camicia
profumata di pulito e gli occhiali rettangolari, col sorriso ampio e l’aria da
bravo ragazzo, ogni madre l’avrebbe guardato come il figlio modello ed ogni
ragazza avrebbe sognato anche solo di scambiarci qualche parola.
Tuttavia, l’aver visto l’altra faccia di quel ragazzo lo
faceva apparire meno splendente ai suoi occhi. Quella gentilezza lo metteva a
disagio, la sua totale disponibilità lo imbarazzava.
- Va bene così, grazie.
- Non mi disturba farlo, - lo rassicurò Kamui.
- Sul serio, va benissimo.
- Ti ho portato anche un antipiretico, così sfebbrerai
più velocemente. Però le istruzioni dicono che non bisogna prenderlo a stomaco
vuoto. Appena finisci il tè vado a preparare qualcosa. Non sarò un bravo cuoco,
ma spero di saper cucinare qualcosa di commestibile.
- Mi basta anche del pane.
- Sciocchezze. Scommetto che è da parecchio che non metti
nulla sotto i denti, ed il pane non è esattamente la cosa più indicata per una
persona a digiuno. Finirai per digerirti lo stomaco.
Subaru, incapace di replicare, si portò la tazza alle
labbra e tentò di bere il suo tè il più in fretta possibile, ma la sua foga fu
tale da scottarsi la lingua e di irritarsi la gola già infiammata. Kamui lo
vide ma non commentò.
- Non ho capito dove siamo, - disse Subaru alla fine,
cercando di sembrare spontaneo.
- Non potevi capirlo, visto e considerato che qui non ci
sei mai stato. E’ la casa del tuo predecessore.
Di tutte le sorprese, quella era l’ultima che poteva
aspettarsi. Per fortuna aveva appoggiato la tazza vuota per terra, altrimenti
gli sarebbe caduta per terra.
- Seishirou viveva qui?
- E’ quello che ho detto, - rispose il Kamui dei Chi no
Ryu, imperturbabile.
Ci fu qualche attimo di silenzio, nel quale Subaru capì
che non sarebbe riuscito a fargli dire altro. Decise di ripiegare sulla
conversazione, finché l’influsso caldo del tè gli teneva snebbiata la testa e
lo manteneva abbastanza lucido.
- Lo conoscevi?
- Oh ho, ripieghiamo sulla conversazione.
Silenzio. Non trovare subito qualcosa da ribattere era
stranamente snervante.
- Direi che lo capisco.
Subaru non capì perché usasse il presente.
- Due predatori si intendono sempre alla perfezione.
Già. Due lupi in un mondo di agnelli. Due cacciatori
solitari con cui non c’erano seconde pelli che resistessero.
- Visto che hai finito il tè, vado a cucinare. Non ti
consiglio di alzarti, finiresti subito per svenire.
Subaru aspettò che l’altro avesse raccolto tutto e fosse
già a metà strada tra lo shoji ed il suo letto.
- Perché?
Il giovane si girò indietro, incuriosito.
- Questo. Per me.
- Perché?
Sembrava quasi che lo chiedesse a se stesso, a qualcuno
di invisibile di fronte a lui, allo stesso Subaru.
- Perché è questo quello che faccio.
Quando Kamui tornò, non meno di dieci minuti dopo, il mal
di testa aveva fatto in tempo a peggiorare ancora. A Subaru sembrava che
qualcuno si stesse divertendo ad usare un trapano dentro il suo cervello, ed i
colpi ritmati dello strumento si trasmettessero in tutto il suo corpo,
riempiendogli la pelle di lunghi brividi ghiacciati.
- Ce la fai a tenere in mano una forchetta o devo
imboccarti? – chiese il capo dei Chi no Ryu, piegando appena la testa di lato.
Malgrado nella sua voce non ci fosse alcun tono canzonatorio, lo sciamano si
sentì comunque in dovere di lanciargli un’occhiataccia, tendendo una mano per
prendere il piatto.
- E’ una semplice frittata, non ho osato fare altro per
non rischiare di avvelenarti, - si scusò Kamui.
- E’ anche troppo.
Anche se non avesse avuto il mal di testa che
effettivamente aveva, non sarebbe riuscito a mangiare molto comunque. Gli era
tornata in mente la bambina che aveva portato fuori dalla fabbrica abbandonata.
Che fine aveva fatto? Qualcuno l’aveva trovata? E l’assassino era morto nello
stesso incendio che aveva provocato?
Si sforzò comunque di mangiare qualche boccone, giusto
per riempirsi lo stomaco. Aveva la bocca completamente impastata e la lingua
indolenzita. Il suo stomaco si ribellò subito al cibo, ma Subaru riuscì a
trattenere i conati che gli salivano in gola. Alla fine spinse il piatto
lontano da sé. Non aveva mangiato neanche la metà della frittata.
Inghiottì la pillola di antipiretico senza bisogno di
acqua. Non ne sentì nemmeno il sapore, malgrado Kamui gli avesse assicurato che
era piuttosto amara.
Ci volle quasi mezz’ora prima che il medicinale facesse
effetto, lunghissimi minuti duranti i quali Kamui si rimise a leggere la sua
lettura interrotta qualche tempo prima.
- Che libro è? – chiese Subaru, finalmente in grado di
pensare senza che una fitta di dolore gli attraversasse il cranio. L’altro gli
sorrise.
- Come ogni cosa, la prosperità e
la miseria non sono che manifestazioni della natura. Il bene e il male invece
sono scelte dell'uomo.
Ma stavolta lui era pronto a rispondere.
- Tsunetomo. Stai leggendo Hagakure.
Kamui appariva soddisfatto.
- Bravo. A mente fredda non ragioni male.
- Perché mi hai portato qui?
- Ed eccolo che cambia discorso.
- Vorrei saperlo.
- Avresti dovuto entrarci già da qualche settimana, in
questa casa, eppure... Santo cielo, sei Sakurazukamori, ormai, eppure ti
comporti ancora come un bambino.
- Mi fa piacere saperlo da uno che ha otto anni meno di
me, - ribattè Subaru, piccato.
- Come se l’età fosse importante… Non metterti a
discutere con me. Non avrai mai ragione, e lo sai.
Lo sapeva, lo sapeva. Sapeva che il suo era solo un
patetico tentativo di salvarsi la faccia. Pietoso.
- Il fatto che tu rimanga in silenzio è già un passo
avanti, comunque, - commentò Kamui, chiudendo il libro e frugandosi in tasca, -
Ti da fastidio se fumo?
- No.
- Gola infiammata a parte, vuoi favorire?
- Ho smesso, - ripeté lo sciamano automaticamente.
L’altro gli scoccò uno sguardo divertito, mentre si accendeva una sigaretta.
- Buffo. Un’altra espiazione. Un’altra offerta
sacrificale ad un cadavere.
Subaru non replicò.
- Non ti servirà a nulla.
- Forse, ma per quello che vale…
- Appunto, per quello che vale. Non vale niente.
Sprofondare nel vittimismo non è utile a nessuno.
- Non mi sto piangendo addosso ed incolpando gli dèi per
la mia sorte.
- Stai tranquillo, stai facendo molto peggio. Stai
facendo a rilento ciò che hai fatto anni fa quando il tuo predecessore tentò di
ucciderti. Stai sprofondando nell’apatia, e quello che più mi diverte è il
fatto che tu stesso non lo vuoi ammettere. Un giorno ti sveglierai e sarai
morto, perché non avrai più voglia di respirare.
Espirò lentamente una boccata di fumo. La piccola nube
grigia si sfilacciò lentamente, risucchiata da uno spiffero nascosto.
- Quando ti trovavi sotto quel ciliegio, nel giardino
della casa d’infanzia di Sakurazuka… Allora
non avevi il coraggio di toglierti la vita perché ti chiedevi che cosa avesse
spinto il tuo predecessore a risparmiarti. Adesso non vuoi farlo perché non
vuoi cancellare l’unica traccia che lui ha lasciato dietro di sé.
Subaru annuì, lentamente. La perspicacia di quel ragazzo
era qualcosa di innaturale. Sembrava davvero che sapesse leggere nella mente,
come molti dicevano che facesse.
- Il tuo sguardo non è cambiato molto da allora. Hai accettato
l’occhio di Sakurazukamori ma ancora non hai accettato chi sei diventato,
l’azione di oggi lo dimostra.
- Io non sono cambiato.
- Sì, invece sì.
Se fino a quel momento la voce del Kamui dei Chi no Ryu
si era mantenuta piatta, quasi atona, puramente esplicativa, stavolta parve
riempirsi di una nota di affettuoso rimprovero.
- La stessa disperazione cieca. La stessa quiete folle. Entrambi
stanchi di vivere. Direi che le somiglianze sono diventate parecchie, fra voi.
Altra boccata.
E’ un attore, pensò Subaru. Un attore che sa quando fare
le pause giuste, al momento giusto. Che sa quando parlare e stare in silenzio
quando serve. Si alzò su un gomito, anche se a fatica.
- Prima, quando ti ho chiesto se lo conoscevi…
- Ti chiederò io una cosa, prima di rispondere: vuoi
davvero saperlo?
Alzò gli occhi verso di lui. Fino a quel momento aveva
evitato di farlo.
- Ho conosciuto una maschera.
- A volte le maschere sono molto più reali della persona
stessa, quando questa è troppo abituata ad indossarle, - commentò Kamui. A
Subaru parve di cogliere un’insolita malinconia in quelle parole. Si chiese
cosa davvero provasse l’altro a vivere come era solito fare, continuando a
cambiare la propria personalità con la stessa velocità con cui si buttava un
vestito usato.
- Ho vissuto per un anno con una persona che non è mai
esistita.
- Ma molto tempo dopo hai amato l’uomo, non la sua
finzione. Ciò non ti basta?
Subaru si lasciò cadere pesantemente sul futon. Rimase a
guardare il soffitto, mentre le tempie prendevano dolorosamente a pulsargli, ma
con meno forza di prima.
- Dovrebbe farlo?
- Se sei la persona che lui credeva, sì.
- Allora non te lo chiederò ancora.
- Parla un po’ tu, ora.
- Di che cosa?
- Di come vi siete conosciuti. Dell’anno che avete
passato. Della scommessa.
- Tu già la conosci. Perché mi chiedi di raccontarti la
mia storia?
Kamui, divertito, scosse la testa.
- Va bene, diciamo che conosco un punto di vista della
storia. Sono curioso di sapere anche l’altro.
Subaru rispose più accuratamente che poteva, anche se non
era molto sicuro di quello che diceva, era una macchina che parlava a ruota
libera e basta. Kamui di tanto in tanto lo interrompeva per porgli delle
domande, per il resto ascoltava attentamente ed in perfetto silenzio.
Credeva che sarebbe scoppiato a piangere raccontando
della morte di Hokuto e di Seishirou, ma si stupì di se stesso quando sentì la
sua voce raccontare quasi tranquillamente quegli avvenimenti. Per un attimo si
spaventò all’idea di che mostro fosse diventato, una persona che nemmeno
sentiva dolore.
Come se gli avesse letto nel pensiero, Kamui lo
interruppe.
- L’anima è come una spugna. Una volta che assorbe tutto
questo dolore, non ne sopporta altro, e tutto le scivola addosso come l’acqua.
Non è vero che non soffri più, sei solamente così saturo di sofferenza che ti
pare quasi di non sentirla. Continua.
Alla fine del racconto, Subaru aveva la gola secca.
L’altro gli versò una tazza di tè appena tiepida e gliela porse, con un sorriso
che stava a significare: Te la sei meritata.
Durante tutto il tempo della storia lo sciamano si era
sforzato di guardare l’altro negli occhi, cercando un lampo di follia in quello
sguardo così dorato e così inquietante, ma non ne vide nessuno. Il motivo per
cui gli aveva posto quelle domande era davvero mera curiosità, non sadismo nel
fargli rivivere certi avvenimenti.
- E’ inutile cercarlo, - disse Kamui.
- Cosa?
- Lo sai di che parlo. Di per sé non sono né
particolarmente buono né particolarmente crudele. Non sono né un pazzo né un
maniaco omicida, al contrario di quanto pensano i tuoi ex compagni. Sono un
semplice essere umano. La cosa che ti dovrebbe sconvolgere è di quanto siano
crudeli gli esseri umani, quello sì, non di non vedermi diventare folle da un
momento all’altro. Quella bambina di oggi dovrebbe avertelo ampiamente
dimostrato.
Subaru rimase in silenzio, premendosi le dita contro le
palpebre. Vedeva indistinte macchie color sangue davanti agli occhi.
- Che fine ha fatto?
- La bambina o il suo assassino?
Lo sciamano alzò la testa di colpo.
- Per lei, ho fatto in modo che la trovassero e la
riportassero a casa.
- E per lui?
- Sai, quella bambina assomigliava molto ad una ragazzina
che ho incontrato tempo fa ad Ebisu. All’inizio ho pensato davvero che fosse
lei.
Quella piccola premessa fece drizzare i capelli sulla
nuca a Subaru, forse perché si immaginava il seguito.
- Pensava di averti ucciso, o almeno così sperava. Dopo
aver appiccato l’incendio è riuscito a scappare da una porta di servizio.
- Che ne è stato di lui?
- Ti basti sapere che ha pagato per quello che ha fatto.
Non intendo annoiarti con i dettagli.
- Atteggiamento eroico, il tuo, - disse Subaru
ironicamente, - Proprio degno del Kamui dei Chi no Ryu. Anzi, fammi indovinare,
c’era di mezzo un qualche desiderio?
- Il tuo. Il volersi inconsciamente vendicare di tale abominio.
Lo sciamano era rimasto senza parole. Il pensiero di un
attimo… Ecco che cosa aveva sentito ed esaudito l’altro.
- Non siamo eroi, nessuno di noi, né gli antagonisti
delle favole, - continuò Kamui, con la voce del padre che rimprovera quasi
dolcemente il figlio che non vuole capire, - siamo come tutti. I Chi no Ryu ed
i Ten no Ryu sono speciali solo perché sono stati scelti dal fato, checché ne
dica l’altro Kamui. Siamo nati per essere quello che siamo ora. I Sigilli, per
farsi carico dei peccati degli altri esseri umani ed essere sacrificati come
agnelli. Gli Angeli, per impugnare il coltello dalla parte del manico e versare
il sangue delle vittime. Niente di più e niente di meno.
- Perché è il nostro destino.
- Esatto.
- Posso chiederti una cosa?
- Puoi.
- Lui voleva che diventassi un Sakurazukamori? Sapeva che
cosa mi sarebbe accaduto se avessimo esaudito il suo desiderio?
Stavolta Kamui rimase in silenzio. Congiunse gli indici
davanti alle labbra, e parve concentrarsi su qualcosa dentro di sé. Stava riflettendo.
- Questa, - disse alla fine, - era l’unica variabile che
non aveva considerato.
Quando richiude lo shoji, lo sciamano si è appena
riaddormentato, stordito dalla febbre ancora alta e dalle ultime rivelazioni.
Avrebbe ancora qualcosa da fare, in giro per la città, ma
non ha voglia di tornare ad immergersi nella realtà giornaliera di Tokyo. Preferisce
stare tranquillo, oggi, e quello è il posto migliore per sentirsi anche un po’
nostalgici.
Si è sempre sentito a suo agio in quella casa, sin dalla
prima volta in cui ci è entrato, per un motivo così banale che a volte lo fa
sorridere.
Anche agli animali solitari, talvolta, piace tornare coi
propri simili, anche se per poco tempo.
L’acquazzone di poco prima è scemato fino a scomparire,
lasciando svanire momentaneamente la cappa di inquinamento che avvolge Tokyo,
ed il cielo appare quasi limpido e vibrante di umidità.
E’ ormai buio, si è trattenuto davvero a lungo, ma aveva
anche lui qualche curiosità da soddisfare. Come ha detto allo sciamano, in fondo
è umano anche lui, e non c’è nulla di sbagliato ad ammetterlo.
Dentro la casa, il solito buon odore aleggia nell’aria.
Sembra che la casa abbia una propria essenza, che durante gli anni abbia
assorbito l’odore del suo padrone e l’abbia fatto suo. In un certo senso lo
tranquillizza il sapere che niente è davvero infinito ma che le tracce possono
durare a lungo. Questo ne è un esempio perfetto. Anche qualche rimasuglio
dell’odore dell’ex sciamano dei Ten no Ryu è rimasto, deve essere stato quando
ha attraversato la sala con lui ancora addormentato fra le braccia. Un
passaggio di qualche secondo, ma è bastato per lasciare un ricordo.
Allarga appena le narici, per analizzarlo. Quell’odore
gli fa venire in mente qualcosa come il talco, un odore dolce ed abbastanza
delicato da poter passare discretamente fra le altre essenze.
Per un qualche strano scherzo della sua mente si ritrova
a pensare a qualche ora prima, quando ha trovato Subaru Sumeragi sotto la
pioggia, che faticava a reggersi in piedi, attaccato saldamente al cadavere
della bambina che aveva tirato fuori dall’edificio in fiamme. Non gli ha
mentito, prima, quando gli ha detto che il suo sguardo non è cambiato da
quell’incontro nella vecchia casa del Sakurazukamori precedente. E’ quello di
una persona che sta annegando ed è disposta a morire se nessuno allunga la mano
per prendere la sua.
Si massaggia la tempia con la mano libera, mentre con
l’altra finisce il suo tè, ormai freddo, prima di lasciare la tazza vuota sul
pavimento, dove si è seduto. Sa che non la urterà, ma dopo dovrà rimuoverla
comunque. Il Sumeragi potrebbe svegliarsi, decidere di esplorare la casa e
romperla inavvertitamente.
Ma sta venendo notte, e lui ha un appuntamento fisso, a
quell’ora.
Si dirige, scalzo com’è, nel giardino che comunica con il
salotto attraverso un altro pannello in carta di riso che lui sposta quasi con
delicatezza, come a non fare rumore.
Pensa ad un giorno di sole e di vento. Pensa alla visuale
vertiginosa di un cornicione di un grattacielo. Pensa al gioco quasi puerile
che consiste nel rimanere in equilibrio su un piede solo.
- Potresti cadere.
Pensa alla finta preoccupazione di quelle parole, e
sorride nel rammentarle.
- Pensi che potrei farmi male?
- E’ un bel salto, da quassù.
Pensa alla mano che, per mera cortesia, Sakurazuka gli
aveva porto, per farlo scendere. Pensa a quando gliel’aveva presa, stupendosi
del fatto che non fosse insanguinata.
- Non ti ho mai visto da queste parti.
- In effetti non ci sono mai venuto, qui.
- Nuovo terreno di caccia?
- No, piuttosto lo chiamerei…
Si era guardato in giro, come se la risposta fosse lì,
negli edifici che li circondavano, e nei rumori, e nel mormorio del vento. Poi,
quasi sovrappensiero, aveva annuito.
- Un… capriccio del momento.
- Oh. Sakurazukamori ha dunque qualcosa in comune con i
poveri mortali?
- Come il Kamui dei sette Angeli, d’altronde.
Si erano sorrisi, poi Sakurazuka gli aveva offerto una
sigaretta. Gliel’aveva accesa, tenendo una mano davanti alla fiamma
dell’accendino perché questa non si spegnesse.
- Sai, mi dispiacerà quando morirai, - gli aveva detto
poi lui, mentre Sakurazuka si voltava a guardare il paesaggio di una Tokyo
inondata dal sole, - Mi dispiacerà considerarti estinto. Mi stavo abituando a mangiare
da te.
- Il sentimento è reciproco. Ma almeno avrò la
soddisfazione di aver cucinato per un altro me stesso a diciassette anni.
- Soddisfatto?
- Sì, direi proprio di sì.
Si era tolto la Mild Seven dalla bocca e gliel’aveva
passata. Sakurazuka l’aveva accettata senza batter ciglio, prima di
accostarsela a sua volta alle labbra.
- Io vengo spesso qui.
L’uomo aveva annuito.
- Sì, lo so.
- E lo sai il perché?
Sakurazuka aveva inspirato lentamente il fumo, prima di
espirarlo in un soffio che non era riuscito a sentire. La piccola nube grigia
si era dispersa subito, mescendosi subito all’aria, come se fosse stata trascinata
via da un’onda.
- Perché qui Tokyo si vede benissimo.
- Sì. E noi siamo quassù, a poterla guardare. E’ una
sensazione… primordiale.
- Strana definizione.
- Però è la più adatta. Secondo te, quanto possono aver
impiegato a costruire questo grattacielo?
- Uhm, non saprei. Tre anni, forse quattro.
- E quanto ci basta per farla crollare? Un battito di
ciglia? Un gesto della mano?
- O forse quattro lattine vuote.
Quella non se l’aspettava. Sakurazuka aveva alzato le
spalle, di fronte allo sguardo divertito dell’altro.
- Mi trovavo da quelle parti per lavoro.
- O quattro lattine vuote, sì, - aveva ripetuto lui lentamente,
come a soppesare l’idea, - Tutto il lavoro di quattro anni, di dieci, di cento…
Che crolla per così poco.
- Credo di cominciare a capire. L’idea stessa di
distruggere è primordiale.
- Già. E’ un bisogno materiale dell’umanità, quello di
distruggere e costruire dalla ceneri. E’ un circolo vizioso che non finisce
mai.
- Devo ammettere che non l’avevo mai considerato, questo
punto di vista.
- E’ primordiale anche l’idea stessa dell’uomo, così
piccolo rispetto a questi giganti di ferro, che però muoiono con la stessa
facilità… Non so, pensarlo mi rilassa. Mi ricorda che niente è davvero eterno.
Il silenzio di Sakurazuka era valso come un assenso.
Erano rimasti a guardare in silenzio la luce del sole che indorava i vetri
delle finestre, mentre il rumore del vento copriva quello del traffico cittadino.
- Sai cos’altro mi dispiace? Il fatto di non poterti dare
io stesso il colpo di grazia.
Aveva sentito che l’uomo si era girato a guardarlo.
- Uno come te si merita di meglio, Seishirou.
Era la prima volta che lo chiamava di nome, ma
l’assassino non ci badò.
- Se tu volessi darmi il colpo di grazia, qui ed ora,
temo che non potrei impedirtelo.
- Perspicace.
- Non credo che mi importi più di tanto, in questo
momento, dell’essere perspicace o meno.
- E di cosa ti importa, allora, in questo momento?
Il viso di Sakurazuka era freddo, inespressivo come
avrebbe potuto esserlo una figura dipinta su un muro. Aveva avuto un accenno di
reazione, però, quando gli aveva sfilato gli occhiali a specchio e lo aveva
guardato dritto in faccia.
- Di niente. Come sempre, del resto. Posso riavere i miei
occhiali?
L’uomo si era sporto verso di lui con un sorriso e si era
ripreso ciò che gli apparteneva. Lui l’aveva lasciato fare, aprendo leggermente
le dita per facilitargli il compito. L’assassino se li era rimessi in tasca, ma
non aveva minimamente accennato a spostarsi. Anzi, gli aveva battuto
leggermente le dita sotto il mento, come a spingerlo ad alzare di più la testa.
- Sei davvero un bel bugiardo, Sakurazuka, - gli aveva
sussurrato poi lui, ad un centimetro dalla faccia, - Non è vero che non ti
importa di niente.
- Hai ragione, - ammise l’altro dopo qualche attimo di
riflessione, accostando il viso al suo.
Malgrado la tentazione di chiuderli, lui aveva continuato
a tenere gli occhi fissi su quelli spaiati dell’altro, ricambiando lo sguardo.
Aveva avuto la sensazione che qualcosa, - il suo stomaco, - si fosse contratto
per poi gonfiarsi quasi piacevolmente. Aveva subito pensato ad un episodio di
quando era bambino, quando aveva inciso la corteccia di un albero, un ciliegio,
con la punta di un coltellino, per un motivo che non rammentava. Una goccia
rosso scuro, quasi un piccolo rubino liquido, era uscita da quella incisione e
lui, spaventato, aveva fatto un balzo indietro. Aveva guardato quella strana
linfa rossa scendere lungo il tronco dell’albero, combattuto fra il desiderio
di lasciarla sprofondare verso le radici o fermarla prima, toccarla, sapere che
sapore aveva.
Alla fine, la goccia era caduta a terra ed il terreno
l’aveva assorbita. Aveva lasciato dietro di sé solo una vaga traccia purpurea.
Aveva sentito, dentro di sé, che c’era una strana
concomitanza fra quell’episodio ed il suo attuale presente. Ed aveva sentito
che si sarebbe comportato esattamente come allora.
- Se fosse davvero il tuo desiderio, - aveva detto in un
soffio, le labbra ancora sulle sue, - Non esiterei a farlo.
- Ma non lo è, - aveva completato l’uomo, allontanandosi
leggermente da lui, tenendogli comunque una mano appoggiata al mento.
- Chi deve ucciderti non sono io.
Sakurazuka aveva finito la sua sigaretta – fino a quel
momento tenuta stretta fra le dita della mano libera – con un’ultima boccata
rilassata e l’aveva lasciata cadere, prima di schiacciarla con la scarpa.
- E’ un bel desiderio, comunque.
- Non è un desiderio. E’ una decisione.
Era passato fra loro l’ultimo soffio di un vento morente,
mentre l’assassino arretrava di qualche passo, subito dopo aver risposto.
- E’ diverso.
Si era girato a guardare, per l’ultima volta di quella
giornata, la vista della città che si avviava, trionfante e maledetta, al
tramonto del sole. Sakurazuka non c’era più, quando era tornato a voltarsi.
Il vento si era calmato.
La prima volta che si era alzato dal futon, Subaru aveva
avuto un violento giramento di testa che l’aveva quasi fatto cadere in terra ed
aveva dovuto appoggiarsi alla parete per non svenire e riprendere un po’ di
fiato.
Di Kamui non c’era traccia, nel corridoio. Lo sciamano
decise di darsi all’esplorazione della casa, finché si sentiva abbastanza in
forma da rimanere in piedi senza avere la nausea e finché i lividi gli davano
tregua.
All’inizio non trovò molto, con sua grande delusione. In
quella parte del corridoio oltre alla sua camera c’erano altre tre stanze, di
cui una era un bagno tenuto in ordine maniacale, malgrado i pochi oggetti da
toletta presenti non richiedessero una disposizione particolare, una seconda
camera da letto, forse per gli ospiti, – ma chi mai poteva venire a fargli
visita? – e quello che sembrava uno studio. Subaru si trattenne lì molto più a
lungo che in altre stanze, per ovvie ragioni.
Un lungo tavolo di mogano era disposto adiacente alla parete,
e sopra vi erano quelli che sembravano quaderni impilati uno sopra l’altro. Ne
aprì uno a caso, e riconobbe subito la calligrafia nitida di Seishirou. Erano
passati nove anni dall’ultima volta che aveva visto un documento scritto da
lui, ma a quanto pare quel tempo non gli era bastato per fargliela dimenticare.
Erano conti, per lo più, accompagnati dalla relativa data.
A volte c’erano scritti anche dei nomi, ma erano rari. Dovevano trattarsi dei
pagamenti ricevuti per i suoi servigi da parte del governo giapponese, visto
che qualche cognome gli era familiare.
Gli altri erano più o meno simili, e non sprecò tempo a
guardarli tutti.
Rimettendoli a posto, vide la sorpresa.
Doveva essere rimasta infilata in uno dei quaderni,
perché prima non c’era, ma sul pavimento ora c’era una fotografia che
riconosceva piuttosto bene, perché si trovava anche a casa sua, anche se
incorniciata e messa vicino al telefono.
L’istantanea rappresentava lui ed Hokuto a sedici anni,
con l’aggiunta di Seishirou, ancora in veste del veterinario venticinquenne che
lo accompagnava al lavoro, scherzava con Hokuto e preparava con lei il suo
“prossimo” matrimonio.
Era leggermente diversa da quella che si trovava da lui,
questa sembrava più una prova che una fotografia vera e propria: Hokuto stava
facendo le boccacce al teleobbiettivo, mentre lui, imbarazzato, cercava di
volgere lo sguardo altrove per non essere inquadrato. Seishirou li guardava
ridendo, con una mano sulla spalla di entrambi, e forse stava tentando di
convincerli a starsene buoni e a fare quella foto, una buona volta.
Subaru non rammentava quel giorno, ma cercava di
ricostruirlo nella sua mente.
“Ma siamo sicuri
che è messa bene, quella macchinetta? Dai, Sei-chan, vai a controllare!”
“Certo che è messa
bene, me ne sono occupato di persona!”
“Allora sono sicura
che è messa male, tu per la tecnologia sei negato forte!”
“Spiacente, ma sono
sicuro sicuro che è a posto”
“Ed io sono sicura
sicura del contra… Subaru, CHE STAI FACENDO? E’ inutile che tenti di
mimetizzarti con lo sfondo, quindi torna subito qui!”
“Forse Subaru-kun
sarebbe anche disposto a farsi fotografare, Hokuto-chan, se la smettessi di
fare certe boccacce alla macchina fotografica…”
“E va bene, per
adesso faccio la brava, ma voi due vedete di non fare cose strane, lì dietro! Sei-chan,
cos’è quel sorriso mefistofelico?”
“Sono felice. Non
si vede forse?”
- Come è potuto accadere? – chiese Subaru in un mormorio,
- Come?
Sorrise amaramente pensando a quegli anni, a quel Subaru
così diverso, intimamente convinto di essere felice, con un futuro luminoso
accanto alle due persone che più amava. A quel Subaru così ingenuo, se gli
fosse capitato di incontrarlo, avrebbe semplicemente appoggiato la mano sulla
spalla, gli avrebbe mostrato il mondo e gli avrebbe detto: “No, Subaru-kun, no.
Questa è la vera realtà, non quella che pensi sia davanti ai tuoi occhi, ti
prego, torna indietro prima di farti male ancora una volta. Smetti di vivere
nell’utopia e torna qui, con noi. Apri gli occhi e guarda tua sorella, guarda il
tuo amore, e dimmi se davvero pensi che tutto rimarrà così, per sempre… No,
tutto è effimero, tutto dura lo stesso tempo di un respiro…”
Girò la foto, per vedere se c’era una data o qualcosa che
potesse ricollegarlo a qualche evento passato, ma di certo non si aspettava
quello che trovò.
Come’è stato
possibile, Subaru-kun?
Per un attimo credette, anzi sperò, di immaginarsi quella
scritta sul retro dell’istantanea, ma non era così. Chi aveva scritto quella
frase era stato Seishirou, che si chiedeva la stessa cosa che tormentava anche
lui.
Com’è stato
possibile? Solo tu potevi rispondermi, tu che nemmeno sapevi, Seishirou-san!
Si appoggiò la foto sul petto e lì la tenne premuta, come
se il battito accelerato del suo cuore potesse far rivivere di colpo quelle tre
figure lì ritratte e bloccate. Pensò che in fondo era quasi confortante, sapere
che non era l’unico ad ignorare un mistero profondo come poteva esserlo il suo.
Il loro, si corresse, il loro mistero.
Mise l’istantanea sul tavolo. Era sicuro che sarebbe
tornato a vederla, prima o poi.
Decise di dedicarsi all’altra ala della casa, dove si
diresse deciso anche se il suo passo rimaneva comunque traballante per via
della febbre, non del tutto svanita.
Lo spiazzo si apriva sulla cucina e, in contemporanea,
sul soggiorno. Lasciando perdere per un attimo l’angolo cottura, Subaru concentrò
la sua attenzione sul salotto.
Un tavolo rotondo e lucido con tre sedie vicino. Una
poltrona color rosso vino. Una piccola collezione di cd, assieme ad una radio,
sopra una piccola libreria, fornitissima di libri di vario genere che lui si
fermò ad osservare con attenzione. Gli sfuggì una smorfia quando vide le opere
di Confucio e di Tsunetomo ordinatamente disposti in verticale, con gli altri
volumi.
Non c’erano né televisioni né telefoni, ma Subaru non si
aspettava di trovarne. Seishirou aveva un odio risaputo verso la tecnologia, ed
almeno in quello si somigliavano.
Dietro la poltrona, uno shoji dava su uno spazio aperto,
probabilmente un giardino. Si toccò la fronte, come ad accertarsi di poter
uscire anche se febbricitante, ed aprì il pannello.
La prima cosa che vide fu il ciliegio. Anche se ormai era
scesa la notte e non avrebbe dovuto esserci alcuna luce fuorché quella dei
lampioni, la pianta pareva circondata da un proprio alone di luminescenza che
faceva splendere i petali chiari dei fiori in boccio. Come ipnotizzato, Subaru
si avvicinò al Sakura, alzando gli occhi verso i rami. Una parte di sé sperò di
vedere una figura scura seduta su uno di essi, un diciottenne in divisa
scolastica che tiene in braccio una bambina dal petto squarciato…
Ovviamente non c’era nessuno, e lo sciamano abbassò lo
sguardo, sentendosi estremamente stupido. Se l’avesse visto, Seishirou avrebbe
sorriso, scosso appena la testa in segno di disapprovazione e gli avrebbe dato
un buffetto sulla guancia, come ad un bambino.
Rivolse la sua attenzione sulla casa, silenziosa dietro
di lui. Sussultò, quando vide Kamui seduto sul tetto, anche se riusciva a
distinguerne solo la sagoma. Avvicinandosi, si accorse che il suo giovanissimo
capo non guardava lui, ma il cielo, tenendo le gambe rannicchiate contro il
petto e lo sguardo rivolto sopra di sé. Non diede segno di averlo visto o
sentito.
- Kamui? – chiese all’altro, leggermente titubante. Quello
non rispose.
- Kamui? – ripeté Subaru, stavolta più deciso.
- Il cielo…
- Cosa?
- Stavo guardando il cielo. Da quando ti sei
addormentato. Da allora il blu è passato
attraverso un’infinità di diverse gradazioni, prima di arrivare a questo colore
così scuro. Questa è l’ora della notte in cui la notte somiglia all’inchiostro,
ma non durerà a lungo. Poi il nero inizierà a trascolorare, diventerà più
chiaro, e sembrerà che la luna sia più luminosa. Le stelle inizieranno a
tremolare e poi si fonderanno col colore del cielo, come delle candele che
qualcuno sta spegnendo con un soffio. Per un attimo, mentre le guardavo, mi è
sembrato quasi di salire verso di loro. Mi pareva di non avere più un corpo, ma
che solo la mia anima fosse lì, a far compagnia alle stelle. Mi è sembrato di
esplodere in mille pezzi, e diventare un tutt’uno con il cielo, e ricoprivo la
terra come un’onda. Per un attimo, ho sentito la foga di tutte le piccole
creature sotto di me che si sforzavano di sopravvivere in questo mondo, con
tutte le loro forze. Forse è per quelle creature che i Ten no Ryu combattono, e
sono quelle che sognano di proteggere.
Kamui tacque per qualche secondo. Subaru non si azzardò a
parlare, ed attese che l’altro finisse. La sua gola era stranamente contratta
in una morsa d’acciaio che non voleva allentarsi.
- Ma credo che i tuoi ex compagni capiranno presto quanto
è grande il peso della colpa dei sognatori… Tu già lo conosci, e sai quanto sia
gravoso.
Adesso lo guardava negli occhi, con un’espressione seria.
Non sorrideva più.
- Credo che tu ti stia sbagliando sul mio conto. Mi stai
sopravvalutando.
- No. Serve forza per accettare quello che è stato ed
andare avanti, e tu hai accettato l’occhio di Sakurazuka, dopotutto. Sai già
che cosa ti occorre, devi solo imboccare la strada che vedi di fronte a te.
Kamui scese con un balzo dalla sua postazione, per poi
passargli a fianco e proseguire come se non lo vedesse. Subaru chiuse gli occhi
ed inspirò a fondo, prima di aprire bocca.
Sapeva che cosa Kamui voleva che gli chiedesse.
- Tu puoi insegnarmi?
Il capo dei Chi no Ryu si fermò lì dov’era, senza
avanzare ancora, ma non si voltò a fissarlo.
- Posso insegnarti come ricominciare. Ma il passo decisivo
devi compierlo tu.
Il cuore gli batteva così forte da fargli male, come se volesse
uscirgli dal petto. Vivere, pensò, io voglio vivere. Per Hokuto, per Seishirou.
Sarò chiunque vogliono che io sia. Sarò Sakurazukamori, sarò Chi no Ryu. Voglio
continuare, ma non voglio smettere di soffrire per loro due. Non li voglio
dimenticare.
Kamui aveva rispettato il suo silenzio fino a quel
momento, ma Subaru sapeva che la sua domanda non poteva aspettare oltre. Aveva
già aspettato abbastanza.
- Subaru-kun.
Il solo sentirsi chiamato per nome gli fece venire le
lacrime agli occhi. In quel tono, in quella affettuosa accondiscendenza, c’era
qualcosa di Seishirou. E lui voleva che fosse Kamui a trascinarlo fuori da dove
stava sprofondando. Forse perché era la persona al mondo che più glielo
ricordava. Non era qualcosa di fisico, non era la sua immagine sovrapposta. Era
qualcosa che l’altro aveva nell’anima, qualcosa di cui lui era a conoscenza ma
a cui non sapeva dare un nome.
A quel punto, Kamui fece qualcosa che non si aspettava.
Gli tese la mano.
Subaru ripensò a quando, in quella stessa mano, aveva
visto la piccola urna di vetro che conteneva l’occhio di Seishirou. Quando lui
aveva allungato la mano e l’aveva presa. Quando, ore dopo, si era trovato
davanti allo specchio, l’urna posata vicino sul ripiano di marmo del lavandino,
ed aveva usato le dita per separare le palpebre dell’occhio destro.
- Dimmi che cosa desideri, Subaru-kun, - ripeté Kamui.
Pochi passi li separavano. Subaru li compì in pochi ma
infiniti attimi. La mano non gli tremava, mentre la allungava per prendere quella
dell’altro. Quella stretta leggera ma calda gli fu di uno strano conforto.
- Aiutami, - gli mormorò. Kamui fece un impercettibile
segno col capo di assenso, prima di ritornare verso casa.
Nei giorni, nelle settimane che sono seguite a quella
decisione ci sono stati momenti duri per Subaru Sumeragi. Momenti di sconforto
e depressione totale, momenti di chiusura netta col mondo e momenti che ha
passato rannicchiato sotto lo scroscio di una doccia calda a guardare il vuoto.
Ma sono stati relativamente pochi, questi episodi.
All’inizio, quasi tutte le mattine, lui è venuto a bussare
alla porta della casa del Sakurazukamori, dove lo sciamano si è definitivamente
trasferito, per poi portarlo con sé a Tokyo, in giro per la città, a volte fino
a pomeriggio inoltrato, a volte per poche ore.
Lui ha parlato molto, durante quelle mattinate, mentre lo
sciamano ascoltava con lo sguardo perso. Però lo ascoltava davvero, e
rifletteva.
Se ne rende conto, di quanto sia difficile la sua scelta.
Tornare a vivere nel mondo reale è molto più difficoltoso che viaggiare nel
regno meraviglioso del proprio inconscio e lì rimanere per sempre.
All’inizio lui lo ha accompagnato, in quella piccola
rinascita personale, poi, col passare dei giorni, si è poco a poco staccato
dallo sciamano, esattamente come la madre fa con un bambino piccolo per farlo
abituare alla sua assenza. Anche se non ha mai trattenuto la soddisfazione nel
vedere Subaru attenderlo sulla porta quasi con ansia, come se avesse avuto
paura che l’altro si fosse dimenticato di lui, l’ha fatto. Finchè non è stato
lo sciamano stesso a cercarlo.
Quando lo vedeva arrivare e raggiungerlo, lui lasciava
perdere quello che stava facendo e lo portava in giro da qualche parte. Ad
entrambi è sempre piaciuto molto il parco di Ueno, e dopo essere passati per
una gelateria o per una creperie, - in questo l’onmouji è identico al suo
predecessore, - si sedevano su una panchina a gustarsi il loro cono e a
guardare gli alberi in fiore.
Anche se avrebbe potuto farlo, - sarebbe stato un suo
diritto, - non ha mai voluto renderlo un Chi no Ryu vero e proprio, non l’ha
mai obbligato a scontrarsi i suoi vecchi compagni di schieramento, e la cosa
non è cambiata malgrado il passaggio dalla loro parte di una seconda Ten no
Ryu, - quando gli aveva chiesto se voleva parlarle, Subaru ha scosso la testa,
rifiutandosi anche solo di vederla, - non l’ha mai costretto a prendere
decisioni che non voleva. Non l’ha mai costretto ad uccidere.
Il Sakura, nonostante questo, ha avuto le sue vittime
sacrificali ogni giorno, ma a macchiarsi i palmi di amaranto non sono stati i
palmi del Sakurazukamori. Ogni giorno, ogni notte, qualcun altro ha visitato il
ciliegio senza esserne lo schiavo.
La cosa è rischiosa, ma non ha potuto fare altrimenti.
Era il desiderio di Sakurazuka, preservare l’animo candido della sua nemesi,
anima che nemmeno il suo assassinio è riuscita a macchiare, ed obbligare il
nuovo Sakurazukamori ad uccidere ancora è una cosa che lui non può permettersi
di fare.
Andrebbe contro ad un desiderio. Da parte sua, la
silenziosa promessa fatta a Sakurazuka l’ha mantenuta.
Anche Subaru ha tenuto fede alla sua. L’ha seguito, l’ha
ascoltato, ha appreso.
Si è mosso, il bambino, ha ricominciato a vivere, ha
cominciato a camminare con lui, piano ma tenacemente, si è disperato in
silenzio ma non si è abbandonato alla sua disperazione.
Oggi è giunta l’ora che cominci a reggersi con le sue
gambe.
Ha capito che è arrivato il momento quando l’ha visto la
mattina precedente, - mentre Subaru era convinto di essere solo, - tirare fuori
da un armadio una giacca di Sakurazuka, osservarla per un po’ e poi provare ad
infilarsela. Gli è un po’ troppo larga di spalle, forse è più grande di un paio
di taglie, ma finalmente ha trovato il coraggio di aprire quell’armadio.
L’ha visto, prima lentamente, poi con più sicurezza, stringersi
fra le sue stesse braccia, toccando le maniche scure della giacca ed affondare
le dita nella stoffa, prima di piegare la testa sul petto, come se si fosse
addormentato.
E’ entrato dopo aver lasciato passare un minuto. Lo
sciamano ha alzato gli occhi ed ha incontrato il suo sguardo nello specchio.
- Sei già qui, - ha mormorato, prima di cominciare a sfilarsi
la giacca. Lui gli ha fermato la mano a metà strada.
- Tienila. Ti sta bene.
Questo ieri. Ed oggi è pronto.
Lo sente anche Subaru che c’è qualcosa di diverso in
quella mattina, lo vede dal suo sguardo.
E’ una giornata invernale, la neve è caduta da poco, lui
l’ha sentita posarsi sul terreno per tutta la notte, ed il giardino della casa
è completamente ricoperto di una soffice coltre bianca. Anche i rami del
ciliegio sono intessuti di ricami di gelo.
- Mostrami dov’è.
Subaru Sumeragi sa da tempo che c’è ancora qualcosa da
rivelare, qualcosa che lui non poteva scoprire prima perché ancora non era
pronto a farlo.
E lui, il Kamui dei Chi no Ryu, lo prende per mano, lo
conduce lì dove hanno parlato quella sera di qualche tempo prima. Quando gliela
lascia, un tremito attraversa il corpo e l’anima del Sakurazukamori, perché ha
capito.
- Qui, - dice lui, indicandogli le radici innevate del
Sakura in fiore.
Si allontana, gli volge la schiena e se ne va, socchiude
lo shoji dietro di sé e rimane a guardare. Subaru rimane in piedi davanti al
ciliegio, le mani serrate e le nocche sbiancate per la forza di quel gesto, e
poi l’urlo.
Un urlo di liberazione, di rabbia verso il destino, di
felicità trattenuta.
Delle lacrime silenziose attraversano veloci le guance
dello sciamano, mentre cade in ginocchio, e Kamui sa che saranno le ultime che
verserà. Le ultime lacrime sulla tomba del suo amore perduto, lì dove lui l’ha
seppellito dopo aver recuperato il suo cadavere dal Raimbow Bridge.
Subaru si copre il cuore con le mani, come se questo gli
facesse male da morire, il suo corpo è ancora attraversato dai singhiozzi, ma
Kamui non lo guarda più. Guarda l’ombra scura dietro la sagoma rannicchiata
dello sciamano, e la vede girare la testa nella sua direzione.
Kamui la vede sorridergli, e sa che lo può interpretare
come un ringraziamento. Lui fa in risposta un gesto con la mano, come ad
esortarlo a sbrigarsi.
- E’ pronto, ora, - gli mormora, muovendo appena le
labbra, ma sa che l’ombra lo sente.
Mentre Seishirou Sakurazuka avanza verso il suo
successore con la stessa calma di chi sa di avere un’eternità a sua
disposizione, Kamui chiude lo shoji silenziosamente, prima di avviarsi verso
l’uscita.
Non c’è più bisogno di lui, ora.