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Qualche premessa introduttiva alla lettura…
Salve gente! Alcuni di voi mi conosceranno, altri probabilmente non
ancora, anche se bazzico da qualche annetto in questa sezione di EFP.
Per questa nuova storia ho deciso di adottare uno stile introspettivo,
un linguaggio e dei toni leggermente più adulti e a volte
duri, per alcuni motivi: 1) i veri pirati di certo non si esprimevano
come galantuomini, checché ce li rappresentino
così la Disney e un po’ tutti i film anche
più datati sulle loro imprese; 2) di mezzo ci saranno
personaggi alquanto neri (nonna Sparrow) e situazioni drammatiche e
macabre (ricordate come appare nei film la mammina di Jack, no?).
Un ringraziamento speciale alla stimata e fedele collega
Spanish_Sparrow per le notizie preziose, a tutti i blog dedicati a Keith Richards e all’insonnia da
gelato al caffè che mi ha dato l’ispirazione
iniziale.
Ultimo appunto: i capitoli saranno più lunghi
perché, salvo ripensamenti, non ne scriverò
più di tre. Spero di non risultare pesante! Qui comunque ho
inserito anche qualche spunto più umoristico, nei prossimi
prevarrano gli elementi drammatici, un po' come nella prima trilogia
piratesca.
Ad ogni modo: commenti, insulti, tiri di schioppo, coltelli sono sempre
ben accetti.
Al prossimo (imprecisato) approdo!)
I – WORTHY THING
Un truculento fremito di budella lacerate esalò insieme ad
un rantolo spezzato.
Le dita incastonate da vistosi anelli restarono strette
all’elsa d’argento, mentre un caldo fiotto
vermiglio imbrattava il logoro acciaio, addensandosi attorno al codolo.
I ferrigni occhi bistrati fissarono con indolenza quelle orbite
giallognole rovesciarsi indietro, finché il grassone con il
turbante non stramazzò sul ponte già viscido di
altro sangue, misto alla salsedine e alla polvere da sparo.
Aveva snudato l’affilatissima sciabola e l’aveva
spinta a fondo, poco sopra l’arancione fusciacca di seta, non
lasciandosi sorprendere dal suo tentativo di aggredirlo alle spalle con un vile moschetto.
Un gesto meccanico e inesorabile che aveva imparato a compiere poco
dopo esser sceso dalla culla e che ormai non gli suscitava che un tenue
senso di nausea, presto sopraffatto dalla soddisfazione di essere
uscito vincitore.
Il giovane filibustiere concesse un veloce esame critico a quel
corpulento sconosciuto dalla carnagione violacea, toccandolo con la
punta dello stivale e appurando che avesse smesso di respirare. Le sue
labbra screpolate dal sale si stropicciarono in un borbottio: - Non mi
sono divertito neanche un po’ con te … -
schioccò la lingua deluso, saettando uno sguardo accigliato
allo stillicidio di combattimenti che impegnavano i compagni di
scorrerie, animando il resto della stretta tolda.
Gli ultimi sopravvissuti alla raffica di pallottole e
all’ineguagliabile furia dei suoi intrepidi diavoli
resistevano per onore e disperazione, proprio come quei soldati
invasati dalla fisima del dovere e dei giuramenti prestati a parrucconi
rammolliti, propensi a tessere subdole trame politiche per arricchirsi
a discapito dei nemici, ma non inclini a sporcarsi direttamente le
vesti in quella spietata guerra di corsa che insanguinava i mari,
riempendone i fondali di cadaveri di vascelli e uomini.
Lui l’aveva combattuta in prima persona sin dalle fasce; non
aveva mai capito quale valore potesse avere rimetterci la pelle per
qualcuno diverso da se stesso.
Neppure sua madre, per quanto disonesta e dispotica da incutere terrore
anche ai più navigati masnadieri, gli aveva mai imposto un
tributo di tale calibro.
“Io
t’ho portato in grembo nove mesi, senza cessare un solo
giorno di saccheggiare. T’ho partorito patendo le peggiori
pene dell’Inferno, mi sono squarciata tutta! E nessuno me lo
aveva chiesto con la pistola puntata! Ora sbrigatela da solo. E fatti
valere.”
Quello era stato l’aspro e incontestabile monito con cui
l’aveva allevato, tra arrembaggi, sbronze e omicidi efferati.
Aveva iniziato a ripeterglielo dacché avesse memoria, e
prepotentemente quelle ingrate parole, intrise di una lapidaria
crudeltà che non aveva mai penetrato, riecheggiavano
all’approssimarsi di ogni nuova sfida, pungolandolo ad
armarsi di ferocia, ardimento, determinazione. Onorava il dovere di
sopravvivere perché era destinato a succederle come Pirata
Nobile, essendo il suo primo ed unico erede. Un contratto stipulato
quando era ancora un poppante, consenziente perché privo di
coscienza. Eppure, ora che la possedeva, nulla era cambiato: si era
adeguato perché non era stato impossibile, e non avrebbe
saputo immaginarsi altrove.
Sfregò la lama ricurva sulla balaustra del parapetto per
sgrondarla dal viscoso fluido scarlatto che vi si era rappreso e, non
riscontrando altri bersagli su cui doverla brandire, la
risistemò nel fodero di cuoio, raggiungendo i sodali che
cincischiavano a poppa attendendo suoi ordini.
- È una bella nave, peccato l’equipaggio fosse
composto da insulse femminucce! – commentò briosamente il
suo quartiermastro, accendendo una ciarlante approvazione tra gli altri
pirati.
Il Capitano di contro si incupì ulteriormente:
giacché solcava gli oceani ed era in competizione con la
terribile madre, sognava grandi e memorabili imprese che
l’avrebbero eguagliato alle leggende viventi del suo tempo,
temute e riverite. Non gli serviva cumulare una quantità di
successi facili che nessuno avrebbe menzionato negli anni a venire. Ma
non tutti erano sospinti dalle sue stesse ambizioni.
Ismael, quell’arabo fuggito eroicamente “da una sporca galea cristiana”,
come raccontava allo sfinimento, aveva un modo di ragionare per certi
versi alquanto infantile. Anche se, per la spigliatezza e la forza di
cui in più occasioni aveva dato prova, l’aveva
eletto suo braccio destro. Il fisico particolarmente massiccio e dei
lineamenti induriti e maturi permettevano all’ex galeotto di
dimostrare il doppio della sua età, pur essendo in
realtà di un anno più giovane di lui.
Comunque dovette dargli ragione almeno sul primo punto: quella giunca
dallo scafo color malva e le vele triangolari ocra era
un’imbarcazione di singolare eleganza, agile, snella,
lussuosa nei legnami, nelle definizioni e nel complesso intreccio di
arabeschi che scolpivano ogni pezzo, artiglierie comprese. La sua
struttura tuttavia era abbastanza fragile e l’imprecisione di
quelle antiquate bocche da fuoco avevano reso una passeggiata
abbordarla ed impadronirsene, dopo che i due bastimenti che le
fungevano da scorta erano stati affondati a cannonate.
- Avanti ora, insolenti canaglie! Arraffate tutto ciò che
può giovare alle nostre tasche! –
incitò con ritrovata cupidità i suoi fedeli che
non esitarono a sparpagliarsi a frotte, buttandosi chi sulle vittime,
catturate o uccise, per spogliarle delle armi e dei loro averi, chi per
i corridoi di sottocoperta, in una febbrile ricerca dei beni di valore
che di sicuro erano stati ammassati nella stiva.
Il giovane Capitano non partecipò a quel concitato
saccheggio: rinunciava volentieri a quella parte del lavoro, ritenendola
la più volgare e noiosa. Dopotutto la ciurma era assoldata
per quel preciso scopo.
Affidandosi ad una cima penzolante si catapultò sul suo
mistico, la Dama di Nebbia, e, assicuratosi di non essere visto dagli
altri, si accese un sigaro che conservava da un po’ di tempo
in un astuccio di osso e pelle di foca. Socchiuse le palpebre
inspirando avidamente quella narcotica composizione di tabacco, canapa
e oppio che gli avevano venduto a Malacca; la assaporò
pigramente fino ad inebriarsi dell’illusione di galleggiare
nel nulla.
L’incognita e la morte avevano accompagnato la sua breve
esistenza, ora dopo ora.
In fin dei conti quella vita priva di leggi, certezze, legami, nel bene
o nel male, scorreva veloce e forse l’avrebbe obliata prima
che diventasse un fardello sopportarla. Al momento era quello
l’unico rimedio che adoperava per rimuovere quei tetri
pensieri, soffocanti, freddi. Onnipresenti.
Quel forte sedativo non poté tenerlo a lungo veramente
distante dalla cruda realtà in cui sguazzava dalla nascita.
Tra le spirali grigiastre gli parve di scorgere relitti di velieri in
fiamme inghiottiti con famelica indifferenza da onde di cobalto, un
dimenarsi di anonime vite aggrappate ottusamente all’estremo
anelito combattivo, come sciocchi pesci già finiti nelle
nasse. Poteva sentire persino le loro grida inascoltate, le bestemmie
urlate contro divinità imperturbabili o forse solo
inesistenti.
E, mescolato a quel vocio indistinto, udiva anche qualcuno chiamare il
suo nome.
- Edward!
Non il suo cognome. E neppure il titolo che con vanto si era
precocemente guadagnato con le sue prodezze, con la spada, col sudore della fronte, non comprandoselo con ignominiose ruffianerie.
Solo una persona si permetteva di chiamarlo così
confidenzialmente; a parte sua madre, qualora per chissà
quale fortuita coincidenza non fosse tanto incazzata. Quando accadeva, sovente
c’era sotto qualcosa di spiacevole che quello spiritoso
considerava molto divertente.
Edward Teague scacciò frettolosamente le nuvolette di fumo
che gli annebbiavano la mente e la vista.
- Fottuto figlio di cagna! Potresti smettere di alloppiarti come un
turco e tornare con noi?
Ismael si sbracciava animatamente sulla tuga dell’imbarcazione
arrembata, sventolando il cappellaccio di fustagno per attirare la sua
attenzione.
Buttò fuori lentamente un fumo denso che pizzicava le narici
e stese un pugno drizzandogli il dito medio, assieme ad
un’occhiataccia più che maldisposta cui quello
rispose con un altro improperio. Edward tirò
un’ultima nervosa boccata, quindi sbriciolò il
consunto involucro di erbe bruciacchiandosi i polpastrelli.
Scrollò energicamente la scarmigliata capigliatura
sforzandosi di tornare lucido.
Recalcitrante, balzò dalle scalette e si lanciò
nuovamente sulla giunca, sbuffando e scansando col suo cipiglio
indispettito e spigoloso quanti gli si paravano davanti smozzicando
frammenti di frasi sconnesse e infarcite di colorite esternazioni da
taverna.
- Di qua, Capitan Teague! – continuavano ad instradarlo tra
le rampe, con eccitazione e ilarità. Tutti quei sorrisini
ambigui e ammiccanti lo stavano urtando peggio di una merda di
gabbiano piovuta sulla giacca nuova: - Insomma,
cos’è che vi ha rincitrulliti?
Finn, il biondo nostromo irlandese che guidava il gruppetto, si
costrinse a restare serio e compito, ma invano, poiché alla
seconda ripetizione di quella lecita domanda annunciò
platealmente: - Abbiamo beccato un bel carico di puttane!
Teague strizzò ripetutamente gli occhi, poi scosse la testa
maledicendo quel viziaccio che lo aveva avviluppato da qualche
settimana e di cui i suoi talvolta si approfittavano: - Se mi state
prendendo per il culo, vi giuro che vi appendo per gli intestini!
– li tacciò sostando davanti ad una porta
riccamente intarsiata. Nonostante la sua serratura fosse stata
scassinata e scardinata, reggeva quel tanto che bastava ad isolare un
incognito locale dal quale, ora si accorse, proveniva un sommesso chiacchiericcio
che lo indusse ad acuire le orecchie, scontento.
- Ecco a voi il tesoro! – si frappose con un sorrisetto Finn,
spalancando con un calcio la porta.
Al giovane comandante si schiuse spontaneamente la bocca trovandosi di
fronte un accecante tripudio di colori, drappi, suppellettili e sete
trasparenti che avvolgevano maliziosamente decine di corpi e volti
femminili ornati da luccicanti monili. Le sue profonde iridi castane,
sprizzanti diffidenza ed imbarazzo, si posavano ora su quelle seducenti
curve appena celate da veli variopinti, che indietreggiavano ad ogni
suo passo inoltratosi nello stanzone, ora sulle espressioni di
rimbambimento e animalesco fervore dei suoi compagni, che pendevano da
un suo assenso per scatenare i già labili freni inibitori.
Lui taceva, attonito e impreparato dalla stravaganza di quella
inaspettata situazione che, se non gestita con misura, avrebbe potuto
ritorcersi drasticamente contro di loro. Troppo allettante per non
nascondere una trappola. La nomea di marmaglia di debosciati li
precedeva, doveva per certo esservi stato qualcuno che aveva escogitato
quella messa in scena. La Marina Britannica ad esempio. Erano mesi che
si preparavano a sferrare l’attacco definitivo dopo averli
coinvolti in una lunga serie di scontri minori e inoltre le abili
incursioni dei Fratelli della Costa nei loro porti avevano causato
parecchie perdite di merci.
Ormai gli Inglesi stavano estendendo il loro predominio incontrastato
anche nel Golfo Indiano, stringendo alleanze con i vari
rajà, solo per non ammettere che li stavano sottomettendo
alle loro direttive, senza invadere esplicitamente i loro territori.
Edward, prima di parlare, cercò la complicità dei
marinai più affidabili tra i suoi, di quelli che avevano
abbastanza senno da non lasciarsi ingannare tanto stupidamente da
lusinghe generose e apparentemente casuali.
- Vi è andato in pappa il cervello, amici miei! Sembrate un
branco di cani in calore! Neanche fosse la prima volta che vedete
qualche paio di tette e gambe discinte!
Li sbeffeggiò duramente ottenendo il graduale silenziarsi dei loro
scomposti schiamazzi, fissandoli truce per assicurarsi che il
rimprovero avesse sortito l’esito voluto, ossia obbedienza,
la principale qualità richiesta ad una ciurma, oltre che la
più ardua da preservare, specie
nell’eterogeneità e nell’incostanza di
certi caratteri.
Neppure lui a quasi ventiquattro anni poteva considerarsi risolto in
quanto ad uomo, tanto meno nel ruolo di Capitano. Almeno sapeva
ciò che non voleva: usare la violenza su ostaggi deboli ed
inermi era una di quelle codarde azioni che avrebbe tranquillamente
evitato. Scontata e spregevole.
Camminò in tondo meditativo, osservando l’enorme
quantità di oggetti da rubare ivi concentrati, quindi
afferrò per i fianchi una delle giovani velate. I compagni
si infervorarono, quella mormorò sottovoce nella sua
estranea lingua, chinando la fronte e tremando di paura ad ogni suo
sfioramento. Ma Teague non intendeva oltraggiarla.
Con garbo da far impallidire un vero gentiluomo, le sottrasse spille,
orecchini, bracciali e collane che l’adornavano: - Piuttosto
non vi siete accorti che queste gallinelle sono piene di orpelli
preziosi? – li ammonì mostrando loro il pugno
colmo di gioielli, risvegliando con quell’ipnotico sfavillio
la loro acquolina.
– Placherete i bollori a terra. Queste donzelle possono
fruttarci parecchie ghinee sul mercato … a patto che siano
presentabili. – puntualizzò con affettata
galanteria, abbonando un sogghigno di intima soddisfazione per l'astuzia in cui aveva dissuaso i loro depravati propositi,
riconducendoli alla sua volontà.
Vi era un confine molto sottile tra il frugare e il palpeggiare, ed
Edward certo non poté soffermarsi a riprendere ogni mano che
si allungava più o meno distrattamente a perquisire le
gonnelle, cercando ben più del lecito. Dopo qualche
tentativo rinunciò a quell’ambiziosa pretesa di
giustizia, compiacendosi comunque per l’ininterrotto
tintinnare di gioie nelle sacche. Quell’arrembaggio, alla
fine, li aveva ripagati molto più di quanto sperasse, e la
sua faccia tesa per il sentore di un vergognoso fallimento a poco a
poco si rilassò, anche se la mascella leggermente squadrata
ed ispida restò contratta e serrata nel suo abituale
contegno che lo faceva apparire oltremodo rigido, orgoglioso ed
introverso.
In verità lui aveva imparato a sospettare di tutto e tutti,
non si sentiva mai troppo sereno lontano dalla sua nave. Desiderava
solo rientrare nella sua cabina, chiudere tutto il resto fuori e
suonare le flessuose corde della sua chitarra, poltrendo nella sua
branda fino all’alba.
Era uno di quei ricorrenti periodi di immotivata uggia e molestia per
tutto, comportamenti idioti dei suoi furfanti in primis.
Tra una sconcezza e l’altra, invece, quelli si stavano
attardando a terminare quel metodico spoglio, scordandosi di essere nel
bel mezzo del mare aperto, e non in un bordello di Singapore.
- Ah, basta con queste manfrine! Trasferite immediatamente tutta la
mercanzia sulla Dama di Nebbia, prima che qualche dannata corvetta
della Compagnia venga a porci i saluti. E fate sparire ogni traccia del
nostro passaggio – ordinò in tutta fretta,
spazientito dall’eccessiva sosta che li stava esponendo
ingenuamente al reale pericolo di un’imboscata.
Ismael, riscosso dal suo tono collerico, gli volse un cenno
affermativo, tralasciando per una volta la sbruffoneria ed istruendo i
marinai ad uscire alla svelta.
Teague attese sulla soglia che tutti si allontanassero, ma,
anziché confondersi in quella bolgia, si intrattenne ad
esaminare gli innumerevoli oggetti d’arredo di quella
sfarzosa cabina. Non ricordava di avere mai incontrato tanta opulenza
su una nave e non se ne era reso conto subito con la folla di
fruscianti stoffe che l’occupavano e che avevano lasciato
nell’aria una penetrante fragranza floreale.
D’un tratto fu colpito da alcune stilizzate incisioni che
riproducevano i tratti di un uomo somigliante al corpulento indiano che
aveva infilzato poc’anzi. Probabilmente doveva essere lui il
proprietario di quell’imbarcazione ricolma di ricchezze. In
effetti, era stato il più mediocre tra coloro che aveva
affrontato in duello, non aveva dato prova di tecnica né
prontezza di riflessi; però aveva un certo gusto per gli
arredamenti ricercati.
Valutò accuratamente cos’altro trafugare tra quelle anticaglie, ignorando di essere in compagnia durante il suo placido
curiosare. Per la precisione di essere ostilmente spiato.
Lo aveva osservato con interesse e impazienza, tenendosi ben nascosta,
camuffandosi tra arazzi e paraventi. Figura superba e distinta, tono deciso e stentoreo, occhi fieri e profondi: era lui il Capitano di quell’ammasso di canaglie di diversa foggia e colore che avevano preso d’assalto la sua dimora.
Gli dei erano stati doppiamente benevoli, non ci avrebbe mai sperato.
La avevano condotta a lui e, ora che erano rimasti da soli, avrebbe finalmente potuto compiere la sua vendetta. Per la sua famiglia brutalmente
trucidata, prima di tutto, e per gli incubi che l’avevano
tormentata da quella infelice notte di spade e fiamme che aveva
spazzato al pari di un monsone ogni frammento del suo passato.
Era giovanissima, nubile, priva di dote e di qualsiasi protezione. Era
diventata meno di niente, lei che aveva avuto il meglio di tutto:
affetti e averi, corteggiatori e servi, perfino una raffinata
educazione inglese. A causa sua, di quelli come lui, aveva perduto ogni
cosa trasformandosi in un’ombra insignificante tra la fiumana
di disgraziati che vagavano per le strade della sua città.
Dopo lo sconforto e la rabbia che l’avevano resa una pallida
copia dell’aggraziata e ammirata fanciulla tra le
più invidiate della sua cerchia per l’acume e la
bellezza, la miseria l’aveva cambiata, abbrutita. Vedendo
chiudersi ogni portone, si era ingegnata a vivere di mille espedienti,
ingannando il prossimo, fingendosi sempre un’altra persona.
Non dimenticando però chi era stata e chi l’aveva
ripudiata.
Così, bazzicando per qualche giorno nel porto, aveva
intercettato la notizia di una giunca che stava per partire alla volta
del Golfo Persico. Si era imbarcata come clandestina e poi a bordo aveva
indossato il costume da odalisca, confondendosi con le altre vergini
destinate a scaldare il letto di un facoltoso pascià. Stava
per mettere a segno il miglior colpo della sua breve carriera. Entrare
in quella corte principesca l’avrebbe riportata ai fasti che
le spettavano di diritto. Invero, oramai che aveva sperimentato la
libertà, non credeva di poter resistere confinata da mura.
Rubare qualche ninnolo le avrebbe permesso di scappare dove voleva. E
ricominciare.
Ogni progetto era sfumato dal momento in cui aveva intuito che erano
sotto attacco di un vascello pirata. La paura era riapparsa a
stringerle il respiro e aveva pregato di non dover crepare.
Poi, riconoscendo il famigerato nome, aveva sentito risorgere la brama
di assolvere quella promessa, sussurrata tra le lacrime sulle loro pire
trasportate dal fiume. Vendetta. Come un fiele che circolava nelle
vene, non si era mai riassorbito e ora pompava prepotente nel cuore,
istruendo le movenze di ogni muscolo.
Prese un profondo respiro e scattò in avanti, agile e lesta
come una pantera.
Ciò che il pirata avvertì fu un fulmineo
frusciare prima di percepire un modesto peso abbarbicarsi sulle spalle
e una lucida punta di coltello spuntare minacciosa da sotto il mento.
- Ho già provveduto a radermi, stamane! –
stigmatizzò iniziando a divincolarsi e reclinando il collo
indietro, inalando un sottile profumo di patchouli e cannella,
decisamente femminile. Di sbieco notò due gambe affusolate
fasciate da larghi pantaloni glicine attorcigliate
all’altezza del cinto. Provò a sciogliere quella
fastidiosa stretta che gli impediva di impugnare la pistola ma,
ponderando male i movimenti, favorì l’avvicinarsi
della lama che gli si impresse sulla gola marchiandolo con un taglio.
- Mannaggia! – sbottò il ragazzo inarcandosi
ancora, agguantandole il magro polso e torcendolo, perché
mollasse il pugnale. Quella sibilò come un aspide,
scivolandogli con un piede sull’inguine e colpendolo
furiosamente.
Edward imprecò continuando a muoversi e a stringerle il
braccio, procurandosi altri sfregi. Non avrebbe chiesto soccorso a
nessuno. Sarebbe stato ridicolo: in fondo doveva essere soltanto una mocciosetta ostinata, però non capiva per quale ragione volesse
ucciderlo. Non la avrebbe accontentata in quel modo: alla morte, se
proprio fosse arrivata lì, voleva sputare il suo disprezzo
in faccia.
Si tuffò di schiena su un sofà, schiacciandola
sotto di sé. L’aggreditrice, tramortita dalla testata che gli
aveva rifilato, fece cadere l’arma, mentre lui, ribaltando
rapidamente le posizioni, la bloccò accavallandosi sul suo
bacino. Quella si difese graffiandolo e soffiando, ma
nell’istante in cui il pirata sfoderò la canna
metallica piantandogliela nella pancia nuda, le sue unghie si
ritrassero, come fosse una gatta, e il seno madido cominciò
a sobbalzarle rotto dai singhiozzi.
Solo ora che aveva smesso di dibattersi il predone poté
guardarla e subito venne rapito dal magnetismo dei grandi occhi
dall’esotica forma allungata, scuri e lucenti come le
più preziose onici, risaltati da uno sbavato kajal blu.
Erano enigmatici, languidi e fieri, anche se tersi di lacrime.
Istintivamente le strappò via la veletta appuntata sulla nuca che la
occultava dal naso in giù scoprendo i capelli nerissimi con
alcune ciocche intrecciate da fili e perline colorate, la calda
sfumatura di sabbia carezzata dal tramonto della pelle levigata, il
dolce profilo delle labbra tinte di rosso ciliegia.
Aveva un’indocile e adorabile espressione da bambina
smarrita in cerca di aiuto, e al contempo il sembiante di una donna
scaltra che mirava ad irretirlo subdolamente con le sue grazie.
Fremette scombussolato: l’acuta sensazione che di quel volto
non si sarebbe mai liberato gli attraversò il midollo,
irragionevole e travolgente. Sconsigliabile. I pirati non possedevano,
altrimenti non avrebbero avuto l’ansia continua di esplorare
e saccheggiare posti sconosciuti.
Pensò che fosse una sicaria, inviata da qualcuno che lo
odiava. E moltissimo.
La fissava incantato ed esterrefatto, tempestandola di muti
interrogativi che restavano impigliati nella sua lingua, curvandogli la
sottile bocca. La scrutava con il candido stupore tipico della sua
età imberbe. Era più giovane di quanto si
figurasse; non avrebbe pensato che l’autore di tanti crimini
scellerati potesse essere un ragazzo scapigliato e imbronciato, poco
più che adolescente. Fissandolo a sua volta, al di
là degli zigomi appuntiti che rendevano i suoi occhi
più severi e ombrosi, vide altro.
Tra le sue ciglia bruciava il fuoco triste di tante battaglie che
prematuramente avevano scorticato la sua innocenza. Neppure la più esaltante di esse l’aveva mai pienamente rallegrato. Era inselvatichito
dalla sorte che gli era toccata, ma nel fondo serbava qualcosa di
tenero che non seppe spiegarsi, che strideva con l’immagine
del famigerato bucaniere di cui la gente parlava accusandolo di delitti
indicibili. Non lo conosceva, eppure credette che in parte fossero calunnie costruite ad arte, da se stesso o da rivali.
Le girava la testa al pensiero del sangue di cui stava per macchiarsi, forse ingiustamente. Si scoprì pavida: sottrarre la vita a qualcuno non era semplice quanto rubare qualche spicciolo. Tra tutte le identità che aveva assunto quella dell’assassina non le si addiceva, ed era contenta di averlo compreso grazie a lui.
Uno sparo infranse bruscamente quell’intenso dialogo
silenzioso.
La bruna gemette strillando, il bucaniere si maledisse per aver
accidentalmente premuto il grilletto e un nugolo di piume
svolazzò ricoprendoli.
Edward, appurato che a squarciarsi era stato solo il materasso su cui
oziavano, si staccò da lei e rinfoderò la pistola
ficcandosi le dita nella folta zazzera per ripulirsi da quella
lanugine, emettendo una sequela di parolacce e versacci schifati.
L’indiana singhiozzava piano coprendosi la bocca, non
più per le lacrime ma per il riso. Un tintinnio di cristalli.
- Sì, molto divertente – bofonchiò lui
fra i denti, indispettito dalla sua ilare reazione, spazzolandosi
arrabbiato i vestiti. La fanciulla si sollevò sui gomiti e
protese una mano verso la sua fronte sfilandogli con tocchi delicati un
paio di piume bianche dalla frangia che gravava su quegli occhi
irrequieti e frustrati, come i suoi, da un’inguaribile
malinconia. Non avrebbe avuto ragione di odiarlo, e neppure di smettere
di farlo da un istante all’altro; d’altronde non
aveva mai brillato per coerenza. I suoi stessi consanguinei la
consideravano strana e spesso restavano spiazzati dai suoi
comportamenti fuori dall’ordinario. Semplicemente non
conosceva misura nelle sue emozioni. Impulsiva e imprevedibile; invece
lui sembrava tanto misurato e riflessivo ...
La spontaneità del suo sorriso lo disarmò.
Qualcosa di invisibile, misterioso e molto forte gli
imprigionò il respiro. Un cappio che avrebbe dovuto recidere
prima che lasciasse il solco, anziché permetterle di
ipnotizzarlo con il suono del suo respiro leggero e dei gingilli che le
pendevano dalle braccia, dalle orecchie, dal collo. Avrebbe dovuto
respingerla anziché vagare con lo sguardo sulla sua pelle
nocciola che appariva, dietro i veli rosati, decorata da arzigogolati
disegni dei quali si domandava con insistenza il significato.
- Brutto bastardo ipocrita che non sei altro! Non hai perso tempo a
spassartela! Ci chiedevamo dove diavolo ti fossi cacciato!
La squillante insinuazione del suo vice fu una frustata che lo
riportò alla ragione, inducendolo a schizzare via da quella
futile trasgressione: - Sei il solito stronzo boccalone, Ismi!
– lo screditò rizzandosi dalla lettiga e
chinandosi a recuperare il pugnale decorato dal pavimento,
sottoponendoglielo. – La serpe mi è saltata al
collo ed ha tentato di sgozzarmi come un maiale! –
strepitò scaldandosi più del dovuto, grattandosi
la bandana olivastra ancora impiastricciata di pilucchi.
La mora alle sue spalle si alzò a sua volta scoccandogli
un’occhiata livida, mordendosi un labbro e preparandosi a
vibrargli un ceffone, ma l’arabo, senza volerlo, si interpose
boccheggiante: - Sia lode ad Allah … Toglie il fiato
– mormorò stregato, squadrandole ripetutamente il
corpo minuto e formoso, dai lunghissimi capelli d’ebano alla
punta delle babbucce rosa, rivolgendosi di riflesso allo scontroso
coetaneo.
- Anche il tuo alito! – lo irrise Edward - Sbattetela in gattabuia con
le altre – si limitò a chiosare freddamente, senza
ricadere nella tentazione di incrociare il suo sguardo pizzuto, che
poco dopo, però, gli arrivò come un colpo di
cerbottana mentre sul ponte di comando dettava disposizioni.
- Datevi una mossa, rammolliti! Su quelle gabbie! Spiegate i fiocchi e
bracciate i pennoni! – ragliò pressante e
autoritario, manovrando risolutamente il timone, rincorrendola con la
vista mentre veniva scortata dai suoi verso un boccaporto. Il vento
portava il calore del fuoco che stava incendiando la giunca; ma era un
altro calore a scaldargli il petto. Si schernì: non poteva
davvero averlo accalappiato.
Qualche ora più tardi, in assenza di altre grane, decise di
rientrare a passo spedito nella sala nautica per rilassarsi, ma,
varcata la porta, inciampò in cumuli di casse, pallottolieri
e bilancini disseminati su ogni superficie d’appoggio insieme
a fogli zeppi di numeri e nomi.
- Capitan Teague! I miei più sentiti complimenti!
È stato il migliore arrembaggio degli ultimi mesi!
– lo accolse da dietro un tavolo Nizar, riponendo il monocolo
con cui stava studiando alcune pietre sfavillanti. Per metà
arabico, per l’altra, chissà come, tedesco;
insomma uno che l’algebra e la precisione le aveva innate,
l’unico di cui si fidava quando occorreva calcolare come
ripartire i guadagni.
- Potremmo comprarci un’isola! Siamo ricchi! Ricchi sfondati!
– trillò saltellando e provando inutilmente a
coinvolgerlo.
Edward lo superò con la parvenza di un sogghigno amaro: -
Non farmi ridere – commentò ruvido, buttandosi su
un’amaca agganciata vicino la vetrata prospiciente il mare
– Esiste forse ricchezza duratura per i furfanti perdigiorno
come noi? La terra prosciuga tutto ciò che crediamo di
possedere – sussurrò mestamente, imbracciando la
vecchia chitarra.
Nizar, che navigava da quasi un lustro al suo fianco ed era abituato ai
suoi repentini sbalzi di umore, non trovò nulla di sospetto
in quell’accento burbero e beffardo, sottovalutando del tutto
il nuovo e sconosciuto tumulto che ribolliva nel suo cuore vagabondo.
- Chiamo gli uomini a raccolta, allora? – lo
interpellò piazzandoglisi a lato a braccia conserte,
dondolando gli occhialetti rotondi tra indice e pollice.
Edward alzò una palpebra interrompendo di punzecchiare le
corde: - Prepara le quote. Appena saremo approdati a Malabar
procederemo coi pagamenti – lo licenziò
preparandosi a scattare fuori di lì senza motivazione
apparente.
L’eccelso matematico gli sbarrò la strada: -
È già tutto pronto - borbottò saccente
e piccato, stroncando la richiesta del Capitano,
- Ma bisogna sommarci la merce di carne, giusto? – gli
puntò un dito quello, trovando un’altra scusa per
svignare da tutta quella confusione.
E, mandando al Diavolo il buon senso, rivederla.
I locali di dabbasso erano bui, stretti, e stantii, e i più
opprimenti in assoluto erano quelli che ospitavano le prigioni di
bordo. Benché fossero state costruite con solide sbarre di
ottone vi era sempre un marinaio preposto alla sorveglianza,
specialmente se i detenuti erano fonte di denaro.
Edward lo rinvenne a poltrire rumorosamente sul suo cigolante sgabello:
- Olly! – sbraitò richiamandolo indelicatamente
sull’attenti. Il paffuto ragazzotto scozzese si
svegliò di soprassalto urlando per lo spavento e
asciugandosi la saliva colata sul pizzetto fulvo.
- Stavi sognando di nuovo di scopare con la tua adorata Mary Sue?
– ironizzò il Capitano osservandolo severamente
nella penombra irradiata da un’oscillante lampada.
Il marinaio rossiccio sgranò gli occhi verdi: - Non stavo
dormendo, signore … Stavo riflettendo. – disse
molto seriamente. Edward sospirò inarcando le sopracciglia e
invitandolo a precederlo nell’altro corridoio che li separava
dalle vere celle: - Riflettevi senza specchio …
- Come dite? – strabuzzò quello, impacciato dalla
precedente figuraccia, girando le chiavi nella toppa.
- Lascia stare … - sbuffò rassegnato il collega,
facendogli cenno di camminare.
- Ma … desideravate? – si bloccò Olly
prima di ubbidirgli.
Teague scrollò con indifferenza le spalle: - Oh scusami.
Stavamo stimando il bottino. Vorrei sapere quanti prigionieri ci sono.
- Ve lo dico subito – il rubicondo marinaio gonfiò
le guance concentrandosi a contare sulle dita – Dunque
… venti femmine e cinque eunuchi – concluse
lanciandogli un furbo ammiccamento.
- Eunuchi? – ripeté l’altro perplesso,
fissando gli esemplari in abiti maschili dietro le sbarre –
Oh beh, si trova sempre qualche invertito cui aggradano –
glissò contagiandogli la risata.
Quando intravide affacciarsi proprio la bella odalisca con cui aveva
avuto quel contatto ravvicinato si insultò beceramente.
Dalla maniera indiscreta con cui lo fissava sembrava leggere le confuse
emozioni che gli provocava.
Schioccò le dita richiamando Olly che si era tenuto in
disparte: - Date loro doppia razione quotidiana di zuppa. Ci attendono
due settimane di viaggio. Non vorrei i compratori le scambiassero per
rami secchi. – parlottò non allentando di scrutare
lei che lo guardava con partecipe timidezza, quasi aspettandosi che
potesse e volesse rispondergli. Pensiero ancora più stupido;
capì che doveva andarsene: – Avvertimi se
dovessero esserci problemi di qualche sorta.
La guardia ghignò chinando il capo in segno di saluto, e lui
lo ricambiò sfuggevolmente, acconsentendo a fidarsi della
bontà di non complicare ulteriormente la sua sciagurata
condizione solamente per essersi infatuato di quella matta ragazzina.
Il grande mistico veleggiava nella notte stellata sospinto a fil di
ruota dagli zefiri che soffiavano miti e costanti in quella stagione,
preannunciando la torrida estate.
Per non mettere a repentaglio il prezioso carico da smerciare, avevano
prediletto le rotte meno trafficate e ad ogni avvistamento di vele
sospette avevano abbrivato per non rischiare svantaggiosi scontri.
Poche leghe ormai li separavano dalla terraferma, il mare stava
cambiando odore. Se ne accorse pur essendo intento ad ascoltare la
nuova melodia che le dita avevano tessuto fluendo naturalmente sulle
sei corde.
Amava intrattenersi con quel poliedrico strumento musicale spandendo le
sue note all’aperto, il cielo come unico spettatore.
Tutto era apparentemente tornato come prima.
Aveva placato le insubordinazioni con esemplari punizioni. E a momenti
stava cancellando il ricordo di quanto accaduto. Di chi c’era
a pochi metri di distanza da dove era seduto.
Sistemò tra le labbra il rotolo di tabacco quasi spento,
aumentando lo strimpellare per soffocare l’eco dei pensieri.
- Capitano! C’è un’emergenza!
Un richiamo allarmato, passi affrettati che correvano nella sua
direzione. Dopotutto la tranquillità se si protraeva a lungo
lo inquietava.
Sospese la sonata al chiaro di luna e si mosse mollemente dal giaciglio
improvvisato con alcuni cuscini, volgendo il collo verso il segaligno
mozzo inglese di cui non aveva imparato il nome, invitandolo ad
esprimersi, mentre gettava oltre il parapetto il mozzicone fumante.
- Una delle indiane sta male, ha perso i sensi. Sembra abbia la febbre!
La concitata rivelazione non gli alterò un battito, diede
una pacca al moccioso e rispose con un grezzo: - Sbarazzatevene. Una in
meno non fa la differenza.
Il ragazzino deglutì un impacciato: - Come comandate,
Capitano. – girandosi e allontanandosi tutto tremolante, ma
per poco non ruzzolò sentendosi afferrare il braccio.
- Aspetta. Accompagnami. – mormorò Edward
controvoglia, passandosi una mano sulla faccia.
Non c’erano molti altri in giro a quell’ora,
incontrò solamente Ismael ed Olly che lo accompagnarono
farfugliando tutto il tempo di maledizioni legate al trasporto di
femmine e alla necessità di togliere di mezzo tutte quante.
Li lasciò blaterare camminando nervosamente davanti a loro,
rimuginando sulle soluzioni per zittire quella diceria prima che
prendesse campo tra gli altri.
Appena giunto sull’uscio delle celle notò subito
una maggiore irrequietezza nelle prigioniere che avevano alzato il tono
della voce, dando l’impressione di confabulare. Si
avvicinò battendo le nocche sulle traverse metalliche: -
Hey! Non sta bene sparlare di una persona in sua presenza –
le motteggiò fingendosi offeso. Le donne si spostarono
impaurite permettendogli di scorgere chi fosse tra di loro a star male.
Immergersi di nuovo in quel viso, che nonostante il pallore emanava un
bagliore dotato di uno sconosciuto potere avvincente, lo
destabilizzò.
- Ah! Ci avrei scommesso le palle che doveva trattarsi di quella
piantagrane! – mugugnò voltandole le spalle, roso
da una contraddittoria volontà di lasciarla lì o
condannarsi di nuovo a respirarla.
I compagni pazientavano il suo strano indugio, non riuscendo a scorgere
una decisione nei suoi occhi impenetrabili benché sbarrati.
- È da una settimana che si rifiuta di mangiare e bere
– lo informò Olly – Non sono riuscito a
convincerla in alcun modo! Gran bella testarda!
Edward sbuffò stizzito, poi si pronunciò
seccamente: - Portatela nella mia cabina.
Si sentì adagiare su qualcosa di non molto soffice ma
comunque comodo, e stese le gambe, sgranchendo le articolazioni
intorpidite mentre dei polpastrelli callosi le tastavano i polsi e la
carotide. Brividi di freddo la fecero sussultare quando sulla fronte
percepì qualcosa imbevuto d’acqua e si
rannicchiò su un fianco, rilassandosi per il tepore che
subito dopo la ricoprì.
- Mandalo giù. Ti riscalderà e
disinfetterà.
Una mano le sollevò la nuca ed obbedì alla
leggera pressione sulle labbra schiudendole e ingurgitando quel liquido
che immediatamente le incendiò la gola e le viscere,
riscuotendola di colpo: - Che veleno mi hai dato, farabutto!
Udirla parlare nella sua stessa lingua, seppure con un accento estraneo
e incerto, lo sorprese e rassicurò, ma cercò di
non mostrarlo: - Ci sono mille modi per suicidarsi, molto
più immediati del digiuno … o del rum. Lo bevo da
anni, credimi. – ridacchiò il giovane
avventuriero, alzandosi dalla brandina e continuando a scolarsi la
bottiglia.
La ragazza si guardò attorno non ricordando cosa le fosse
successo. Aveva la pelle accaldata ma rabbrividiva.
- Mangia – le ordinò Teague lanciandole una
saccoccia di biscotti secchi.
L’indiana portò le ginocchia al petto stringendosi
nella coperta sdrucita e piantando gli occhi nei suoi, abbozzando un
sorriso di timida gratitudine.
- Perché l’hai fatto? – la
fulminò lui, più avvilito che incuriosito,
risedendosi sul bordo del lettino per convincerla a nutrirsi e per
poterla osservare meglio. Le porse una galletta, speranzoso di vederla
riprendersi.
La mora abbassò il mento e il suo accento si
colorì di un tenace orgoglio: - Non voglio essere la schiava
di nessuno. – si inumidì le labbra rialzando lo
sguardo – Liberami, ti prego! Avete già preso
tutto ciò che di valore avevamo, non vi basta? –
lo supplicò sfiorandogli la sottile cicatrice sul collo.
Edward posò le iridi sulla sua piccola mano che continuava a
vellicarlo, innocente e pericolosa, sui languidi occhi a mandorla,
incantevoli e misteriosi, sui suoi capelli di seta, sul suo ventre
piatto e ornato da un vezzoso brillantino nell’ombelico: - Un
pirata non conosce limiti. Ambisce sempre a spingersi oltre –
bisbigliò meno disinvolto di quanto volesse, mentre
incontrollabilmente aveva iniziato a toccarle i fianchi scendendo verso
le cosce, bramando un contatto più diretto e proibito.
Lei non opponeva alcuna resistenza ma tremava e la prospettiva di
approfittarsi della sua evidente debolezza lo disgustò. Si
rialzò come scottato da olio bollente: - Mangia. Ti concedo
di restare qui fino a domani. Dopo di che tornerai con le tue compagne.
Qui non esistono favoritismi.
La giovane aggrottò le nere sopracciglia: - Dove ci state
portando? – polemizzò fiaccamente, attanagliata da
uno sbigottimento che lottava ad armi pari con l’agitazione.
Edward si ravviò la bandana: - Mettiamola così:
ammirerete posti che non avreste avuto occasione di ammirare se foste
giunte alla destinazione cui eravate destinate – la lingua
gli si arrotò veloce tradendo il trasporto che intendeva
rinnegare; oramai si era esposto.
La giovane donna si rattristò: - Fingete cortesia e invece
ci trattate peggio di bestie! So chi sei e quali cose orribili hai compiuto! – gli rivelò, mortificata
dall’effimera e sconclusionata illusione in cui si era
cullata per sfatare quella consapevolezza.
Lo spettro del rimorso corruscò il cipiglio fermo e
flemmatico di Teague: - Benvenuta nel mio mondo.
L’indomani una pallida alba salutò
l’ancoraggio della Dama di Nebbia nella verde baia di Malabar.
La ciurma si affaccendò eccitata a scendere a riva,
pregustando i divertimenti con cui scialacquare tutti i guadagni
accumulati in quelle settimane di scorrerie nelle prospere acque che
bagnavano quella miriade di isolotti e penisole. Non appena le
scialuppe furono calate sul pelo delle placide onde a bordo
piombò un silenzio tombale, screziato solamente dagli
scricchiolii delle giunture dei paranchi e dagli spifferi che
fischiavano tra le velature ammainate.
Edward si soffermò a contemplare qualche minuto
l’alzarsi del sole dal grigio orizzonte, rimandando
un’incombente decisione dalla quale intuiva che sarebbe
dipeso il suo futuro da Capitano. Controllò che le
imbracature dell’unica barca rimasta agganciata alla fiancata
fossero sufficientemente sbrogliate, quindi rincasò nella
sua cabina.
Ma non la trovò stesa nella branda su cui l’aveva
lasciata la sera precedente. Era ritta in mezzo alla stanza ed
esaminava le innumerevoli cianfrusaglie sparse o appese alle travi del
tetto.
- Perché sono ancora qui? Perché non mi hai
venduta assieme alle altre? – lo interrogò senza
voltarsi.
Sembrava essersi rimessa completamente; notò che aveva
consumato anche la porzione di minestra e la sua andatura non vacillava
più. Presumibilmente aveva ingigantito il suo malessere
perché voleva affrontarlo di nuovo. Per quanto illogico era
possibile.
Le si avvicinò cautamente, sussurrandole sulla scapola che
sporgeva dal corpetto traforato: - Il codice prevede che il bottino di
ogni battaglia venga distribuito equamente. E che ogni uomo abbia la
facoltà di disporne come e quando vuole.
La straniera, sentendosi solleticare dalla sua
vicinanza, sfuggì lesta. Il bucaniere la raggiunse e le scagliò
un’occhiata in tralice: - Accomodati.
Non era un vero invito, piuttosto una spazientita imposizione.
Ricomponendone il senso, la prigioniera non vi si piegò: -
Non sarò la tua scimmia ammaestrata!
Era uno scricciolo eppure
sprizzava una vitalità eccezionale, abbagliante. Proprio per
questo tenerla con sé l’avrebbe spenta di
dispiacere.
– Odio le scimmie! – sbottò Edward,
distogliendo il nascente rammarico per quanto stava per accordarle.
Un’ultima domanda lo assillava. – Come conosci la
mia lingua? – le chiese addolcendo il tono, e,
sperò, lo sguardo.
La ragazza sbatté le palpebre diverse volte, disorientata
dal non comprendere le sue intenzioni e affascinata dal suo astruso
interessamento. Volle essere sincera: - La mia istitutrice la parlava.
- Sei una specie di aristocratica? – si stravolse il Capitano
squadrandola in maniera più insistente. Il portamento
indubbiamente era tale; poi ripescò dalla giubba
l’arma con cui l’aveva minacciato e le si
appressò con un sogghigno arrogante – O forse una
sicaria? – la accusò oscillando il pugnale sulla
sua scollatura.
- Quello era un dono di nozze – mentì la ladra,
arretrando e scontrandosi con una seggiola, sentendo risorgere le
palpitazioni nell’imbattersi nel piglio intimidatorio presente sul volto cupo del ragazzo.
- Immagino. Glielo avresti infilato nello stomaco o magari
l’avresti castrato. – giudicò schietto e
sprezzante – Accidenti, quell’uomo mi è
debitore … Oh, già … L’ho
ammazzato – rifletté ad alta voce, lisciandosi le
guance punteggiate da un’irsuta peluria.
La bruna si era accasciata sulla sedia e lo squadrava a metà
tra la preoccupata e l’invaghita: quel ragazzo aveva degli
slanci assolutamente assurdi. Non era del tutto sano di mente,
probabilmente, e per quanto ciò lo rendesse più
affine di chiunque altro avesse conosciuto, era consapevole che non si
sarebbero mai appartenuti. Era un vascello in tempesta. E lei voleva un
ormeggio sicuro.
Teague, intercettata la sua espressione frastornata, andò a
sedersi dall’altro lato del tavolo, ripiegando alcune mappe e
riponendole nei cassetti: - Ad ogni modo, come ti chiami, carina?
– tagliò corto mimando un sorriso sfacciato per
ridurre l’imbarazzo.
Ora la trattava come fossero due amici e stessero giocando.
Intenzionalmente o no, la confondeva e le pareva di trovarsi in una
boccia di vetro, in una finzione.
– Diamine! Puoi anche inventartelo un nome! – si risentì lui, aggrottandosi per l’ineffabile intrigo che gli infondeva quella conturbante sconosciuta.
La replica della mora fu
improvvisamente furibonda: - Tu non potrai legarmi! Non potrai!
Il pirata riservò un’incisiva osservazione alla
porta lasciata aperta, accavallò i piedi sul tavolo e
incrociò le braccia dietro la testa, piantando gli occhi al
soffitto: - Non ne ho alcuna intenzione … –
confessò pigramente, aspettandosi di vederla volare via, con
il desiderio di libertà di un passerotto guarito.
L’affascinante estranea esitò, sentendo
formicolare sempre più le vene al richiamo della fuga.
Le stava suggerendo di scappare e che non l’avrebbe
ostacolata. Che non le importava di lei, in conclusione.
Il motivo di quella scelta non l’avrebbe indagato, però la
accolse con sollievo. E un pizzico di rimpianto. Anche lui era
un’anima errante, che agognava la pace ma ancora non era
pronto a ghermirla.
Lo aveva capito e le stava dando una possibilità.
Imbracciò i remi, precipitò sulle onde e
iniziò a vogare. Osò credere che un giorno,
forse, si sarebbero ritrovati. E lo avrebbe ringraziato.
Edward si appollaiò alla boma di trinchetto, sporgendosi sull’azzurro paesaggio marino. E, vedendola svanire dentro una barcaccia, si costrinse a dimenticarla.
Anche se gli era rimasto addosso un po’ del suo sensuale
profumo di pioggia primaverile.
Ruth ed Edward
Teague (alias Freida Pinto e Keith Richards).
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