noremedyforourmemory
No remedy for
our memory.
«Would
you leave me,
If I told you what I’ve done?»
«And would you need
me,
If I told you what I’ve become?»
«Puoi
sempre utilizzare un altro colore se quello è
finito» ridacchiò Albert aprendosi in uno dei suoi
rari sorrisi a mezzaluna e
distendendo la gamba fino a sfiorare il cavalletto traballante.
Le
tendine di pizzo bianco quel giorno svolazzavano
come colombe, leggere alla brezza primaverile che invadeva la stanza 1022 dove Scarlett si accingeva con
entrambi i sopraccigli corrucciati a spremere l’ennesimo
tubetto di colore a
tempera su una misera tavolozza, già di suo incrostata di
precedenti residui
cromatici.
I
capelli dalle tonalità vermiglie le ricascavano a
ciuffi sulle guance paonazze a causa dello sforzo dovuto al continuo
lavoro
delle sue dita screpolate sul sottile oggetto contenente evidentemente
del
colore asciutto.
Ma
era un’altra la causa del suo rossore sulle guance
e del palpitare irregolare – pesante, quasi come un
singhiozzo - del cuore
contro la sua gabbia toracica.
«Il
patto era di stare zitto se volevi vedermi
dipingere» lo ammonì Scarlett e incurante del
consiglio offertole dal ragazzo,
con un cipiglio insoddisfatto continuò a riscaldare il
tubetto tra le sue mani
sudate così da far sciogliere il colore intirizzito e
riportarlo alla sua
consistenza densa e fluida.
All’ennesimo
fallimento da parte di lei, Albert alzò
un sopracciglio scoccandole un’occhiata di
superiorità e facendola vergognare
fino alla punta del naso all’insù che si ritrovava.
I
suoi occhi sembravano deriderla e gridarle un te
l’avevo detto con aria fanciullesca.
Da
parte sua la ragazza, che vantava una certa
notorietà per i suoi moti di stizza, arricciato il naso,
agguantò il misero
tubetto e con un gesto turbolento lo scaraventò fuori dalla
finestra che si
affacciava sul giardino interno, chiudendo poi accuratamente le
persiane verde
bottiglia come se quello, atteggiandosi da boomerang, dovesse
nuovamente
ritornare sotto i suoi occhi.
Emesso
un lieve sbuffo di irrequietezza e affilando lo
sguardo nella speranza di intercettare gli occhi di Albert,
ritornò alla sua
postazione davanti alla tela bianca e riprese la sua operazione di
spargere
sulla tavolozza il colore, derivante da un altro tubetto questa volta
ancora
buono.
Era
un’operazione lunga e intensa quella che preparava
Scarlett alla realizzazione dei suoi dipinti e, a suo dire, anche
quella che
più la spaventava. Glielo si poteva leggere nello sguardo,
in quei filamenti
dorati che aveva al posto degli occhi, con quanta cura e dedizione
sceglieva i
tubicini disposti in una fila di ventiquattro colori e i sussulti che
emetteva
ogni qualvolta la tempera raschiava la tavolozza, quasi come se quello
non
fosse il colore da lei designato, quasi come se il contenuto di quei
tubicini -
comprati chissà dove e a poco prezzo – fosse una
continua sorpresa per Scarlett,
la quale il più delle volte li osservava con una ruga a
solcarle la fronte
diafana.
«Scarlett?»
la richiamò Albert dalle sue continue
divagazioni che l’avevano vista per due buoni minuti ad
osservare con sguardo
nervoso la tavolozza ormai completa dei colori sufficienti al dipinto.
La
rossa alzò lo sguardo interrogativo, inclinando
leggermente la testa, invogliando Albert a continuare, ancora non del
tutto
conscia dei propri gesti così come si sentiva ogni volta in sua presenza.
Era
normale che Scarlett perdesse a volte il senso del
tempo e dello spazio quando intorno sbucavano due occhi turchini
e due fili di capelli color pece. Più che un forte
sentimento di attrazione, per lei diventava quasi
un’indicibile paura che le
rodeva le viscere e le faceva alterare i sistemi vitali. Fin dal loro
primo
incontro, sulle due poltroncine in pelle sintetica
dell’ufficio-studio del dottor
Sullivan, tra le varie scartoffie e macchinari che odoravano di
medicinali e
disinfettanti, Scarlett aveva potuto giurare che Albert aveva un che di
maligno
nello sguardo ogni qual volta che la fissava, affettando
l’aria che li
separava, quasi come se al posto di quei bellissimi occhi azzurri avesse due proiettili - di piombo
- che miravano in sua
direzione, puntando alla testa, al cervello.
Ed
era questo, Albert per Scarlett. Un
buco.
Un tarlo. E Scarlett più grattava,
più il foro si allargava, le
inacidiva le orbite, le intasava le vie respiratorie prendendo pieno
possesso
delle sue facoltà.
Ma
questo solo quando lui era presente, per il resto
Scarlett rimaneva lucida e vigile finché col sopraggiungere
della notte,
distesa supina sul suo letto, i medicinali
non facevano effetto.
«Cosa
dipingi?» la interrogò il ragazzo seppur la sua
attenzione fosse tutta rivolta a una radio d’epoca rinvenuta
nel laboratorio di
pittura prima ancora della sua riapertura da parte della rossa.
Scarlett
arrestò il suo raschiare sulla tela e intinse
il pennello nel bicchiere colmo d’acqua per diluire la
consistenza, densa e compatta,
del colore che si accingeva a deporre con una linea leggera sulla
distesa
bianca e ruvida. Sorbita dal suo lavoro quasi si dimenticava di aprir
bocca per
pronunciare la risposta alla domanda del ragazzo, la quale risposta era
stata
prescelta tra le tante, offensive e non, a disposizione nella sua mente.
«Non
sono affari che ti riguardano» emise con un
latrato quasi cagnesco non lasciando sfuggire tuttavia ad Albert la
frazione di
secondo durante la quale i suoi occhi si erano posati su di lei prima
del
sopraggiungere del silenzio.
You are the hole
in my head
You are the space in my bed
You are the silence in between what
I thought
And what I said
«Pensi
mai di uscire da questo posto?»
Nuovamente
la voce di Albert tornò, come una mosca
fastidiosa, a punzecchiare le orecchie di Scarlett tutta intenta nella
realizzazione del suo capolavoro.
Non
che Albert fosse mai stato quel tipo di ragazzo
incline alla conversazione. Paradossalmente a come Scarlett continuava
a figurarselo
in quel frangente di tempo a poca distanza l’uno
dall’altra, Albert era sempre
stato un tipo tranquillo e a cui nulla oramai poteva recare sorpresa o
meraviglia.
Era come se da quando era nato, il mondo avesse perso ogni suo fascino
tale da
procurargli emozioni. Del resto a distorcergli la mente e a
confondergli il
cervello vi era la sua malattia, ma
questo sembrava turbarlo tanto quanto Scarlett, che ne ignorava
addirittura
l’esistenza.
Non
che non si fosse domandata il perché della sua
presenza in quella struttura, semplicemente dava per scontato il fatto
che lui
fosse l’ennesima cura dopo le tante provate dai medici,
somministratale per
migliorare la sua condizione e che evidentemente sembrava addirittura
funzionare. Nonostante questo Scarlett non riusciva a scrollarsi di
dosso la paura che aveva di lui
– per lui.
La
ragazza tracciò il contorno del suo soggetto con
una lieve linea per poi accostare ad essa un grumo di colore il quale
poi
veniva spalmato abilmente con un pennello più spesso, dalla
punta e dal manico
consunto.
«Non
pensavo neanche di entrarci, figurati se penso di
uscirne» asserì abilmente scoccando
un’occhiataccia ad Albert il quale dapprima
si corrucciò, intento a rimuginare la strana risposta
riservatagli dalla rossa,
e poi come se avesse scoperto chissà che cosa si
illuminò negli occhi di una
strana luce che gli fece distendere gli zigomi e indirizzare uno
sguardo del
tutto compiaciuto a Scarlett.
La
ragazza si rifugiò dietro la sua tela sperando di
non rivedere sbucare quei capelli corvini per un buona
mezz’ora, il tempo di
rifinire il suo dipinto. Era percorsa tutta da un tremito che sembrava
provenirle da un punto all’altezza dello stomaco come se al
suo interno vi
soggiornasse uno stormo di ronzanti calabroni che continuava a farle
tremare le
pareti interne del suo organo muscolare. Era una sensazione ben nota
alla
povera Scarlett e che rivedeva in Cecilia, sua nuova amica in quella
struttura,
quando essa tutta tremante si accucciava alla sua figura nel cuore
della notte
e, come un gatto alla ricerca di fusa, si raggomitolava sotto le sue
coperte
trovando conforto dopo un brutto sogno. Quel tremore era simile alla paura della notte provata da lei in un
tempo immemorabile e che condivideva solo con la tanto amata sorella e che poi veniva dimenticato
quasi del tutto allo spuntare del giorno, quando i deboli raggi solari
la
sorprendevano ancora nel letto di lei.
Albert
scatenava in lei tutte queste più intense
emozioni, ma lei era poco avvezza a manifestarle e lasciava che la
corrodessero
fin dentro le ossa, ustionandole le scapole, triturandole le costole
così da
sbriciolarsi come un muro fatto di calce che per troppo tempo
è stato abbattuto
dal sole. Ma Scarlett continuava ad agglomerare linee, colori su
colori,
issando quel tanto odiato muro fatto di tela e di tempera per separarla
da lui.
«Ho
finito» mormorarono le labbra di Scarlett mentre
le sue mani si prestavano a levigare il volto che per tante ore aveva
subìto
l’opera del suo pennello. Gli occhi gialli si soffermarono
sulla rotondità del
viso, sulla fossetta sul mento, sulle ciglia ispide e sullo sguardo turchese che tanto somigliava a quello
della sorella.
Albert
slegò le braccia dalla salda morsa in cui aveva
soffocato il petto e guardò la pittrice di sottecchi con
un’espressione
afflitta, del tutto fuori dal contesto.
«Che
cosa hai dipinto alla fine?» chiese con
l’intenzione di sbirciare al di là della tela,
simulando questa volta una
curiosità esagerata che però sembrò
guastare repentinamente l’umore di quella
mattina e che adesso mutava in un candido sorriso – il
secondo per l’esattezza
- derivatogli dal permesso di Scarlett di vederla dipingere.
La
rossa impallidì e l’aria arcigna che da sempre
l’aveva caratterizzata svanì dal suo volto. Solo
allora la verità di quella
paura sviscerante le crollò sulle gracili spalle, facendole
perdere per una
breve frazione di tempo tutta la lucidità che la sua mente insana necessariamente bisognava.
«Ho
dipinto te»
soffiò e quasi rimase incredula di quelle sue stesse parole,
giacché suonavano
come una bugia.
Che
alla fine i tre quarti della sua già parziale sanità
mentale erano occupati da lui
così come i restanti ettari del suo cuore.
You are the night
time fear
You are the morning when it’s clear
When it’s over you’ll start
You’re my head
You’re my heart
«Me?»
domandò stranito Albert inarcando un
sopracciglio sulla sua fronte giovane e per la prima volta destando una
sana
curiosità e un minimo d’interesse.
«Sei
sordo o cosa?» lo rabbonì meglio la rossa seppur
con voce tremante affilando di più la lingua, unica sua vera
arma. Approfittò
del timido sorriso di Albert per girare di controvoglia la tela e
lasciare che
le sue impronte si impigliassero nel colore non ancora del tutto
rappresosi sull’estremità
superiore della superficie. Le sue rise di scherno e di derisione:
sembravano
essere il tipo di punizione più adatta e quel tiro mal
disposto della sua
testa.
Albert
ne scrutò i minimi particolari come se fosse
stato il più abile dei critici artistici, lui che di quadri
e opere d’arte ne
aveva viste fin poche.
Poi
tutto rasserenatosi e alzato lo sguardo serio su
Scarlett, essa ebbe un fremito nel constatare un'altra
verità – era la prima
volta che riusciva a distinguerne i lineamenti ad una simile vicinanza.
«E’
molto bello, Scarlett. Ma perché mi hai disegnato
con gli occhi blu?» chiese il malcapitato Albert, del tutto
incosciente di cosa
quelle sue parole avrebbero scatenato nella mente già
afflitta della rossa.
Scarlett
ebbe tutta l’idea di rispondergli male e di scaraventargli
la tela in faccia, essendo del tutto convinta che quella domanda fosse
soltanto
l’ennesima provocazione da parte del ragazzo. Ma le parole
sventurate non
uscirono dalla sua bocca, al contrario si morse il labbro inferiore
come per
sigillare ancor meglio le sue labbra in attesa di altre spiegazioni.
«Io
ce li ho neri»
sentenziò Albert il quale non riusciva a comprendere come il
margine del suo
errore fosse così grande da figurarsi due specchi di mare
laddove regnava
soltanto il nero più assoluto su carta bianca.
A
Scarlett parve in quel momento che il cavalletto
sulla quale era stata appoggiata la sua mano, si fosse tramutato in
burro fuso
tanto temette di farlo cedere sotto il lieve peso delle sue braccia
ossute.
Albert
sapeva fin dalla prima volta in cui si erano
incrociati per i corridoi opachi di quella struttura che la nuova
arrivata,
quella a cui era stata assegnata la camera 1022,
a dispetto dei dottori e degli inservienti la più remota,
fosse affetta da una
qualche malattia agli occhi. D’altro canto Albert non avrebbe
saputo niente di
più, data la sua costante sorveglianza e il suo scarso
interesse a causa della
sua schizofrenia e alla sua cura a
base di antipsicotici.
«Che
cos’è che non va nei tuoi occhi,
Scarlett?» provò
a chiedere nuovamente, sentendogli l’ansia crescere dentro e
soffocarlo come un
macigno fatto di piombo. Ma ad un
suo passo in direzione di Scarlett seguì un repentino
allontanamento da parte
di quest’ultima la quale si coprì le orecchie con
ostinazione fanciullesca, non
volendo continuare quella conversazione
a dir poco traumatica.
A
dire il vero, pensava di aver perso la sensibilità
alla lingua proprio come le prime settimane quando era arrivata a
Kriptonale.
La
diagnosi dei medici le ustionava ancora le palpebre
e si contrapponeva alla grande varietà di sfumature di
grigio che distingueva
tra gli spigoli dei mobili, tra le assi del pavimento, nel lento
ondeggiare
delle foglie in giardino.
«Non
puoi far niente per i miei occhi, sono così e
basta»
Scarlett
non vedeva più i colori, e i medici non se ne
spiegavano il motivo.
No light, no light in your bright blue
eyes
I never knew daylight could be so violent
A revelation in the light of day
You
can’t choose what stays and what fades away
«Sono
così come?» la apostrofò e la mano di
Albert
tremò impercettibilmente mentre le unghie affondavano nella
tela, resa ruvida
dal colore,anche a costo di sgualcirla.
Scarlett
sentì l’inferno crescerle dentro, e il sale
degli occhi domava l’incendio, placava le fiamme e
disinfettava lo stomaco
dalle scorie di rabbia e vergogna.
«Sono
daltonica»
La
bocca le si riempì del sapore acre del sangue
proveniente dal suo interno guancia, martoriato dai denti acuminati che
si
strusciavano fra loro per la stizza repressa.
Non
che non vedesse i colori, Scarlett li confondeva tra
di loro, come se appartenessero ad un’unica
tonalità di luce, tutto ciò che
riusciva a vedere erano le immense gradazioni di blu cobalto che
avrebbe tanto
voluto fossero racchiusi negli occhi di Albert.
Invece
non aveva occhi, lui. Le sue iridi erano privi
di luce, puro terrore, fili di
ferro, pece bollente e a Scarlett parevano tanto pesanti
quasi quanto il suo cuore, in quel momento.
Albert
si aprì in un ghigno e la rabbia lasciò posto
ad un’ilarità malsana che gli dilatò le
pupille e gli soffocò le grida. Era lui
contro la sua malattia.
«Tu
sei solo pazza» sputò fuori quasi come per
giustificarsi e le risa gli morirono in gola, serrato tra la sua innata
pazzia
e l’egoismo di coinvolgere lei,
così
simile a lui, in quel circolo
vizioso.
E
fu così che Scarlett non urlò quando le si
precipitò
addosso,urtando il cavalletto e sferzando il suo viso nel ritratto. Non
si curò
dei ventiquattro tubetti di colori a tempera che rimbalzarono sul
pavimento
come se fossero biglie, né del bicchiere contenente i
pennelli e l’acqua sporca
che le bagnò le calze a righe.
Albert
le
trapanava il cuore e le succhiava via l’anima nel buio
più profondo della
stanza, la stringeva a se in una morsa soffocante e la baciava, la
baciava di
baci che sapevano del sangue di Scarlett, di ferro e ruggine. Le
sue braccia erano catene
fredde e dure da dove Scarlett avrebbe voluto non esserne mai liberata.
My love has
concrete feet
My love’s an iron
ball
«Scarlett?»
C'era
qualcos'altro che
Albert aveva voglia di dirle quel pomeriggio di fine aprile, qualcosa
di
vecchio, qualcosa di importante, qualcosa di irrimediabilmente
importante.
Eppure Scarlett non riusciva a ricordarsene e più grattava
le pareti della sua
mente più catrame oleoso la affogava e appiattiva ogni sua
singola sensazione.
Sapeva di lui fin sotto le unghie, ma questo gli altri non
l’avrebbero dovuto
sapere.
«Cosa?»
mormorò la
rossa carezzando con la punta delle dita il colletto di cotone
sintetico di cui
era fatta la maglia di Albert - una maglia nera,
di quello era pur certa – mentre il naso
all’insù sfregava paziente il collo
cicatrizzato di lui, attendendo che il sapore delle sue labbra
risciacquasse la
sua bocca dal sangue e dai residui di medicinali che ancora le
gonfiavano lo
stomaco.
Ma
Scarlett non seppe
mai cosa lui le volesse dire.
La
porta si apriva
sempre prima che le lunghe ciglia della rossa potessero asciugarsi
delle ultime
lacrime. L’ago della siringa trovava facilmente la sua vena
consorte ed entrata
dolcemente in lei si faceva trapassare dal siero maleodorante che in
pochi
minuti sarebbe arrivato ai neuroni dei due infermi.
In
quei momenti le loro
mani sapevano di burro, scivolavano via l’uno dalle braccia
dell’altra.
Il
loro era un amore
malsano, un aborto della natura che giammai si sarebbe dovuto
manifestare.
Avrebbero di gran lunga preferito continuare ad ignorarsi invece di
ferirsi
entrambi con pillole
di ricordi
dimenticati per poi ricominciare tutto da capo, come se il giorno prima
non
fosse mai arrivato.
Albert
udiva
perfettamente il sibilo di Scarlett e come avrebbe inspirato
profondamente non
appena l’ago le avrebbe perforato la sottile pelle; e
Scarlett catturava i
riflessi di luce che emanavano gli occhi di Albert, come quella sottile
scintilla di coscienza scomparisse e si facesse sempre più
lieve man mano che
la sua mente perdesse ogni controllo sul suo corpo, fino a scomparire
del
tutto.
Scarlett
e Albert si
ammalavano ogni giorno, alla stessa ora della stessa malattia.
Si
erano ammalati ieri
e loro ancora non lo sapevano.
Non
esisteva alcun
rimedio per la loro memoria ma non sarebbero bastati la
quantità spropositata
di medicine, i litri di calmanti, i quintali di antipsicotici per
tenerli l’uno
lontano dalle braccia dell’altro.
And
I’d do anything to make you stay
No light, no light
No light
Pazienza.
Scarlett
avrebbe dovuto
attendere trentasei ore e due minuti per ricordarsi di Albert.
L’attesa
sarebbe stata
spossante, forse un poco ridicola e perfino irritante, mentre i medici
del
Kriptonale, barricati dietro le loro provette e i loro intrugli,
avrebbero
trovato l’ennesimo farmaco per sconfiggere la loro bizzarra
sindrome.
Tell me what you want me to say
Ma
a questo
mondo esistono malattie ben più gravi da cui è
impossibile esserne curati.
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Ebbene
carissimi, visto che non posso produrre
nulla di nuovo causa maturità, propongo alcune
sciocchezzuole che mi ritrovo
perse nei meandri del mio pc. Tecnicamente questa one-shot l'ho scritta
la
scorsa estate e si è classificata prima al concorso
"Florence and the
Machine contest" indetto dal FanFiction
Italia. Credo di aver dato
veramente l'anima per
scrivere
questa storia, storia che è un po' mia visto che ho sempre
avuto un certo
interesse verso le malattie mentali e quindi manicomi&Co. E poi
la mia
Scarlett era un personaggio che già da circa due anni mi
frullava in testa
ovviamente insieme ad Albert.La canzone che ho
utilizzato è No
Ligth che
è stato amore a primo ascolto e poi due
frasi di Heavy in your arms che
la trovo
perfetta per il personaggio di Albert. La storia sinteticamente
è la seguente:
Scarlett e Albert sono due dei tanti pazienti all'interno del Kripton
Hospitale,
ospedale psichiatrico predisposto per la cura e l'assistenza dei malati
di
mente ma anche per persone con problemi o deficienze mentali o fisiche
(quindi
anche soggetti ciechi, muti ecc) Scarlett ha una forma aggravata di daltonismo che
non le permette
di vedere i colori o semplicemente di distinguerli tranne le
tonalità
indaco-blu-violette (di cui ovviamente Scarlett è
ossessionata e li vede
ovunque); mentre Albert ha una forma di schizofrenia e
quindi ecco
svelato i suoi repentini sbalzi d'umore e il suo disinteresse totale
alla vita,
essendo privo di emozioni o avendole tutte contemporaneamente. Mi
sembra di
aver letto da qualche parte che sono inammissibili le storie d'amore
fra due
soggetti toccati di mente ma non ne sono sicura di questo, quindi
prendete
l'intervento dei medici come una sorta di precauzione per far si che
Albert non
faccia del male a Scarlett. E quindi ecco che prontamente i dottori
intervengono che intrugli capaci di bloccare la mente delle persone e
quindi
azzerare la memoria per un certo intervallo di tempo, in modo tale che
i due
per trentasei ore non si ricordino l'uno dell'altro. L'ultima frase
è quindi
una sorta di denuncia al lavoro di questi medici-bastardi che
invece di
trovare un rimedio alle loro vere malattie ovviamente incurabili
perdono tempo
ad allontanare due persone che non potranno mai essere divise. La
canzone l'ho
ascoltata mentre rileggevo la storia e devo dire che fa un certo
effetto, quasi
di angoscia che poi è il vero succo del testo della canzone:
l'assenza di luce
negli occhi di Scarlett (per lo pseudo-daltonismo), negli occhi di
Albert
(neri), negli occhi di entrambi quando svengono per la medicina, e
nelle loro
menti come se vi fosse stato un blackout.
Spero
che vi sia piaciuta-- in estate tornerò
finalmente a scrivere
un
bacio a tutti,
Sil.
*Nda: scusate ma nella
cover di partenza c'è
un errore-- invece di his doveva essere her. Sorry ;)
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