Chirugia per filosofi II
È guerra. Questa battaglia avanza spedita come
una lama che
incide la carne e tra i due schieramenti comincia a imporsi un
vincitore. Io, perseguitore del sacro diritto di lavorare, sto perdendo
contro le file di medici incapaci e infermiere senza cuore che mi
costringono al letto. Ma non gliela darò per vinta: le mie
armi
sono il brontolio costante e il rifiuto e l'opposizione a ogni
consiglio che mi danno, come "sta' a letto, dottore", "dottore, per
favore, si prenda cura di sé", "non si affatichi, signore"
-e
sì, ogni tanto trovo qualche idiota che si dimentica che
lavoro
in questo ospedale da prima che nascesse!
I loro mezzi sono invece la ragione, la pazienza e la loro instancabile
fiducia nel credermi pazzo, con i quali io, a volte, faccio fatica a
misurarmi.
Come se non avessero mai visto un infarto! Ogni tanto capita, quando si
ha una certa età, si sa. Beh, più o meno.
Lo svenimento in sala operatoria mi aveva trasportato in un letto
d'ospedale nel quale non temevo di rimanerci più di un
giorno.
Chiesi carta e penna appena potei, e me ne rimasi la mattina tranquillo
ad aspettare che il tempo passasse scribacchiando qualche verso di
qualche mia poesia di gioventù.
"Se tu sei un cerchio
io sono un tuo puntino,
se ci separi non sei più un cerchio,
e io valgo ancora meno."
Si arrivò all'ora di pranzo. Un'infermiera -di cui appresi
presto il nome, Linda, che richiama per assonanza una certa famosa
cioccolata e da cui la fanciulla doveva aver preso anche la dolcezza-
mi portò da mangiare una minestrina calda e mi
informò
che l'uomo della notte prima si era salvato. Notiziona, considerato
l'imprevisto del mio mancamento che non credevo proprio che quei
quattro incapaci sarebbero riusciti a gestire. Dopo pranzo mi godei uno
splendido sole dalla finestra della mia stanza lanciando ogni tanto
qualche occhiata al signore con cui dividevo la camera,
molto somigliante ad un'ameba a cui erano attaccati dei bei
tubicini trasparenti che, devo dire, gli donavano proprio.
Più
tardi ricordai che si trattava di un mio vecchio paziente a cui avevo
trapiantato così tanti organi da non sapere più
come
chiamarlo.
Continuai a scrivere.
"Se tu sei un granello di sabbia
io sono un bambino
e ti
raccoglierò per farti giocare."
Da giovane,
innocente e
insignificante come un puntino, non cercai la perfezione, ma la trovai
lo stesso. Portava nome di donna e le piacevano le gonne lunghe come
quelle delle principesse. I suoi occhi erano neri come quelli della
monaca di Monza, e i suoi capelli ricordavano una nocciola da portare a
tavola, che ti rendeva felice. Capii presto che ogni singola parte di
me le apparteneva, che lei era il mio cerchio, perfetto, ed io uno dei
suoi puntini. La desiderai come si può desiderare ogni
ragazza,
creandomi un buco nel cuore ogni volta che lei non era con me e
riempendolo quando lei mi sorrideva. E così, ben presto
scambiammo dimensioni: lei si ridusse a un granello di sabbia,
così piccolo da poter essere tenuto in mano da chiunque, ma
così compatto da essere invincibile; io invece divenni il
suo
bambino, morbidamente la raccoglievo e la facevo divertire, con l'unico
scopo di farla felice...
Questo ricordai, mentre il sole irradiava i paesaggi. Le memorie
portano così tanta dolcezza, pensai. Interruppi questi bei
momenti quando l'ameba accanto a me ricevette delle visite. La figlia,
ormai cinquantenne, lo guardava e forzava il suo sorriso, mentre la
nipote, una giovane quindicenne, non ci riusciva davanti a quel nonno
così malridotto. Ringraziai di non avere dei nipoti e delle
figlie come queste, che mi compiangessero.
Dopo che se ne andarono era già pomeriggio inoltrato e
nuovamente rivolsi lo sguardo fuori dalla finestra. Il paesaggio era
costituito solo dal cielo, data la mia supina posizione nel letto.
C'era un bel sole anche adesso, ma grossi nuvoloni si avvicinavano da
ovest, come minacciosi tiranni parevano legiferare che la luce sarebbe
stata oscurata presto togliendomi un lieto trastullo in quella
giornata di noia. Passò casualmente per il cielo una
rondine.
Niente mi avrebbe potuto fare più felice, perché
nient'altro mi avrebbe fatto ricordare i versi successivi di quella
poesia e mi immersi di nuovo nei tempi che furono.
"Se tu sei una rondine
io sono il tuo nido,
sempre un posto sicuro,
pronto a proteggerti."
Diventammo grandi amici, nulla più, io e lei, per
lungo tempo fino a che, un giorno, accadde l'insperato.
Lei aveva un ragazzo, lo aveva già. Tutti lo
chiamavano
Dany, era alto, più alto di me, con gli occhi chiarissimi,
più chiari dei miei, e molto bello, più bello di
quanto
io sarei mai stato. Ma era uno stupido, questo è certo.
Perlomeno, un ragazzo intelligente non tradirebbe mai la ragazza
più speciale di questo mondo. Così, la sera in
cui lei lo
scoprì, per caso la trovai e la scoprii muta. Ma riuscii a
farla
parlare e lei mi raccontò ogni cosa ed io la abbracciai e
lei
pianse e io la abbracciai più forte e poi, ci baciammo. Io
l'amai e non ebbi timore di dirglielo: ero il suo scudo, il suo nuovo
nido che avrebbe protetto lei, libera rondine.
Durante la nostra storia mi tradì due volte. Io non potevo
fare
altro che perdonarla... e stare con lei ancora. E volevo sapere tutto
di lei, perché potessi fermarla quando avrei dovuto.
"Se tu sei un mare
io sono un sasso e affondo,
profondissima cerco la parte più nascosta di te"
Ma
quello che riuscii a sapere di lei non era mai abbastanza. Era una
ragazza... imprevedibile. Mi tradì una terza. Ma anche se
lei mi
feriva di continuo, non poteva uccidermi: ero forte e il mio amore lo
era ancora di più. Se lei era irascibile io ero paziente, se
lei
confusa io sicuro di me stesso, se lei si odiava io l'amavo.
"Se tu sei nebbia
io sono un cieco,
che tanto non mi crei
problemi."
Talvolta si
tagliò anche. E
io le ero accanto e facevo del mio meglio ma... Io non bastavo. Le
servivano l'alcol, la droga. Ne venne fuori, dopo grandi sforzi...
Nel mio ospedale cominciai a ricordare le cose brutte con il passare
del tempo e venne
sera, e poi la notte. E poi la pioggia. E volevo dimenticare. Ma la
notte era appena cominciata e l'insonnia non mi avrebbe abbandonato.
Scesi dal letto perché volevo vedere la pioggia
più da
vicino. Il contatto del piede nudo col pavimento fu traumatico: il
freddo risalì lungo i femori fino alle ginocchia. Accesi la
lampada vicino a me, non mi preoccupai nemmeno del mio compagno. Con
passo lento e insicuro mi diressi nel mezzo dell'oscurità
alla
grande finestra di vetro. Pioveva davvero forte.
Lei riuscì a uscire dal circolo vizioso in cui si era
immessa
solo dopo molti anni, ma nel suo sangue, nel suo cervello e in tutti i
suoi organi interni rimase la traccia di tutto quello che aveva
commesso. Morì di alzheimer a cinquantadue anni di
età,
undici anni e un giorno fa. Il giorno prima era l'anniversario della
sua morte.
Toccai con la mano la finestra. Era ghiacciata. i brividi di freddo
risalirono la mano, l'ulna e la radio e si fermarono alla spalla.
Aprii la finestra. Il rumore scrosciante della pioggia invadeva le mie
orecchie e il freddo riempì la stanza. Allungai la mano e
lasciai che l'acqua la ricoprisse ancora e ancora.
Ricordai l'ultimo strofa di quella mia poesia.
"Se tu sei pioggia
io sono un ombrello,
ci sono solo se ci sei anche tu."
Piansi
lacrime amare. Quell'ultimo verso è falso, non vale niente.
Io
sono qui, vivo, mentre lei non c'è più.
Il freddo era in ogni parte di me e all'improvviso sentii un forte e
improvviso dolore al petto. Poi non ricordo più nulla e
quando mi svegliai ero qui in questa stanza, convinto che se non avessi
lavorato al più presto la avrei ricordata ancora.
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