Cap. 1 -
L’INCUBO -
Ombre.
Scuro.
La ragazza
vedeva una luce in lontananza…ma era troppo distante. Faceva
freddo e intorno a lei molti alberi oscillavano al vento. Doveva
trovarsi in un bosco o in una di quelle riserve dove la vegetazione era
l’unica fonte di vita. Con la testa, spaventata, guardava le
sagome che si muovevano fra gli alberi. La luce si avvicinava. Ancora.
Sempre più vicina. Come la luce si avvicinava a lei
così anche le ombre sembravano riunirsi a cerchio e
raggiungerla.
Ombre e luce.
Ormai erano
un tutt’uno e la ragazza, non sapendo cosa fare,
andò incontro alla luce, che rappresentava la salvezza da
quelle tenebre, e non potè non intravedere, in quel
bagliore, dei capelli biondi e due occhi azzurri…poi, tutto
si fece confuso e solo la luce, ora, la invadeva.
Rebecca si
svegliò di soprassalto, inarcando la schiena si sedette sul
suo letto, la fronte sudata e il fiato corto. I capelli color
cioccolato le ricadevano leggermente in avanti e il suo ciuffo,
spostato verso destra, le copriva gran parte della visuale, sopra
quegli occhi scuri che erano sbarrati per l’ansia e il
terrore. Con un movimento scattoso diede un’occhiata alla
sveglia sopra il suo comodino: le sei di mattina. Mezzora e si sarebbe
alzata per andare a scuola.
Con calma,
Rebecca, si ridistese sul letto e tirò il copriletto fin
sotto il collo, come per proteggersi e sentire più caldo,
dopotutto era ottobre e il gelo si faceva sempre più vicino.
Sentì dei passi al piano di sotto, probabilmente era sua
mamma che si era alzata e stava preparando la colazione. Rebecca
alzò gli occhi al cielo e con uno sbuffo si alzò,
si mise le ciabatte fucsia che erano ai bordi del letto e con un passo
assonnato uscì dalla sua camera. Le luci in corridoio erano
tutte spente, solo un bagliore la raggiungeva, e proveniva dalla
cucina. Con fatica scese le scale in legno, percorse la sala buia ed
entrò in cucina, dove sua madre, Marta, trafficava con due
panini appena sfornati.
“Ciao, mamma”
La donna, sentendo la voce melodiosa di sua figlia si girò
sorridente verso di lei e Rebecca si ritrovò a pensare che
sua madre, nonostante i suoi quarant’anni, rimaneva comunque
una donna stupenda: con quei capelli biondo scuro che ricadevano in
boccoli e con quegli occhi verde-acqua che tanto sperava di aver
ereditato.
“Ciao, Bec. Come mai già in piedi? Non
è che ti senti male? Di solito ti vengo a chiamare
io” disse Marta, allarmata con il suo sorriso splendente
ancora stampato in viso. Rebecca alzò le spalle.
“Ho avuto un incubo e non sono più riuscita a
dormire. Lo sai, vero, che quando sogni è come se stessi
realmente vivendo quel momento e quel momento è stato
particolarmente angoscioso” disse, percorrendo la cucina e
andandosi a sedere su uno dei quattro sgabelli che circondavano il
bancone. Il caffelatte era pronto e Marta le porse un toast, sedendosi
vicina a lei.
“Immagino. Oggi a scuola hai qualche compito o
interrogazione?” chiese sua madre, ricevendo
un’occhiataccia dalla figlia che ora la guardava esterrefatta.
“Ma mamma! Come hai potuto dimenticartene?! Oggi vado in
gita, te l’avevo detto la settimana scorsa, non te lo
ricordi?”
“Ah! Me n’ero dimenticata. Scusa, Bec”
“Di niente”
“A questo punto sarebbe meglio che ti preparassi i panini per
il pranzo al sacco”
“Non importa, mamma. Vai pure a lavorare, chiamerò
papà”
“Ok, e dì anche al papà che oggi,
probabilmente, tornerò a casa tardi”
“Come mai?”
“All’ospedale hanno bisogno di me e non posso
negare il mio aiuto”
“Che bravo chirurgo…” disse Rebecca,
ironica con degli occhi da finta ammirata.
“Sempre gentile tu, eh?”
Marta si alzò aggraziata dal bancone e baciò la
figlia sulla fronte. Prese il cappotto appoggiato ad una sedia del
grande tavolo da pranzo e con disinvoltura lo indossò.
“Io vado, tesoro. Chiama papà e buona
gita”
“Ciao, mamma”
La donna le rivolse un ultimo sorriso prima di aprire la porta di casa
e di uscire percorrendo il lungo vialetto di villa Burton. Rebecca
rimase da sola a rigirarsi tra le mani il toast, pensierosa e
irrequieta, aveva addosso ancora quella sensazione di disagio provata
nel sogno. Per quanto terrore potessero aver suscitato le ombre e quel
senso di vuoto, di oscuro, di freddo, non riusciva a togliersi dalla
testa quegli azzurri, così diversi dai suoi, e per un
momento ebbe paura.
***
“Papà!
Papà, alzati!” Rebecca continuava a scrollare la
figura di suo padre, che era comodamente arrotolato su un fianco. Dopo
parecchi scossoni l’uomo aprì gli occhi e con un
grande sbadiglio si girò verso la fonte della sua
scocciatura.
“Che c’è, Bec? Hai visto un
fantasma?”
“Papà, devi farmi i panini per la gita. La mamma
si è dimenticata”
“Dov’è ora?”
“A lavoro. Ha detto di dirti che tornerà
tardi…dai alzati!”
“Arrivo! Arrivo!”
Jonathan si alzò contro voglia, sovrastando in altezza la
figlia. Jonathan era un uomo di quarantacinque anni, con un fisico
perfetto (merito delle numerose corse mattutine), due occhi scuri e i
capelli castani, con qualche presenza di ciocche bianche. Aveva un
lavoro invidiabile, infatti era lo scrittore più ambito di
tutta America, e faceva vivere meglio che poteva la sua bella famiglia.
“Coraggio, andiamo a prepararti lo zaino”
Scesero le scale in assoluto silenzio e solo quando furono in cucina,
Rebecca, non si trattenne e parlò a suo padre in modo
arrogante e provocatorio.
“Ma dimmi te! Mi tocca anche andare in gita in
montagna…odio la montagna. E tutto perché siamo
andati a vivere in uno stupido paesino di montagna. Spero solo che se
cadrò in un pendio e mi romperò la gamba tu abbia
i rimorsi, papà”
“Tesoro, lo so quanto adoravi vivere a Phoenix
però non ci possiamo fare niente. Tua madre è
stata entusiasta e lo eri anche tu di venire a vivere qua” la
accusò suo padre, con un grugnito.
“Infatti. Lo ero. Ora non più”
“Perché, scusa?”
“Perché? Uhm…lasciami
pensare…ah si! Allora, a Phoenix c’era il sole e
il mare, avevamo una bella casa e abbiamo
lasciato anche tutti parenti, avevo delle amiche e mi ero affezionata.
E qui? Solo montagne! È sempre nuvolo, il cielo è
coperto, la scuola è vecchia e decadente e, soprattutto,
sono sempre sola!” Rebecca si fermò per respirare,
guardava suo padre in cagnesco e mai, mai, per quanto bene gli volesse,
poteva perdonarlo per averle trascinate di punto in bianco in un posto
dimenticato da Dio, con la scusa di dover scrivere un libro
ambientalistico.
“Odio questo posto” ripetè,
più a sé stessa che a Jonathan che la guardava
apprensivo e con un moto di sofferenza.
“Mi dispiace. Appena finirò il libro ritorneremo a
casa. Te lo prometto”
“Ma non mi importa di quando finirai il libro! È
ora che io sto male, lo sai quanto detesto le escursioni e sono
obbligata anche a farci una gita di tre giorni!”
“Bec, hai iniziato scuola solo da un mese, è
normale che ti senti a disagio non conoscendo nessuno. Ma tu sei forte,
e so che ce la farai. Tieni duro. E poi, cosa vuoi che succeda su
là, tra i monti?”
“Uhm,
magari un orso mi porta via”
“Ti verrò a riprendere”
“E se questo orso è armato?”
“Sono antiproiettile”
“Questo è quello che credi
tu…”
“Dai, è quasi ora e ho finito di farti i
panini” disse suo padre, mostrando fiero quattro panini
incartati.
“Ne bastavano due, papà”
“Ah si?”
“Si, sono uno per la merenda dell’andata e uno per
il ritorno. Poi, quando sono nell’
“accampamento” avrò da
mangiare”
“Meglio essere previdenti, sai, se l’orso ti
rapisce”
“Giusta osservazione”
“Suvvia, brunetta. Accendo la macchina, ti aspetto fuori.
Muoviti a prepararti”
“Corro a cambiarmi!”
Rebecca prese con fretta i quattro panini e li ficcò alla
bell’e meglio nello zaino della Napapijri marrone assieme al
pigiama, occorrente per lavarsi, un paio di ciabatte, di calze, due
cambi pesanti e tutto il kit medico datogli da Marta. Con uno sbuffo
chiuse la zip e se lo caricò in spalla, mentre con la mano
libera afferrava il sacco a pelo. Uscì dal garage e
trovò ad aspettarla suo padre, con una sigaretta in bocca, e
un sorriso di incoraggiamento. Corse fino alla macchina ed
entrò imprecando.
“Spero proprio di essere assicurata per gli
infortuni”
***
Alle otto di
mattina la piccola Aguila si presentava ancora più
terrificante, il sole tardava a sorgere e il vento continuava,
insistente, a sbattere contro gli alberi, con ululati e tonfi. Se non
era per il semplice fatto che era così per la posizione
geografica, Rebecca, quel posto, l’avrebbe paragonato
all’inferno, non era degno di appartenere alla bella e
soleggiata Arizona. No, proprio no.
La loro
bella villa (e unica villa) distava dalla scuola dieci minuti di
macchina e in quei minuti Rebecca implorava ogni giorno il Signore
affinché sprigionasse un cataclisma sulla scuola, almeno non
sarebbe stata costretta ad andarci e avrebbe fatto in tempo a ritornare
alla “High School” di Phoenix. Solo allora, sarebbe
stata salva e finalmente a casa. Ma come ogni giorno, dalla macchina,
girata la curva, le compariva la bella visuale della sua nuova scuola.
Un sorriso schifato le riempiva il viso a quella vista. Suo padre, come
ogni volta, parcheggiava la macchina nello stesso posto e subito
spiccava come un faro a confronto delle altre macchine. Di sicuro, ad
Aguila, nessuno aveva una Porsche. Smontò impacciata
dall’auto, beccandosi molti sguardi ammirati.
“Non guardano me, guardano te e la macchina” disse
Rebecca a suo padre prima di chiudere la portiera, dato che Jonathan
era rimasto perplesso dalla moltitudine di facce che erano rivolte a
fissarli.
“E io che credevo che fossero amici…”
“Te l’ho detto, papà” Rebecca,
con uno spintone chiuse la portiera e si avvicinò al
finestrino abbassato. “Io non ho amici”
***
Ecco, se
c’era una cosa, una sola cosa che Rebecca non sopportava in
quella scuola era l’appello. Nella sua scuola precedente gli
alunni non venivano mai chiamati a inizio lezione, semmai chiedevano i
nomi degli assenti e scrivevano quelli. Ma ad Aguila tutto era rimasto
ai tempi della seconda guerra mondiale, e l’appello portava
via ben sette minuti, minuti che intanto passava a ciondolarsi sul
posto. Il ritrovo era stata fissato davanti la scuola, nel parchetto, e
circa una quarantina di studenti stavano in piedi ad aspettare che
venisse chiamato il loro nome, con gli zaini in spalla e le bocche
tirate in continui sbadigli. Di certo il tempo non aiutava a sentirsi
più svegli, ti metteva ancora più sonno.
“Rebecca Burton” disse a voce alta la professoressa
di biologia, Millie Lorenz, donna deliziosa se non avesse avuto una
voce talmente acuta da spaccare i timpani ogni qual volta dava fiato ai
propri pensieri.
“Ci sono”
“Prego, salga in pulman e prenda posto”
Rebecca non se lo fece ripetere, afferrò saldamente il suo
sacco a pelo e salì sul bus già occupato dai
pochi studenti che per ordine alfabetico la precedevano e che erano
perciò saliti per primi.
Due ragazze
avevano preso i posti nella penultima fila a destra e un ragazzo si era
invece accaparrato i posti infondo. Senza neanche pensarci Rebecca
prese il primo posto a portata di mano: terza fila a sinistra.
***
Il viaggio
in pulman era previsto con due ore di andata, la strada era
continuamente susseguita da curve e Rebecca si ritenne fortunata di
aver scelto uno dei posti davanti altrimenti la colazione della mattina
si sarebbe fatta sentire come meglio poteva. L’unica rogna di
quel viaggio in corriera era la presenza, alquanto indesiderata, della
sua vicina di posto, Judi Marconi: ragazza svogliata, di origini
italiane, dalla parlantina facile e con due occhiali rotondi che le
facevano risultare ancor più ovale il suo viso paffuto. Judi
non lo faceva apposta, ma da quando erano partiti fino al momento
dell’arrivo non aveva smesso un attimo di parlare, parlava di
lei, della sua famiglia, del suo cane, del suo gatto, del suo ragazzo
(ma come faceva ad avere il ragazzo?) e di altre cose che a un certo
punto Rebecca si era rifiutata psicologicamente di ascoltare, facendo
cenni con la testa come a mostrarsi interessata di quei discorsi.
Finalmente il motore si fermò. Rebecca, disorientata,
spostò la testa verso il finestrino, il paesaggio era come
se l’aspettava: si trovavano in uno spiazzo fangoso
circondato da alberi e, dritto davanti a lei, c’era il
sentiero che gli avrebbe portati al campo. La ragazza, decisasi
finalmente a smontare, si trovava ancora a percorrere gli scalini
dell’autobus quando non potè non notare,
nell’altro pulman dietro al suo, un ragazzo che, in
contemporanea a lei, stava scendendo con un’aria alquanto
contrariata dal suo bus. Il fiato le morì in gola.
***
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