Di amore e odio.

di wordsaredeadlythings
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Di amore e odio.




“Ho bisogno di una pausa”.
Quante cazzo di volte aveva sentito quella frase scivolare fuori dalle sue labbra? Ormai aveva perso il conto degli addii che si erano dati, delle porte sbattute in faccia senza ritegno, delle lacrime trattenute, delle sigarette bruciate in una notte spenta che sapeva di sesso furibondo. Era così nauseato, schifato, deluso e distrutto dagli addii. Era stanco marcio degli addii, stanco di amarlo in questo modo. Di amarlo con odio. Non sapeva come cazzo fosse possibile, ma tutto quell’amore era sfociato in un odio così grande, e i due si erano mescolati e uniti in una danza infernale, ed eccoli qua, loro due, a lottare con le pause, con gli addii, con le sigarette che bruciavano, con le notti vuote, e con quell’amore e odio che somigliava così tanto a quello di Catullo per Lesbia. Ma non gliene fotteva più un cazzo di quella merda da liceali. E vaffanculo.
Ingranò la marcia, mentre premeva il piede sull’acceleratore. Scappare via era sempre stata la soluzione perfetta per ogni genere di suo problema: la utilizzava fin da quando era bambino, solo che ora non era costretto a tornare in quella casa vuota, adesso poteva scappare e basta. Non tornare più.
Uno sbuffo furioso scivolò fuori dalle sue labbra; era ancora così incazzato, per quella frase, quell’addio, per il sesso che c’era stato prima, per l’amore che era bruciato e aveva lasciato spazio all’odio. Era semplicemente incazzato e voleva correre via, e finire quella sua cazzo di sigaretta. Ne aveva fumate una dopo l’altra da quando era saltato nella sua auto, diretto chissà dove. Ormai aveva perso anche il conto delle sigarette che gli restavano, ma non gliene fregava un cazzo. Non gli interessava più un cazzo di niente, e forse era questo il grande problema della sua vita. Sua madre, quando era bambino, pensava che avesse un qualche grave problema, tipo un deficit dell’attenzione, ma non era quello: a lui non gliene poteva fottere di meno. Non voleva quella vita. Non era portato per quella vita. Anzi, forse non era portato per la vita in generale, ma sicuramente non era portato nemmeno per la morte. Era una creatura in bilico, lui.
Continuava a guidare da ore, la benzina era quasi finita e lo stereo vomitava una vecchia canzone rock anni ottanta, mentre l’auto masticava chilometri, e le ruote correvano rapide sull’asfalto umido. C’era il mare, poco distante: Valerio riusciva quasi a sentire l’odore, il sapore, la salsedine che si bloccava tra i suoi capelli, nelle sue narici, sui suoi vestiti e sulla pelle. Il mare. Era autunno inoltrato ormai: novembre stava per arrivare, e lui stava andando al mare. Lorenzo l’avrebbe definita l’idea del secolo e sarebbe semplicemente saltato nell’auto, se solo non avesse detto che voleva una pausa, se solo non lo odiasse tanto quanto lo amava. Se solo gliene fregasse qualcosa.
Era così confuso, Valerio. La benzina stava bruciando insieme alla sua vita, le sue confusioni si accavallavano senza sosta nel suo cervello stanco, e sì, finalmente anche lui aveva bisogno di una pausa, ma non da Lorenzo, da se stesso. Aveva uno schifosissimo e vomitevole bisogno di fermarsi, di ricaricare le batterie, neanche fosse un cazzo di schifoso cane giocattolo, uno di quegli aggeggi orribili che si vendevano nei supermercati. Doveva ricaricare le sue cazzo di batterie, e magari cambiarle. Fermarsi per un po’.
Era confuso anche sulla sua meta, ma forse perché non ne aveva mai avuta una in tutta la sua cazzo di vita. Aveva sempre girovagato in tondo, così preso dai suoi sogni di un futuro migliore, dallo scrivere canzoni e suonarle con il suo basso, dal farsi crescere i capelli per poi tagliarli, da quelle cose che prima erano importanti e ora invece sembravano solo cazzate. Non aveva mai avuto una meta, Valerio. Aveva ventidue anni e nessuna ambizione, forse perché era nato per rimanere un adolescente confuso, destinato a restare in panchina per tutta la sua vita, senza decisioni da prendere, senza mete. La panchina era comoda, dopotutto. Poteva rimanere immobile, statico, fermo nei suoi sogni di cristallo che piano piano si erano infranti, creando tante schegge che avevano infilzato e dissanguato l’amore che c’era stato tra lui e Lorenzo. E c’era ancora. Da qualche parte, tra le macerie, l’amore c’era ancora.
Aveva bisogno anche di una cazzo di meta, perché era stanco di starsene in quella panchina di merda, immerso nei suoi silenzi di piombo e in quel fumo grigiastro di sigarette fumate dopo l’amplesso, con piacere o con rabbia o con odio. C’era un cazzo di buco, lì, al centro del petto, voragine incolmabile che si era aperta prima di tutto questo, prima di Lorenzo, prima dell’amore e dell’odio, addirittura ancora prima del suo primo tiro di sigaretta, quando i suoi genitori miagolavano orgasmi per le persone sbagliate, consumavano amplessi che non erano giusti. Era sempre stato così tutto fottutamente sbagliato fin dall’inizio, e lui non aveva uno scopo. Non era portato per tutto questo. La stabilità, la felicità, la mancanza di confusione, erano tre schifose utopie di cui Valerio si era sempre fottuto alla grande, perché lui era bravo solo a fottersene.
La benzina era praticamente finita quando Valerio scorse le pareti scrostate in un casolare in lontananza. Poco più dietro c’era il mare: riusciva a vederlo benissimo, poco distante da lì. Quel casolare era sul mare. Quel casolare dalle pareti di un blu scuro, quasi troppo cupo per essere blu. Un blu incerto, confuso. L’intonaco era scrostato in più punti: ciò creava delle pozze di bianco cristallino di forme più o meno grandi. In mezzo a quel blu, sembravano quasi nuvole.
Decise che quella era la sua nuova meta. Quel luogo con le nuvole nelle pareti, con i buchi nella pelle, con quel blu confuso quasi quanto lui. Valerio sapeva che era il posto giusto.
 
*
 
L’auto si era spenta a pochi metri dal casolare, così Valerio aveva semplicemente dovuto sistemarla un po’ a destra, sulla strada sterrata che si mescolava con la sabbia bianca e bagnata, umida di pioggia. La sigaretta era ormai arrivata al filtro quando Valerio raggiunse quel casolare. Le chiazze bianche sembravano davvero nuvole, buchi sulla pelle. Vedeva le ossa di quel luogo.
Lo aggirò con curiosità, osservando il colore blu, le macchie bianche. Tutto, tutto in quel casolare gli parlava di lui. Riusciva a vedere se stesso in quell’intonaco blu così confuso, in quel bianco sotto la superficie, nei mattoni solidi fatti di amore e odio. Era come se il suo spirito si fosse scarnificato per penetrare a fondo in quel casolare sul mare, dimenticato da chiunque.
Valerio cercò nelle tasche della sua giacca di pelle nera il pacchetto di sigarette, e non dovette cercare a lungo: lo tirò fuori ed aprì la scatoletta; ce n’erano rimaste solo tre. Tre sigarette. Bastavano tre sigarette per cancellare le confusioni di ventidue anni? Valerio non lo sapeva, ma sperava di sì. Aveva bisogno di fumo e di risolvere quelle confusioni.
Aggirò il casolare, affondò le sue Nike nella sabbia sottile e bagnata, mentre osservava quelle pareti. Chissà quanto erano vecchie. Chissà da quanto quel blu scuro era stato macchiato di bianco. Chissà chi aveva scelto quel colore. C’erano un sacco di domande che affollavano la mente di Valerio, quesiti che non avevano fretta di essere risolti, perché erano quei quesiti buoni che Valerio aveva sempre usato per chiudersi nella sua mente, per fantasticare, per smetterla di fare il testa di cazzo e diventare una persona migliore.
La porta del casolare era rivolta verso il mare. Valerio si perse alcuni secondi ad osservare quella striscia azzurra e incazzata, che spumeggiava e montava come se volesse distruggere il mondo, ma alla fine si allontanava, si ritirava dalla riva come scottata. Come se volesse distruggere il mondo ma non lo facesse; forse era troppo debole per farlo, o forse non lo voleva come pensava.
« Mare arrabbiato, eh? » esclamò una voce, poco lontano, e Valerio sobbalzò, masticando una mezza bestemmia. Si voltò di tre quarti, solo per puntare i suoi occhi verde acqua sulla vecchietta che, faticosamente, arrancava su per una duna di sabbia, un cesto nelle mani e un cappellino rosa calato in testa.
Quel casolare, a pensarci bene, era il luogo perfetto per una persona anziana: sembrava saturo di ricordi, di storie, di passato, e le persone anziane sembravano cullarsi nel loro passato, perché di storia non potevano crearne. Non più ormai.
« Beh, che fai lì impalato? » domandò la vecchietta, raggiungendo con uno sbuffo la soglia del casolare « Entra dentro, su, che presto ci sarà un temporale »
« Come fai a saperlo? » domandò a quel punto Valerio, curioso.
La vecchietta alzò le spalle, per poi sorridere.
« Di solito è il mare che me lo dice »
La vecchietta entrò in casa, lasciando l’uscio socchiuso per permettere al ragazzo di entrare. Valerio ingoiò la risposta della vecchia insieme a centinaia di nuove domande, per poi avvicinarsi alla porta ed entrare, senza nemmeno preoccuparsi di togliersi le scarpe.
Si trovava in un luogo semibuio, silenzioso. Il soffitto era in pietra, ma tutto il resto in legno. L’umidità stava torturando quella povera casa: lo si vedeva dalle pareti umide, da tutto quanto, così distrutto, lacerato, e Valerio fu ancora più convinto che in quel luogo ci fosse nascosto il segreto della sua vita, il segreto per alzarsi dalla panchina.
Sentì la vecchietta sbuffare e trafficare all’interno di una stanza attigua al piccolo ingresso, così il ragazzo si diresse a destra. Entrò nella cucina: era molto piccola anch’essa, molto rovinata e molto vecchia. La cesta della vecchia era aperta sul tavolo, e tutto il contenuto era riverso sul legno disastrato di quel ripiano: conchiglie. Tante, tantissime conchiglie di un blu cupo, simile a quello della casa. Il cappellino rosa era abbandonato su una delle quattro sedie, sistemate attorno al tavolo.
« Mio marito ha scelto il colore di questa casa per quelle conchiglie. Diceva che era un posto speciale, e la casa doveva avere un colore speciale » affermò la donna, sistemando un pentolino colmo d’acqua a scaldare. « Mi auguro che ti piaccia il tè, giovanotto »
« Sì, mi piace » replicò Valerio, sedendosi al tavolo della cucina. Si guardò intorno ancora un po’, ma non c’era niente di niente: nessuna foto alle pareti, nessun piccolo gingillo di un qualche nipote. Niente di niente.
La vecchia si sedette con un sospiro soddisfatto, per poi sorridere al ragazzo.
« Allora, cosa ti porta qui? »
Valerio la osservò. Non conosceva la risposta. Aveva un milione di domande, ma neanche mezza risposta. Anche questo era uno dei grandi problemi della sua vita.
« Oh. Ho capito » affermò la donna dopo alcuni istanti, sorridendo « Confuso, eh? »
« Da morire » disse lui, sospirando. Prese un tiro dalla sua sigaretta, che aveva lasciato incustodita tra le dita della sua mano per un po’. Ora era quasi a metà.
La donna lo osservò inspirare ed aspirare quel fumo dall’odore così particolare, senza fare una piega. E poi rimase in silenzio, come in attesa di chissà che cosa. Valerio e la vecchia si guardarono. E Valerio comprese che lei sapeva. Non aveva idea di come o cosa sapesse con precisione, ma quella donna sapeva, e Valerio se lo fece bastare.
« Dove si trova suo marito, ora? » domandò Valerio, curioso.
« Oh, è morto anni fa »
« Mi spiace. »
« Anche a me, già » la donna sospirò « Era un brav’uomo »
« Non lo metto in dubbio »
« Adorava il mare, specie in inverno, sai? Diceva che il mare in inverno sussurrava i segreti dell’universo, perché lui stesso è l’universo. Perché il mare è l’unica cosa infinita per davvero: tanti dicono il cielo, ma no, il cielo finisce dopo poco, e invece il mare no. E’ profondo, scende fin nelle più profonde cavità di questa terra. Diceva sempre che il mare e la terra fanno l’amore da una vita intera, e il mare cerca sempre di avvolgere totalmente la terra in un abbraccio dolce, per consolarla, ma la terra non vuole, no. E allora il mare la odia e si allontana, ed era così che lui spiegava le onde del mare. Per quanto il mare odia la terra, lui torna sempre a sfiorarla, e continua a farci l’amore »
« Era un uomo saggio »
« No, era semplicemente un uomo strano. Forse è per questo che me ne sono innamorata » sorrideva, la vecchia. Le brillavano gli occhi a parlare di amore, come se suo marito non fosse morto. Come se lo amasse ancora, come il mare amava la terra. Come se lo amasse da un secondo soltanto.
« Non è possibile amare ed odiare al tempo stesso. » affermò Valerio, ma non sapeva se crederci o no. Dopotutto, lui amava Lorenzo. Ma lo odiava pure.
« Nell’amore c’è sempre un po’ di odio. Ce n’è bisogno. Altrimenti non è amore, è pura e semplice abitudine. E l’abitudine è la cosa peggiore, perché fa a pezzi l’amore, lo soffoca »
Valerio fece una smorfia. La donna sorrise, osservandolo con quei due occhi così scuri, così pieni, e rimase in silenzio. Aspettò, e aspettò ancora un altro po’.
Poi Valerio dischiuse le labbra e sospirò.
« Sono… sono stanco di amarlo ed odiarlo al tempo stesso. Stanco degli addii »
« Ma torna da te, vero? »
« Torna sempre. Ma non so per quanto continuerà a farlo. »
« L’amore ha bisogno di odio »
« Ma l’odio è un cancro per l’amore. Una malattia infettiva. E’… distruttivo »
« Il mare odia la terra »
« La odia davvero? »
« Sì, la odia. Ma è ancora lì. E la ama. E la odia. E consumano un amplesso millenario. Gli addii rendono l’amore solo più vero. Più forte. »
« Ma distrugge. »
« Solo una cosa distrutta può essere ricostruita. E puoi ricostruirla come vuoi. »
Valerio la osservò. Si sentiva un bambino, un bambino minuscolo, confuso e curioso al tempo stesso. Un adolescente distrutto che cercava disperatamente un modo per ricomporsi, ricostruirsi in modo tale da non andare in pezzi di nuovo. Per non morire di nuovo. Per non sanguinare dentro. Emorragie interne che distruggevano ogni cosa, perché l’odio faceva male. Ma il dolore era utile, in un certo senso. Ti imparava a sopportare, a chiudere la bocca e a smettere di piangere, perché piangere non serve ad un cazzo, gli addii non servono ad un cazzo.
E ora Valerio riusciva a capirlo. Vedeva la risposta riflessa in quei due grandi occhi marroni. Che gli addii facevano male, ma il dolore era utile davvero. Per smettere di piangere, per alzare la soglia di sopportazione. E il dolore era necessario per rendere l’amore vivo, per non lasciare che si soffocasse da solo. L’odio era come lo sgabello sul quale l’amore poggiava i piedi mentre cercava di impiccarsi. L’odio impediva all’amore di cadere, di soffocare, di morire. L’odio era necessario.
E allora voleva odiare, e amare, e distruggere e ricostruire. Voleva tutto quanto. E che le confusioni bruciassero, perché quando baciava lui, cazzo, la sua vita tornava a posto. E si ricomponeva. Perché lui poteva aiutarlo a ricomporlo. E ci avrebbero provato. Insieme.
Valerio sorrise alla vecchia, si alzò ed uscì dal casolare. E si incamminò, lungo la strada, la sigaretta appesa alle labbra, gli occhi verde acqua che sembravano più pieni, meno doloranti, meno a pezzi.
Non aveva tutte le risposte, ma quelle che possedeva, che gli scivolavano tra le dita, erano le risposte che bastavano per ricominciare. Per chiudere con gli addii. Per ricostruirsi, e inventarsi un nuovo odio per sostenere quell’amore così complesso. Lui e Lorenzo, come terra e mare, come quella vecchietta che parlava del marito ormai morto, come tutte le persone con un amore troppo grande per essere capito, per essere sostenuto. Ma loro avrebbero rinforzato le basi, e non si sarebbero più detti addio. Niente più porte sbattute. Un amore infinito come il mare, arrabbiato ma innamorato di una terra che odiava.
Perché Valerio aveva capito il mare, e lui aveva lavato via le sue confusioni.
Ora voleva solo tornare a casa. E, forse, era sempre stata quella, la sua meta.





Disclaimer: I fatti riportati in questo testo sono puramente frutto della mia immaginazione. I nomi utilizzati sono anch'essi frutto della mia immaginazione, e qualsiasi riferimento a fatti o persone veramente esistenti è puramente casuale.



Avevo pensato di mandare questo testo ad un concorso letterario, a novembre. Alla fine ho mandato un altro scritto, ma non mi ero classificata nemmeno tra le prime dodici, ma ora, rileggendo questo scritto, credo che sia giunto il momento di condividerlo con il mondo di internet e, più nello specifico, di EFP. Non chiedetemi perché lo sto postando ora: sento solo il bisogno di farlo, e sono una persona che, in linea di massima, segue molto il suo istinto.
Ultimamente penso spesso a cosa sarebbe potuto succedere se avessi mandato questo, anziché lo scritto che ha partecipato al concorso (del quale ho cancellato ogni singola copia in mio possesso), ma ora come ora cerco di non farmi troppe seghe mentali al riguardo.
Ho deciso di postarlo qui perché è uno scritto più introspettivo che romantico, a dirla tutta.
Spero vi sia piaciuto,
a presto
_Cris









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