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oncie ha un po' di complessi
A ME
VIENE SPONTANEO, LO SAI!
Che male faccio mai?
Gli spettri lo
circondavano, e la canzone usciva da ogni
fessura, rimbombava in ogni angolo, l'eco lo prendeva a pugni nello
stomaco.
Che
male faccio mai?
Camminava, correva,
scappava. Si precipitava. Era un universo distorto,
distorto come i suoni che danzavano intorno a lui. I suoni danzavano.
Danza, danse macabre, sabba. Distorto, contorto, malato. Qualcosa non
andava. La strada era troppo lunga, troppo larga. L'aveva fatta
spianare lui stesso quella strada, insieme ad altre centinaia di
migliaia. Le vedeva tutte, le strade che aveva costruito. Le ferite, le
cicatrici che aveva inflitto. Eppure lui non aveva mai fatto del male a
nessuno. Lui non aveva mai torto un capello ad un bambino... dato
fastidio ad un orsetto, tolto il nido ad un'anatra...
AH, NO?
L'urlò
risuonò nella sua testa. No, no, non
doveva
ascoltarlo. Era la voce di quel, quel, quell'essere fastidioso con i
baffi, come si chiamava, no, era la voce di se stesso, no quello non
era lui stesso, sì che lo era. Doveva nascondersi,
nascondersi
nel fumo della sua fabbrica e non voltarsi indietro verso la voce.
Che
male faccio mai?
La domanda, spavalda eppure
nascosta, timida. La canzone,
quella
stessa canzone che lui aveva fischiettato ogni giorno, le frequenze
distorte, come metallo che stride. Ruggine. Ingranaggi fermi, si
è consumato tutto, tutto quello che si poteva consumare e la
tua
fabbrica è finita per sempre, ora è solo un
ammasso di
ferraglie.
CHE MALE IO POSSO
FAR MAI?
Si
svegliò col fiato corto, quasi soffocava. Come sempre.
Come tutte le notti.
Oh, no, non ne
avrebbe parlato con nessuno. Come
sempre. Come tutte le
notti. Nessuno
doveva sapere. Doveva nascondere, censurare. Censurare la censura. Lui,
lui non aveva paura, lui era fiero di sé stesso.
Si sentì
ghiacciare. Fiero
di sé stesso.
Sul comodino era appoggiato
il cappello a cilindro. Lo
toccò con la mano, come
sempre, come tutte le notti, e
si sentì rivivere - e non ri-morire, come una parte di lui
avrebbe voluto urlare. Sì, lui era lì per un
motivo. Era
lì per indossare quel cappello, sfoggiare il frac verde e
passare fra la folla esultante. Era lì per vendere, vendere,
guadagnare, guadagnare, produrre, produrre e poi vendere, vendere.
Crescita esponenziale, oh, sì. Non si stava trasformando in
un
mostro. Non era un mostro dalle zanne aguzze e gli occhi verde
bottiglia, no. Era un ragazzo, lo stesso semplice ragazzo dalla faccia
rotonda che era arrivato lì qualche anno prima.
Non sentiva la voce
che lo chiamava da dentro, la voce che, impietosa,
lo accusava. "Greed-ler!", urlava disperata, incrinandosi, ma lui non
la sentiva. No, lui no di certo. Lui era Once-ler, lui non aveva mai
fatto male a nessuno. Chi era Greed-ler? Lui, lui stava solo seguendo
il suo destino, stava solo tagliando il traguardo della corsa
dell'evoluzione.
Che
male io posso fare
mai?
Sorrise,
accarezzò il cappello e richiuse gli
occhi.
Sorrise,
e le zanne
aguzze gli scesero fin sul mento.
Questo è il genere
di storia tranquilla e allegra che pubblica una povera studentessa
sotto maturità.
Sono i sogni/pensieri di Onceler nel periodo del suo successo: di
giorno è un allegro e scatenato imprenditore dal frac verde,
ma di notte è assalito dai sensi di colpa, che
però si sforza in tutti i modi di ignorare.
Ma forse questo si era capito.
C'è un cenno a Freud, che ho appena studiato: è
volutamente nascosto, ma spero si riesca lo stesso a cogliere.
Non so quando tornerò a pubblicare, come potete capire
è un periodo un po' pieno.
Ad ogni modo, un bacio a tutti e alla prossima!
-Sophie-
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