Il bambino piangeva, e più piangeva, più lo
sguardo di
lui trapelava irritazione. Le mani gli tremavano, e coglievo
distintamente la sua voglia di fuggire.
Sentivo in maniera quasi palpabile che di lì
a poco
l'avrei perso per sempre, e rendermene conto mi stava distruggendo gli
organi vitali.
Nonostante tutto, quel pianto richiamava il
mio amore materno, risvegliava un legame indissolubile.
E lui se ne accorse. Si accorse che volevo
andare dal mio
bambino, in quel momento, all'apice di quella che sarebbe stata la
nostra ultima discussione.
Non lo accettò, ferito nell'orgoglio.
Se ne andò sbattendo la porta, ponendo fine
a tutti i miei sogni, a tutti i miei desideri. Ma non pose fine al
pianto del bimbo.
Non mi mossi, impietrita, sentendo dentro di
me qualcosa
rifiutarsi di correre a calmarlo, perchè andare da lui avrebbe
significato ricordare nitidamente.
Accoccolato nel mio
grembo, il piccolo gattino nero
cominciò a farmi le fusa, guardandomi di sottecchi con i suoi occhi
verdi, indagatori.
Mi stava chiedendo di
cedere al suo fascino, di vezzeggiarlo e coccolarlo, di nutrirlo ed
appagarlo.
Di prendermi cura di lui.
Fissavo da tempo quella porta chiusa. Ne
sentivo ancora,
nelle orecchie, il rumore echeggiante che mi era arrivato al cuore,
quando lui l'aveva sbattuta.
Vedevo ancora la sua schiena, così larga,
così ampia, che conoscevo così bene, sparire nel buio oltre quella
porta.
Dentro casa vi era un soffuso calore, vi era
una luce calda.
Dentro casa vi era il mio amore per lui.
Eppure lui aveva scelto il buio oltre la
porta.
Aveva scelto di allontanarsi da me.
Chiusi gli occhi, serrando le labbra più che
potevo,
lasciandomi travolgere da quello che provavo, così sconvolta da non
riuscire nemmeno a piangere.
L'amore che sentivo per lui,
incontrastabile,
indissolubile. Un amore che durava da tempo immemorabile, che era stato
il centro della mia vita, al quale avevo riposto ogni mia speranza.
L'affetto materno, la preoccupazione per
quella
creaturina che ancora si lamentava flebilmente, continuando a sperare
in un soccorso che non giungeva. Quella sensazione con la quale avevo
imparato a convivere in quei pochi mesi, da quando mi aveva guardato
con i suoi perfetti occhi azzurri.
E poi vi era sofferenza.
Sofferenza cieca, profonda, che non riusciva
ad uscirmi dal petto, che minacciava di logorarmi.
Che avrebbe fatto bene a logorarmi, perchè
ero io la causa di tutto.
Il micio cresceva.
Le zampe gli si
allungavano, il corpo gli diventava proporzionato e spigoloso, il muso
più affilato.
Mi richiedeva sempre più
attenzioni, con quella sua
effimera bellezza impareggiabile, con quel pelo nero che diventava più
scuro e lucente ad ogni mia attenzione, quegli occhi verdi, socchiusi,
troppo grandi per quel muso smunto, che mi richiamavano, mi
calamitavano.
Era affascinante ma mi
metteva in soggezione.
In realtà, non fosse stata
per la sua capacità di attrarmi a lui, lo avrei trovato ripugnante.
Era magro, talmente magro
che potevo contare le sue
costole, mentre lo accarezzavo. Potevo passare il dito su ogni sua
vertebra, sulle quali giocavo come fossero tasti di un pianoforte.
E più me en prendevo cura,
più sembrava che diventasse magro ed affamato.
"Ancora" sembrava dirmi,
"ancora".
E più passava il tempo,
più lui era insaziabile.
Deperivo giorno dopo giorno, senza la minima
forza per reagire.
Completamente persa nel mio dolore, nel mio
struggimento, nel mio mondo.
Mi muovevo per la casa in uno stato
febbrile, con la
speranza che lui tornasse da un momento all'altro, che lui perdonasse i
miei sbagli.
Che lui smettesse di guardare i capelli
rossi del mio bambino come se fossero una piaga, o il più terribile dei
mali.
Riuscivo a prendermi cura della casa solo
perchè così
lui, che sarebbe potuto tornare in qualsiasi momento, avrebbe trovato
la sua amabile casa, la sua amabile vita, la sua amabile moglie, il suo
amabile bambino.
Anche se il bambino non era suo.
Ed io avevo rovinato la mia stessa vita.
La mia, la sua, e quella appena iniziata del
mio bambino.
Il gatto diventava sempre
più affettuoso, mentre si
strusciava contro il mio viso con quel pelo scuro ed ispido, che
arrivava a pungermi la pelle.
Mi guardava con occhi
onniscenti ai quali non sapevo resistere, contro cui non potevo più
nulla ormai.
Sembrava diventare sempre
più grande.
Solo dopo molto mi accorsi
che era strano per un gatto diventare così grande.
Mi sentivo quasi
orgogliosa di ciò, perchè quella era una mia creatura, della quale mi
ero presa cura.
Vedete il suo pelo
talmente lustro da risultare abbagliante?
Vedete i suoi occhi, color
del veleno più spietato così grandi da sembrare fanali, le sue zampe
affusolate?
Vedete il suo corpo
spigoloso, la sua muscolatura poco accentuata, il suo fisico scabro e
smunto?
Il suo comportamento
regale, la sua postura nobile?
È tutto merito mio, sono
io che l'ho curato, nutrito.
Sono io che ho passato la notte con l'amico
di lui, dagli inconfondibili capelli rossi.
Sono io che mi sono ritrovata in grembo una
creatura che
non era di lui, sapendolo e senza aver il coraggio di liberarmene,
senza aver il coraggio di prendere una decisione così drammatica.
"Lui mi ama, me lo perdonerà, mi capirà"
dicevo a me stessa.
Ma come potevo anche solo sperare che lui mi
perdonasse, quando io stessa ero la prima a non riuscirci?
In cuor mio gli davo ragione, dell'avermi
lasciata sola.
Non potevo dire nulla.
Era tutta colpa mia.
Era una situazione che era stata creata solo
dalle mie
orribili, infantili, vigliacche scelte, in cui non ho pensato a cosa
tenevo di più nella mia vita.
Ed è stata questa la punizione: perderlo.
Lui, la cosa più importante della mia vita.
Eppure quel gatto non lo
amavo.
No.
Come si poteva amare
quella cosa disgustosamente ripugnante?
Disgustosamente malvagia?
Lo detestavo con tutta me
stessa.
Perchè era con questo che
lo avevo nutrito: con il peggio di ciò che provavo.
Con il rancore verso me
stessa, che mi stava
logorando l'anima, che mi aveva tolto la gioia di vivere, che non
riuscivo a confessare.
E grazie a questo il gatto
continuava a crescere, alimentato dal mio rancore sempre più profondo e
radicato.
Il gatto, era il mio
rancore.
E quando, diventato
talmente grande, io non riuscii più a saziarlo, lui si cibò di me,
ridandomi finalmente la pace.
|