L.C. - Cap. 1
1
Odiava
i lunedì di marzo, troppo freddi e umidi per i suoi gusti. Un
velo di nubi oscurava il cielo e il vapore usciva dalle grate degli
scantinati, ricadendo appiccicoso sui marciapiedi. Neppure i
lunedì di aprile erano più gradevoli, con il luccichio
delle finestre che venivano continuamente aperte alla primavera da
massaie indaffarate a gettare la polvere fuori dalle stanze. Lo stesso
poteva dirsi per quelli di maggio, con la profusione di fiori messi a
spargere i loro stupidi petali ovunque. C’erano poi quelli di
giugno, luglio, agosto e via discorrendo per l’intero arco
dell’anno. Odiava i lunedì nella loro totalità:
erano uno stuolo di orribili soldatini dall’aspetto innocuo, che
gli sparavano contro accuse, malesseri, luci accecanti, rumori e odori
molesti.
Capì
d’essere a destinazione quando udì il familiare rombo
delle caldaie e lo sferragliare dei magli. Superò il cancello
trascinando i piedi sull’asfalto rattoppato, inspirando quanto
più profondamente gli consentisse lo stomaco gonfio e a
soqquadro. L’arsura in bocca acuiva il bisogno di vomitare.
Un
boato esplose nelle meningi, obbligandolo a chinare il capo mentre
strizzava le palpebre dietro le lenti scure. Il mondo si contorse in un
vortice, che scomparve alla stessa rapidità con cui era venuto.
Non si trattava di un tuono, non aveva nulla a che fare con il meteo. Era una voce. Una voce che conosceva fin troppo bene.
«Niklas».
L’uso
del suo nome di battesimo significava guai grossi. Enormi. Sentì
il cervello riempirsi d’imprecazioni e maledizioni, ma nessuna
raggiunse la gola. Persino la scusa preparata con tanta, claudicante
cura, se l’era svignata alla chetichella, lasciandolo disarmato.
Si
raddrizzò a fatica, la testa incassata fra le spalle e le mani
appese alla cinta. I capelli biondi ricadevano arruffati sul volto che,
seppur segnato dai quasi cinquant’anni e dai pesanti trascorsi,
faceva sospirare ancora parecchie donne. Tuttavia, lo sguardo rimase
incollato agli scarponi chiazzati d’olio dell’altro.
«Ehi,
cuginetto!» balbettò, storcendo le labbra in quello che
avrebbe dovuto essere un sorriso. «Bella giornata, eh?»
«Sai che ore sono?» tagliò corto.
«Ehm…
no. No, ma tranquillo, adesso mi… mi metto in pari. Se
ci… m-metti una b-buona… parola…»
«Sono le undici, Scorch» l’interruppe, facendolo barcollare con il solo peso delle sillabe.
Lui
indietreggiò e sollevò le mani, i cui palmi erano segnati
da grosse cicatrici bianche e piatte. Tremava, ma era difficile dire se
dipendesse dalla paura o dalla nausea.
«N-non
s-succ… succederà più. Ecco…
a-adesso… entro e…» e fece per superarlo con passo
malfermo.
Clay
gli stritolò la spalla, obbligandolo ad alzare lo sguardo
febbricitante. Il suo volto squadrato e minaccioso riempì
l’intero campo visivo dell’interlocutore ed era tutto,
fuorché un bel vedere. Scorch lo capì anche in quelle
condizioni.
«Vattene» ordinò, facendolo ruotare su se stesso come un giroscopio.
L’ingegnere
mugolò, tentando di opporre una fiacca resistenza. Le dita del
cugino e i capogiri gli impedirono di cercare un motivo qualsiasi per
convincerlo a farlo restare. L’unica cosa che riusciva a
distinguere chiaramente era la fitta alla base del collo che sovrastava
il resto dei dolori.
«Ho
detto vattene» latrò perentorio Clay. «Va a casa e
dormi. Ne riparliamo domani. E non fermarti da nessuna parte, chiaro?
Non voglio venire a ripescarti in nessun bar da qui alla
Capitale».
Scorch
ansimò frustrato, simulando un singhiozzo cui non credette. Era
già caduto in quel trucco, non si sarebbe ripetuto.
«Ancora qui?» insisté, assestandogli uno spintone che per puro caso non lo mandò lungo disteso.
«Posso lavorare» esalò a denti stretti.
«Quanto? Un’ora? Due? Puzzi di alcol, dannazione, farai venire il mal di testa a tutti».
«Posso…» insisté.
«Levati dai coglioni, Scorch. Altrimenti ti prendo a calci nel culo fino a casa tua» minacciò.
L’uomo
rimase impalato per qualche istante, incerto sul dove dirigere le
gambe. Non lo trovava giusto, aveva lavorato in condizioni peggiori di
quelle, perché lo stava cacciando?
«Fanculo, Clay» sputò, incassando la testa fra le spalle e tornando da dove era venuto.
«Altrettanto, Scorch. A domani».
Allontanare
l’uomo da cui era venuta la sua fortuna, era per Clayton Lomann
una delle cose più penose al mondo. Si sentiva terribilmente in
colpa perché la “Legendary Customs” era nata dalle
mani di Niklas, ma allo stesso tempo non poteva sempre mettere una
pezza quando i suoi stramaledetti vizi avevano il sopravvento. Riteneva
d’aver già fatto molto rilevando l’officina
più di vent’anni addietro, quando era prossima al
fallimento, ed era andato oltre quando aveva scelto di tenere quello
scapestrato nello staff. Eppure, quando si presentava strisciando come
un verme per i postumi di una sbronza, farfugliando scuse ridicole e
giurando e spergiurando di star bene, aveva la netta impressione che
tutto ciò che aveva fatto non fosse servito a niente.
«La
tenacia è un’arte, ma la tua sfocia in un’assurda
perversione» cantilenò una voce alle sue spalle.
Un
uomo dai tratti orientali era appoggiato allo stipite del portone
d’ingresso. Le braccia incrociate sul petto erano ricoperte di
tatuaggi dove si rincorrevano squali e tartarughe.
«Non hai da fare? Siamo di consegna mercoledì, e non ti ho ancora visto mettere mano al tuo sputavernice» borbottò il capofficina, sperando di chiudere il discorso sul nascere.
L’altro accese con calma una sigaretta e inspirò una lunga boccata, guardandolo dritto in faccia.
«Non
può continuare così. Quanto è durato? Quattro
mesi? Sta peggiorando di nuovo. Sbaglia i conti, non sa
più tirar fuori colpi di genio. Certe volte non riesce a
tenere la matita in mano. Ci rallenta e, cosa ancora peggiore, rischia
di farsi male. Seriamente stavolta» concluse, riferendosi
all’incidente che aveva costretto Scorch a girare con le
stampelle per diverse settimane.
Clayton
si appoggiò all’altro battente, chiudendo gli occhi.
Avrebbe potuto osservare la strada o l’officina per distrarsi, ma
la verità era che parlare col suo secondo diventava
indispensabile, in quei casi.
«Hai
ragione, Hito, ma cosa vuoi che faccia? Che lo licenzi? È pur
sempre mio cugino; è un fratello per me, lo sai. Se gli volto le
spalle, cosa gli resta?»
«Gli serve aiuto. Un aiuto che non sia il tuo. Piantala di spendere monete d’oro per un gatto1» l’ammonì, rigirando il mozzicone tra le dita quasi fosse un prestigiatore.
«Sono
venticinque anni che tento di convincerlo. Non ascolta nessuno, fa solo
finta. Non voglio mettere di mezzo gli avvocati, ne ho abbastanza di
quei figli di puttana».
Aveva
avuto a che fare a sufficienza con quei damerini leccati e impomatati,
e ancora non smaltiva l’acido che gli avevano versato nelle vene.
Un
clangore di lamiere cancellò i discorsi dei due, obbligandoli a
guardare all’interno. Videro diversi uomini correre tra le
scocche e i banchi di lavoro. Le urla di Choncho inseguirono una
figuretta che schizzava fuori dalla porta laterale.
«Boy» sospirarono all’unisono.
Il
loro allievo era un’autentica spina nel fianco: non era stupido,
né gli mancava la voglia di fare, anzi. Il problema era
esattamente l’opposto: Boy voleva strafare per dimostrare la
propria superiorità a chiunque, col risultato di portare caos e
darsi la zappa sui piedi. O abbatterla sui piedi degli altri.
«Va
a vedere che diavolo ha combinato e dagli una rigirata. Io ho da
fare» grugnì Clay imboccando la scala metallica accanto
all’ingresso.
«Vuoi fare cambio?» domandò ironico l’artista, schiacciando la cicca sotto lo stivale.
«Non chiedermelo».
***
Scorch dondolava lungo il marciapiede, curvo sotto il peso di
un’inesistente bancata. Clay lo tenne d’occhio dalla
finestra sul pianerottolo fin quando svoltò su Amyngton
Boulevard, augurandosi di non essere raggiunto da telefonate di baristi
inferociti o, peggio, dalla prigione della Contea.
La
giornata era cominciata male, con un fastidioso dolore al gomito che
aveva reso la guida un autentico strazio; era proseguita imboccando la
spaventosa china rappresentata dalla chiusura trimestrale dei registri
dell’attività; aveva subito la brusca battuta
d’arresto sui postumi di Scorch e ora minacciava di procedere
verso l’abisso, con la ripresa della revisione dei conti.
Salì
la seconda rampa augurandosi che pure il morale tornasse a puntare in
alto. Entrò nell’ufficio senza bussare e fu accolto
dall’espressione interrogativa della segretaria, nonché
responsabile amministrativa. Le fece cenno che preferiva tacere su
quanto accaduto e in cambio ottenne l’invito a riprendere il
posto abbandonato poco prima.
«Dove eravamo?» mugugnò lasciandosi cadere di peso nella poltroncina girevole.
Questa protestò crepitando e una delle rotelline emise uno schiocco allarmante.
La
donna all’altro capo della scrivania allungò un plico,
sistemando distrattamente gli occhiali sul naso. Charlotte lavorava
lì da circa un anno, tuttavia Clayton non ricordava una sola
volta in cui si fosse presentata al lavoro in maniera meno che consona
al suo ruolo. Abbigliamento impeccabile, trucco appena accennato,
capelli raccolti in ordinatissime crocchie che avrebbero sfidato le
acrobazie di No Way. Tutte cose che la facevano sembrare più
vecchia di quanto non fosse.
«Capitolo
quattro: forniture di materiale d’uso e consumo»
scandì piatta, spuntando la voce dal promemoria. «Non vada
subito a pagina diciannove» lo riprese, sentendolo scorrere
rapido i fogli.
«Volevo leggere il totale» si giustificò.
«E
come al solito avrà da ridire sull’importo, anche se le
posso garantire che è ridotto all’osso. Deve leggere le
altre pagine per capire il senso di quelle cifre».
Clay
aggrottò la fronte, soffocando una bestemmia. Era vero:
l’importo gli era parso subito esagerato. E lei sembrava una
stizzosa maestrina quando usava quel tono acido e saccente.
«Le
pagine prima, signor Clayton» ripeté la donna.
«Guardi i singoli consuntivi e si renderà conto che quel
totale non è poi così alto. La “Legendary”
sta viaggiando molto bene».
«Cazzo, ma sono settemilaottocento trias, Charlotte!» sbottò l’uomo.
«È
per il materiale utilizzato giornalmente» spiegò quieta,
prendendo una voluminosa cartelletta ad anelli. «Boccole,
rivetti, distanziatori, guarnizioni, manicotti, chiodi, barre di stagno
e rame per saldature… elementi utilizzati per ogni tipo di
lavoro, oltre alle personalizzazioni» e così dicendo
sfilò un intero fascicolo, alto quasi tre dita.
«Non
t’azzardare a mettermi quella roba davanti al naso, donna»
l’avvertì puntandole contro l’indice.
Detestava
leggere riga per riga le fatture degli ordinativi e lo stesso valeva
per i promemoria che i ragazzi trasmettevano giornalmente a Charlotte.
Incurante del tono minaccioso, la segretaria pareggiò i bordi del dossier e glielo porse.
«Ho detto…»
«Preferisce lo faccia Sandy?» lo interruppe, spiandolo da sopra la montatura nera.
L’imbottitura
dei braccioli si gonfiò pericolosamente fra le dita del
capofficina. L’accenno alla ex-moglie era andato a segno con
un’efficacia da cecchino.
Sbatté
i fogli sulla scrivania, chinandovisi sopra mentre firmava, nascondendo
il volto tra le braccia quasi fosse un ragazzino intento a difendere i
propri scarabocchi dalla madre pronta a punirlo.
«Bastarda»
sibilò più piano che poté, accompagnando con la
testa l’andamento spigoloso della grafia.
«L’ho sentita» replicò tranquilla quando ripose le attestazioni nel portadocumenti.
A Clay sfuggì un gemito sofferente quando la vide prendere una nuova cartellina.
«Capitolo
cinque: forniture per lo staff. Abbigliamento, attrezzature standard,
dotazioni minime di sicurezza, spese sanitarie e generali»
elencò, mentre lui si lasciava scivolare sulla poltroncina.
Charlotte aveva il potere di sfinirlo.
«Quanti
cazzo di capitoli hai messo giù questa volta?»
domandò, premendo le mani sulla faccia per non dovergliele
stringere al collo.
«Quindici» rispose laconica.
«Quindici?!» tuonò esasperato.
Nella
sessione precedente i capitoli di spesa erano stati “solo”
undici. Avrebbe proprio voluto sapere come, ma soprattutto dove,
riusciva a scovare voci nuove per i rendiconti
dell’attività.
«Voglio una sparachiodi calibro due e venti» rampognò.
«Non
esistono. E anche se esistessero, è inutile che si lamenti,
signor Clayton. Siglerà tutto anche con le mani inchiodate al
soffitto, al pavimento, ai muri o dove le pare».
«Usando cosa?» la punzecchiò, grattandosi vigorosamente il basso ventre.
Sapeva
fin troppo bene che qualunque accenno a cose sconce le faceva tremare i
polsi dalla vergogna. Quella volta però cascò male.
«I piedi. A mio rischio e pericolo» e indicò il rigo dove firmare.
La mano dell’uomo si spiaccicò ben aperta sull’incartamento, occupandone la maggior parte.
«Allora questo non devo leggerlo?» ammiccò furbescamente.
Per
nulla divertita, Charlotte tacque senza perdersi d’animo. In
fondo, dovevano esaminare ancora parecchie voci prima di poter mettere
la parola fine a quell’incombenza.
***
La sirena di mezzogiorno e mezzo fischiò acuta, sancendo il termine della prima parte della giornata.
«Allora
un dio esiste!» sbuffò sollevato Clay, allontanandosi con
una poderosa spinta che lo fece arrivare fino alla porta. «Su,
Charlotte. Molla tutto e andiamo a riempirci la pancia! I registri
possiamo finirli dopo».
In
un attimo si era eclissato oltre l’uscio, senza darle
possibilità di replica. Lei scosse il capo, spazientita.
Raccolse i plichi sparsi, dividendo in pile ordinate quelli firmati da
quelli ancora in bianco, preparò un nuovo foglio nella macchina
per scrivere e riordinò le stilografiche che Lomann aveva
sparpagliato ovunque. Sfilò gli occhiali, concedendosi qualche
istante per massaggiare la nuca indolenzita dalla postura. Infine,
aprì la finestra quel tanto da permettere all’aria di
circolare senza che il vento scompaginasse i documenti.
In
quel momento, sul ballatoio transitò quella che poteva essere
scambiata per una mandria di buoi cingolati, ovvero lo staff
dell’officina.
La
mensa era all’altro capo del soppalco. Dal cucinino provenivano i
commenti concitati di Pancake e Maria Pilar, che sovrastavano la sigla
d’apertura de “Le Porte di Backfield Road”. Non
perdevano una sola puntata della telenovela sin dalla prima puntata,
andata in onda nove anni addietro.
Charlotte
prese posto all’angolo estremo della tavolata e scoperchiò
il suo pranzo. Fissò allibita la porzione di paella, mordendosi
il labbro: avrebbe potuto riempire comodamente il vano di carico di un
Heeler.
«Mangiala tutta, niña, che ti vedo patita!» disse affettuosa la cuoca.
La
raccomandazione sollevò un nugolo di risatine. Quella di Clay
suonava chiarissima: doveva sentirsi vendicato della mattinata
trascorsa in sua compagnia. Era risaputo in tutto il quartiere che una
razione dei manicaretti di Mamá Pilar era sufficiente a sfamare
almeno due persone di robusto appetito; persino i voraci meccanici
della “Legendary” avevano difficoltà a vuotare i
piatti, quindi era piuttosto buffo sperare che una signorina potesse
anche solo cimentarsi nell’impresa.
Dopo aver rifilato a ciascun commensale una smorfia sdegnata, si alzò e puntò alla dispensa.
«Grazie del pensiero, mamacita» rispose allungando il collo nello stanzino. «Che succede? Prince sta ancora tentando di uccidere Kevin?»
«Ha
dovuto lasciar perdere perché sono intervenute Brandy e quella
sgallettata di Delora» bofonchiò Pancake con la bocca
piena. «Prince ha accusato un fumatore d’oppio che aveva
visto nel vicolo, dicendo di essere accorso alle grida di Kevin, e
siccome questo non ha visto chi l’aveva aggredito, l’ha
pure ringraziato. Che imbecille!»
«E Delora e la sua amichetta ora sono tutte un “Che eroe-che eroe-che eroe!”. Sono proprio due mujeres bobas!
Ma come fanno a non capire? È così evidente che Prince
sta mentendo! E sai chi è il drogato? Quello che stanno portando
via adesso, lì, lo vedi nella navetta? Roy!»
«Roy? Il fratello di Peter scomparso durante il viaggio dell’Onfalia?» esclamò stupita Charlotte.
Pur
non essendo appassionata della soap opera, ne seguiva l’intreccio
attraverso i commenti di Pancake e Maria, oltre che nei riassunti sulle
pagine del FlyinGazzette.
«Esatto!»
esclamò il giovane, addentando una torre di frittelle alla
cannella. «Hanno fatto vedere i suoi documenti. Adesso ce li ha
l’Ispettore Valenti. Ci scommetto che li userà per
ricattare Justina! Dirà che se non vuole far sbattere dentro Roy
per aggressione e riconsegnarlo sano e salvo al fratello, dovrà
stare al suo gioco e andare a letto con lui! Ha sempre voluto
scoparsela».
Maria
Pilar era di tutt’altro avviso e per assicurarsi di non essere
interrotta dall’altro, allontanò il piatto dei dolci e gli
offrì una porzione titanica di riso e crostacei direttamente nel
mestolo.
«Secondo
me vorrà i documenti per incastrare il suo capo, quelli che
Peter nasconde nella cassaforte dello studio, quello dove non fa
entrare nemmeno Justina. Valenti sarà anche uno schifoso ma ha
una sua dignità. È un poliziotto!»
«Maria,
nelle mutande la dignità va farsi fottere. E non è un
modo di dire» esclamò Pancake, ammonendola con il ramaiolo
appena ripulito.
Charlotte abbandonò la disquisizione, tornando a tavola per versarsi mezzo bicchiere di vino rosso.
«Ehi,
bella! È quello che ci ha dato Avelan?» ciancicò
interessato Boy, prima di scolare d’un sol fiato la birra che
aveva nel bicchiere per poi allungarglielo.
Il
ragazzo era una specie di puntaspilli, con sopracciglia, orecchie e
labbra piene di ornamenti metallici che serpeggiavano dentro e fuori la
cute spruzzata di grasso e sporcizia.
Dopo
aver richiuso con calma la bottiglia, Charlotte si sistemò
meglio sulla sedia e respinse il bicchiere al mittente, sorseggiando il
proprio con l’aria di godersela un mondo.
«Sbagliato»
rispose. «Questo è il vino che il signor Avelan ha dato a
me, Jessie, per meriti che ha ravvisato nel mio operato» e
sfiorò l’elegante biglietto di pergamena ancora legato al
collo della bottiglia.
Un coro di fischi e versacci indicò la vincitrice indiscussa della schermaglia.
«E
se vogliamo dirla tutta, sei minorenne. Non ti sarebbe permesso neppure
guardare quella birra» osservò alzando la voce e
squadrando i presenti, che ammutolirono indispettiti.
«Chicky-Charly» sghignazzò di rimando l’apprendista.
A
quelle parole, Charlotte s’irrigidì. Strinse le dita sulle
posate e qualcuno della squadra fu pronto a giurare che stesse per
sgozzare il moccioso. L’ilarità residua evaporò in
un secondo mentre chiudeva coltello e forchetta nel contenitore del
pranzo. Alcuni chinarono impercettibilmente il capo nell’attimo
in cui afferrò le vettovaglie, temendo di vedersele arrivare
addosso.
«Tesoro, dove vai?» chiese Maria, insospettita dal rumore dei tacchi.
«In ufficio, mamacita.
Voglio godermi questo bel pranzetto in santa pace. Grazie tante»
disse sporgendosi per darle un bacio. «Oggi preferisco la
compagnia dei documenti» soggiunse uscendo impettita.
Solo
quando l’eco dei passi svanì e la porta dell’ufficio
venne chiusa a doppia mandata, gli uomini della “Legendary”
tornarono a respirare normalmente.
«Non fatemi venire lì per scoprire di chi è la colpa, malcriados» rampognò Maria Pilar, approfittando di uno stacco pubblicitario per scrutare nella stanza.
Sotto il suo sguardo inquisitore, i meccanici tornarono rapidamente a concentrarsi sui piatti.
«Siete
una manica di fottutissimi stronzi» li accusò dopo qualche
minuto Clay, sottolineando il proprio disappunto con un sonoro rutto.
«Tutti quanti. Devo starci io con lei questo pomeriggio, non
voi!»
«Paura che ti faccia totò sul sederino?» scherzò Iron, l’addetto ai lavori pesanti.
«Ino?
One, vorrai dire!» rise sguaiato Boy, ma le facce infastidite dei
colleghi lo obbligarono a chiudere immediatamente il becco.
«Sì,
sì, ridete. Aspettate la busta paga a fine mese, poi vedremo se
avrete ancora voglia di scherzare» ricordò loro Clay,
puntando eloquente il coltello alla gola.
«Era veramente incazzata stavolta. Non gli passerà alla svelta» commentò Patch, succhiando una cozza.
«Fatti
suoi. Deve smetterla di fare la mammina, non ho cinque anni!»
protestò Boy, cominciando a tracannare un’altra birra.
«Le manchi di rispetto. E non solo a lei» lo riprese Hito, strappandogli la bottiglia.
«Cosa?!» esclamò il ragazzo, ingaggiando un duello impari per riavere il maltolto.
«La contesti sempre» sbadigliò No Way, spiandolo sonnacchioso da sotto il berretto.
«La prendi in giro con quei soprannomi orrendi» suggerì Odrin.
L’Andull
era il solo oltre alla segretaria a non avere pseudonimi.
“Chicky-Charly” era il modo dell’apprendista di darle
della pollastrella, della femminuccia frivola, decerebrata e modaiola.
Esattamente l’opposto della donna che tutti conoscevano.
«Le
fai l’imitazione. E anche male» aggiunse Iron, parlando di
proposito in falsetto e fingendo di sistemare gli occhiali.
«Parli
troppo, concludi zero e fai casino, porca troia. E lei lo sa. Come
tutte le cazzo di femmine di questa merda di mondo»
rincarò Choncho, dondolandosi mollemente sulle gambe posteriori
della sedia.
Quale prova, dal cucinino la madre gli impose all’istante di sedere composto, pur non avendolo visto.
«Vogliamo
parlare di tutta la roba che hai rotto o perso, e hai preteso ti
facesse riavere? Sono quasi sicuro che sei costato più tu in
questo trimestre che tutti noi messi insieme» concluse Clay.
Il
ragazzo cercò un appiglio disperato in Ozone, seduto al suo
fianco, che però si limitò ad assentire bonario. Avevano
ragione: se non andavano d’accordo, la parte maggiore della colpa
era a carico suo. Charlotte poteva essere indisponente, arrogante,
nevrotica, persino tirannica, ma faceva del suo meglio per mantenere
con tutti un rapporto di civile convivenza. Spesso i suoi divieti si
erano rivelati una mano santa per l’economia dell’officina:
aver imposto l’uso protezioni per occhi, orecchie e mani –
pena una trattenuta di cinque trias dallo stipendio – aveva
ridotto del settanta percento il ricorso ai servigi del Dottor Hernzt.
Nella catena di comando Charlotte era un gradino sotto Clay e Sandy, ne
faceva le veci quando erano assenti, aveva facoltà decisionali
in merito agli ordini, gestiva i rapporti con i clienti, approvava le
richieste di permessi e ferie. Averla per nemica era una pessima idea.
«E
non provare a farle scherzi con quella bottiglia, tipo fargliela
sparire o vuotarla o sputarci dentro, perché sarà la
volta buona che ti fa pulire il pavimento con la lingua»
l’avvisò Hito.
«Sempre
se non t’infila in uno dei bidoni per la morchia»
ridacchiò Choncho, fingendo di annaspare nel denso liquame.
«O
magari nella Teuronne» suggerì Odrin, schiacciando la
faccia color pece tra le mani per dargli un’idea di quale effetto
avrebbe avuto la pressione della caldaia.
Sulla
porta del cucinino comparve la sagoma ballonzolante di Pancake,
più scuro in volto di quanto le lontane origini africane non lo
rendessero già. Aveva le mani affondate nei fianchi e le guance
gonfie di riso e frittelle.
«Silenzio! Qui non si sente niente!» urlò, sputando una pioggia di briciole sui presenti.
1 Monete d’oro per un gatto: equivalente giapponese del “dare le perle ai porci”.
NdA
Finalmente, dopo mesi, mi ributto nel mondo delle long vere e proprie.
Chiaramente in stile steampunk. Questa storia prende le mosse da serie
tv come "Pimp my ride", "Street Customs", "Top Gear", etc. ma se non
siete appassionati di motori, state tranquilli: non ci saranno lezioni
di meccanica!
Detto questo, un ringraziamento speciale va a Shade Owl e _ivan,
miei amici-lettori-recensori-revisori, grazie ai quali non solo le idee
spuntano come funghi, ma soprattutto giunge sempre il consiglio giusto
al momento giusto.
Ultima notazione: la pubblicazione sarà settimanale! Al prossimo lunedì.
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