CARLISLE CULLEN
Quando era nato a vita mortale il
suo nome era un altro.
Un nome che gli tornava alla memoria nei sogni e il risveglio scacciava
via:
quello che suo padre gli aveva imposto, trecentosessantadue anni prima.
Prima
della guerra. Prima che gli uomini
impugnassero il nome di Dio come un’arma.
Non bestemmiare il nome del
Signore. Non mentire.
Non uccidere. Onora tuo padre e tua
madre.
Strinse gli occhi, come se la luce
che filtrava pallida
attraverso le nuvole gonfie di pioggia gli desse fastidio. Chi sei,
“Doc”
Cullen? Sarebbe stato facile, per lui, rispondere a quella domanda
perché,
contrariamente al nome che gli era stato imposto quando era venuto al
mondo, il
risveglio non riusciva a cancellare la memoria della sua prima vita.
Londra, Seconda Metà del XVII
Secolo
Non bestemmiare il nome del
Signore. Non proferire
menzogna.
Brucerei il tuo corpo anche se sei
sangue del mio sangue,
pur di salvare la tua anima. Occhi di fuoco. Parole dure, senza amore,
malgrado
si dicesse uomo di fede e pastore di anime. Aveva lasciato il suo
villaggio,
portandosi appresso una moglie incinta e malata che non sarebbe durata
a lungo,
tra i miasmi appestati di quella città lercia. Ma a Londra
c’erano tante anime
da salvare. C’era tanto male da distruggere.
Non bestemmiare il nome del
Signore. Non proferire
menzogna. Onora tuo padre e la verga con cui ti colpisce a sangue,
perché il
dolore ti insegni a distinguere la virtù dal vizio e a
portare la tua anima a
salvamento.
Non proferire menzogna. Non
uccidere.
Chiuse gli occhi,
inghiottì un groppo di saliva e di bile.
Aveva sei anni, quando era stato costretto a guardare la strega che si
consumava tra le fiamme, ed era come se il puzzo di carne bruciata,
cenci
fetidi, escrementi, gli
indugiasse
ancora in gola. La nostra missione è quella di estirpare il
male dal mondo, non
dimenticarlo. Mai. Ne aveva sedici quando il licantropo era stato
ammazzato a
bastonate proprio davanti ai suoi occhi. La missione. Quella che lui
intendeva
lasciargli in eredità, quando il trascorrere del tempo
avrebbe reso debole e
fiacco il suo corpo. Estirpare il male dal mondo. Bruciare e massacrare gli emissari del demonio:
la vecchia zingara
che ti leggeva la mano in cambio di qualche spicciolo,
il povero idiota dalle membra contorte e
dagli occhi vacui, incapace perfino di parlare. La strega. Il
licantropo. Non
bestemmiare. Non mentire. Non uccidere.
I cunicoli delle fogne pullulano di
esseri immondi. Demoni
che vagano nella
notte per placare nel
sangue la loro fame e la loro sete. Mordono con denti infetti e, come
cani
rabbiosi, trasmettono agli innocenti tutto l’orrore della
loro condizione.
Solamente il fuoco può distruggerli. E la nostra
missione…
La maledetta missione che non
sarebbe stata la sua. Li
aveva visti, quelli che suo padre continuava a chiamare vampiri, fuori
dai
tuguri che dividevano con i topi, gli occhi
rossi di tracoma e la pelle divorata dalla scabbia, mani
luride che ti
arpionavano i vestiti, mentre pietivano un tozzo di pane o ti
maledicevano per
una carità negata. Petti squassati dalla tisi, arti contorti
dai reumi, bocche
piene di denti marci. Era la miseria e solo quella, il demone che li
infettava
con mille mali.
Mi rifiuto di credere nel
vostro orribile
dio che non
conosce pietà. Ma se la rabbia avesse parlato per lui, suo
padre sarebbe stato
capace di punire con la morte quelle bestemmie. Non proferire menzogna.
Allora
taci, e continua a cercarli, i fantasmi affamati dei bassifondi, donne
uomini
bambini e vecchi ai quali un infuso di erbe medicinali, un
po’ di pane, un
salasso, una carezza, avrebbero potuto rendere più
sopportabile quell’esistenza
grama.
Non l’aveva mai visto
prima o, forse, non l’aveva mai
notato, uno dei tanti piccoli luridi straccioni
destinati a non arrivare ai dodici anni. Un bel bambino al
quale,
d’impulso, lui aveva regalato la sua colazione. Ma
perché non
si era gettato sul cibo come un cane
affamato ed era scappato via? Per dividere, chissà, quel
povero tesoro con i
fratellini? Eppure la miseria non rende nessuno più buono.
Nemmeno i bambini,
nella loro decantata, forse fittizia innocenza. Quello aveva gli occhi
azzurri,
come s’immagina che ce li abbiano gli angeli. E un sorriso
freddo, adulto, che
gli scopriva denti bianchi e aguzzi, da animale.
La croce che egli stesso aveva
intagliato nel legno era
difesa e simbolo di potere contro il male che infettava il mondo e che,
dopo di
lui, quel figlio inquieto e taciturno, avrebbe portato al collo. Era
sancito
dai Comandamenti che avrebbe dovuto rispettare la volontà di
chi gli aveva dato
la vita. Perché, allora, anziché impiegarlo nella
meditazione delle Scritture,
perdeva il meglio del suo tempo a bighellonare nei bassifondi? Se Dio nega a quegli
animali la sua
misericordia, a che può servirgli la tua inutile
carità, maledetto idiota?
A casa di suo padre non sarebbe
tornato, pensava mentre
vagava senza sapere dove andare. Non ci sarebbero stati demoni da
distruggere,
nel suo domani, ma vite da salvare.
L’angelo vestito di
stracci si era materializzato dal
niente nella nebbia fetida e, a gesti, aveva cercato di attirare la sua
attenzione. Nel tugurio dove viveva, sicuramente qualcuno, malato o
ferito,
aveva bisogno della
sua scienza. O
forse…la miseria
non rende nessuno più
buono. Neanche i bambini.
Il sole doveva essere sorto da un
pezzo, quando si
risvegliò. Gli occhi gli facevano male e qualche goccia di
sangue grumoso si
stava rapprendendo sulla sua gola. Era stato attirato nel
vicolo,
assalito…Ma non per portargli via i vecchi stivali o i pochi
scellini che
tintinnavano nella sua borsa. Era una stata una creatura antica, ad
aggredirlo.
Una creatura antica e affamata.
Esistono davvero. Pensò.
Adesso sono anch’io come loro. E
il suo ultimo barlume di umanità si spense in un lungo
brivido freddo.
Fine
Lalla, 8 novembre 2007
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