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Mors tua vita mea
Philia oramai aveva perso il conto delle
notti in cui dormiva male. Non sognava più ormai, e ogni notte si presentava
quello stesso, identico incubo; e ogni mattina, quasi si stupiva di rivedere
tutte le persone da lei conosciute, poiché quel dannato incubo scorreva così
lento e inesorabile, che le pareva scorressero migliaia di anni. Inoltre, si
stupiva quasi di essere ancora in vita, perché ogni mattina si sentiva come
dilaniata dall’interno.
Ma lei sapeva benissimo di chi fosse la
colpa. Lei sapeva che si trattava di quel demonio, l’aveva capito.
Era da molto tempo che non si mostrava più,
ma l’ultima volta che si erano visti, lui le assicurò, col suo fare spavaldo e
maligno, ma soprattutto ironico, che lei non avrebbe sentito la sua mancanza a
lungo, perchè si sarebbe fatto notare, e Philia sapeva che, nonostante tutto,
Xelloss non mentiva: non diceva mai tutta la verità, e aveva l’abilità di
rigirare i discorsi a suo vantaggio, ma non mentiva quasi mai. Chissà, forse non
lo trovava divertente.
Di fatto mantenne la parola. Ogni sera,
Philia prima di chiudere gli occhi, poteva, non sapendo bene come, vedere per un
attimo, quasi impercettibile, gli occhi di lui. E da lì iniziava l’incubo.
Ogni notte, lei si trovava in una sorta di
labirinto poco illuminato da fiaccole estremamente tenui, e ogni notte, ogni
passo che lei compiva, non poteva fare a meno di soffrire ed essere spaventata,
perché a qualunque direzione lei volgesse la sua attenzione, era sommersa dalle
sue paure e dai suoi rimorsi. Paure e rimorsi che si presentavano sotto forma di
grida, pianti e ghigni malefici.
Eccoli, dunque, pronti a tormentarla ogni
notte: i ricordi.
Ad ogni suono corrispondeva un ricordo, ma
più che altro, veniva tormentata dai suoi ricordi più vivi e predominanti. Ed
ecco, poteva riconoscere tutti i suoi fratelli draghi dorati che venivano
distrutti da uno Xelloss sarcasticamente sorridente e menefreghista; allo stesso
modo riconosceva le grida disperate dei draghi ancestrali che venivano distrutti
dalla sua stessa razza.
Questo incubo andava avanti per ciò che a
lei sembravano secoli, e su tutto regnava, quasi incontrastato, un
impercettibile ghigno soddisfatto, di cui Philia conosceva molto bene il
proprietario.
E lei non riusciva a comprendere. Non
comprendeva perché lui si comportasse così. Lo trovava forse divertente?
Sicuramente sì. Ma perché fare tutto ciò? Perché comportarsi così ora, che si
era separato il gruppo? Xelloss aveva avuto varie opportunità per liberarsi di
lei, ma non lo aveva mai fatto, per cui risultava strano questo comportamento
ora. Poi Philia si rese conto di ciò che stava succedendo. Si rese conto di
provare un estremo rancore nei confronti di Xelloss, una rabbia molto più
potente di quanta non ne avesse provato fino ad ora,e tanta era la rabbia quanto
più era grande il dolore che provava, così capì che in questo momento, lei non
era altro che la cena di quel demone.
Soltanto una notte, ebbe il coraggio di
chiamare Xelloss e di supplicarlo di smetterla, nonostante la sua profonda
convinzione di ricevere come risposta quella solita risata che sentiva durante
quelle notti, oppure di sentire il solito, odioso, "mi dispiace, è un segreto".
Invece, ottenne una risposta. "Sono un demone e come tale sai
bene come sopravvivo. E se la tua sconfitta equivale alla mia vittoria, non
importa. Perché io ho bisogno di te. E anche tu dovresti pensarla così, anche tu dovresti avere bisogno di
me. Perché io sono pura energia negativa, ma tu non sei pura energia positiva."
Phila non riuscì a capire la risposta. O
quantomeno, non volle capirla. Ma forse riuscì a fare il primo passo per
liberarsi da quelle notti di incubo: lo compatì. Perché lui è, e rimarrà, un
demone.
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