Era già passato un mese.
Un mese da quando lui era
scomparso, trenta giorni esatti, settecentoventi ore.
Avrebbe potuto facilmente
calcolare anche i secondi, ma stava cercando di non autocommiserasi
troppo.
Gli altri avevano bisogno
di lei, Percy aveva bisogno di lei.
La presenza costante di
Jason al Campo non faceva altro che ricordarle della situazione in
cui si trovava il suo ragazzo in quel momento e del fatto che avrebbe
dovuto aspettare ancora altri cinque mesi per anche solo sperare di
rivederlo sano e salvo.
Eppure avere il figlio di
Giove lì con loro poteva rivelarsi anche piacevole e
addirittura
divertente a tratti, come quella sera.
Si erano come al solito
riuniti attorno al falò e un ragazzino proveniente dalla
casa di
Ermes aveva insistito a gran voce affinché il romano
raccontasse
loro qualche storia.
In breve alla sua voce si
erano aggiunte quelle di più o meno tutti gli altri ragazzi
del
Campo e Jason si era arreso con un ghigno divertito.
Continuava ad avere
numerosi vuoti di memoria, ma era riuscito a placare la loro
curiosità con una storia sugli antichi legionari.
Aveva
raccontato loro che il verbo “desiderare” derivava
dai desiderantes,
soldati che restavano svegli tutta la notte ad aspettare il ritorno
dei propri compagni sotto le stelle.
Ad
Annabeth sfuggì un sorriso nel ripensare alle espressioni
rapite dei
suoi compagni, poi si accorse di essere arrivata in riva al mare.
Probabilmente
a portarla lì erano stati i ricordi, troppi e dolorosi.
Ricordi
che ormai appartenevano solo a lei.
Scosse
la testa, ricacciando indietro a forza il groppo che le si era
formato in gola, per poi sfilarsi le scarpe e muovere qualche passo
incerto sulla sabbia.
Socchiuse
le palpebre mentre le piante dei piedi le affondavano tra i granelli
che brillavano alla luce della luna, frammenti delle stelle che le
palpitavano tutt'attorno.
Continuò
a camminare finché non arrivò il pizzicore della
spuma a lambirle
le caviglie, quindi si accovacciò sulla battigia umida.
Le
ginocchia, strette contro il petto, erano ruvide per le innumerevoli
sbucciature; quelle più recenti bruciavano ancora, ma lei
non vi
badava.
Come
non badava alle ore di sonno che perdeva ogni giorno, agli incubi,
alla fatica che le appannava la vista dopo il troppo allenamento.
Alzò
il volto verso il cielo per osservare il crepitio di astri che le
danzavano davanti, incuranti del suo dolore.
La
voce di Jason le riecheggiò nella mente e Annabeth si
concesse un
sospiro stanco, che si condensò immediatamente nell'aria
gelida di
fine gennaio.
Le
sembrava quasi di riuscire a sentire l'angoscia di generazioni di
legionari vissuti migliaia di anni prima di lei riverberarsi nel
cielo, carica di speranze in cui nessuno riusciva mai a credere,
attesa e i visi dei compagni con cui sino al giorno prima avevano
condiviso una vita.
Non
era una cosa da poco abituarsi a vivere attraverso gli occhi degli
altri, le loro risate, il ritmo dei loro respiri, per poi vedersene
privati senza il benché minimo preavviso.
Solo
perché una causa all'apparenza più alta li aveva
reclamati per sé.
La
figlia di Atena chiuse i pugni in un moto di rabbia nel pensare a
come Era aveva agito, calpestando senza riguardi il precario ma
splendido equilibrio che lei e Percy si erano conquistati a fatica
dopo la guerra.
Il
mormorio dell'oceano, così simile alla voce del suo ragazzo
quando
le soffiava nelle orecchie parole impacciate e troppo dolci per
entrambi, sembrava volerle tenere compagnia col salire della marea,
mentre l'odore della salsedine le pizzicava gli occhi e le stelle
restavano lontane.
Non
sapeva neanche lei cosa stesse aspettando.
Il suo
animo razionale continuava a ripeterle che Percy non sarebbe emerso
dalle onde come per magia, eppure non riusciva a muoversi da
lì.
Avrebbe
aspettato anche tutta la notte, se necessario.
Avrebbe
aspettato ogni singola notte di quei cinque, interminabili mesi e
alla fine sarebbe riuscita a rivederlo.
Nel
frattempo l'unica cosa che le restava da fare era osservare le stelle
fino a crollare addormentata sulla sabbia, purché le
concedessero di
perdersi nell'oblio dei loro spazi almeno quel poco che le bastava
per poter ricominciare da capo ogni mattina senza di lui.
Si
rese distrattamente conto di aver perso la sensibilità dei
piedi e
delle mani, ma non era abbastanza a calmare la tempesta che le
opprimeva il petto, rischiando di spezzarle le costole una a una.
Non
aveva idea di quanto fosse rimasta lì.
Percy
sarebbe stato in grado di dirle che ore fossero con un solo sguardo
alla posizione delle costellazioni, come un marinaio, e anche lei era
sicura di averlo imparato da Chirone anni prima, eppure una parte di
lei si rifiutava di ragionare.
Come
se avesse avuto paura di scoprirsi troppo vicina all'alba, troppo
vicina alla tregua che le era concessa.
I
legionari romani dovevano sentirsi allo stesso modo, ne era sicura.
Protetti
da una corazza di cicatrici e placche in bronzo e cuoio, provavano il
suo stesso smarrimento man mano che la notte avanzava e i loro
compagni ancora non tornavano.
Continuavano
a desiderare, a cercare di raggiungere le stelle, sino a consumarsi
il cuore.
E poi,
come Annabeth, si lasciavano sconfiggere da un sonno pietoso che
aveva lo sguardo di chi avevano perso.
Yu's corner.
Haloa, miei
cari!
Questa storiella l'avevo in cantiere già da parecchio tempo,
ma ho deciso di pubblicarla ora perché non ne posso
più dell'atmosfera da esamidgkfgald-
Ad ogni modo, il latino fa male.
Percy e Annabeth fanno ancora più male.
Yeeeh!
Spero vi sia piaciuta, in caso contrario avete diritto a un rimborso in
muffin blu. (?)
Bye bye,
Yu.
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