Capitolo I - L'Inizio
1 - La Verità
Sono davanti a questo computer da quasi mezz’ora, ma
quando mi ero seduto non avrei mai immaginato di poter finire
così. Premo di nuovo la freccia a destra, ed è
esattamente la settantasettesima volta che lo faccio ma ora non fa
più male.
Quando ho acceso il pc ho trovato nella casella e-mail
una cartella con duecentoventitre foto accompagnata da queste parole: Penso che sia giusto che tu
sappia, anche se non avresti dovuto saperlo da me.
Cambio ancora foto, perché ho intenzione di vedermele tutte,
non
voglio restare ancora nell’ignoranza. Lo skyline di New York
riempie lo sfondo e per quanto sia un amante di quella meravigliosa
città i miei occhi restano fissi sui due soggetti centrali.
Il
ragazzo ha le mani sui fianchi di una ragazza e la sta guardando dritto
negli occhi, anche se lo sguardo di lei è abbassato con
pudicizia. Premo ancora il tasto e passo alla foto successiva dove le
labbra del ragazzo sono premute sul collo di lei, mentre questa passa
le braccia attorno al suo collo. Non mi fa più male vedere
queste immagini, perché ho stampato sulla retina la foto
numero
cinque, quella che mi ha davvero spezzato, che mi ha fatto dubitare di
tutto il mio mondo.
Non serve nemmeno che torni indietro per
ricordarmela: non c’è più il cielo a
fare da
sfondo, ma uno sgabuzzino dalle pareti gialle, con qualche armadio,
però i soggetti sono gli stessi, solo più
svestiti, anzi
completamente nudi. Potrebbe anche sembrare uno screenshot di un video
soft porn, se non per gli sguardi stupiti, terrorizzati e sconvolti che
fissano la telecamera. La scena è molto semplice: lei
è
spalle al muro, con le braccia attorno al collo di lui e le gambe che
si stringono sulla sua vita, lui invece tiene le mani sul suo sedere e
i bacini si scontrano. Non ho dubbi che prima che fosse stata scattata
la foto i due si stessero muovendo e non ho nemmeno bisogno di
immaginare i suoni che riempivano la stanza, perché li
conosco
fin troppo bene.
Ecco, quella foto era stata quella che mi aveva
bloccato, l’avevo osservata forse per cinque minuti, sperando
che
ogni volta che sbattevo le palpebre i soggetti cambiassero, che non
fosse vero, ma le duecentodiciotto foto successive non mentono.
Mi
sento un vero idiota a pensare che si potesse mantenere una relazione a
distanza, che noi due ce l’avremmo fatta, ma ogni foto che
vedo
è come una voce che mi urla contro che mi prende in giro.
Però so che ascolterò tutto quello che
avrà da
dirmi, so che guarderò ogni immagine lasciando che mi
distrugga
completamente perché me lo merito, mi sento in colpa per
qualcosa che non ho fatto io.
Sono stupido, l’ho detto.
Sento il
telefono che vibra sulla scrivania accanto alla mia mano e vedo il suo
nome sullo schermo, ma non so se rispondere. Per quanto ne sa lui sto
per mettermi a letto e non so nulla della sua serata precedente. Premo
il tasto rispondi e posiziono la chiamata in vivavoce, mi sento
schifato anche
solo all’idea ti tenere in mano qualcosa che mi collega a lui.
-Hey, Olly- la sua voce suona così tranquilla, come se tutto
fosse normale, ma a me sembra di vivere dentro una bolla, dove nulla va
come dovrebbe – come stai?-
Mentre parla cambio ancora foto e questa volta lui ha la camicia aperta
e un piccolo ciondolo nero risalta sulla pelle chiara.
Gliel’ho
regalato io, quando mi aveva aiutato a superare uno dei momenti
più difficili della mia vita, e ora assisteva al crollo di
un
mondo. Ora non ce la faccio più, posso sopportare che non
voglia
stare con me, che si sia stancato di un ragazzo pesante e dalla lingua
lunga, ma vedere quel ciondolo ancora al suo collo mi fa pensare che
voglia fare il doppio gioco e a questo non posso starci.
-Rivoglio la mia collana.- Non aggiungo altro e attacco il telefono,
mettendolo in silenzioso e lo giro, in modo da non vederlo illuminarsi
ancora.
Continuo a guardare le foto ma la mia testa è altrove,
ripenso a
quello che ho passato con lui, tutti i momenti della mia vita che gli
ho dedicato, ossia il tempo che ho sprecato e mi vengono le lacrime
agli occhi.
Era una giornata di metà febbraio a Richmond,
nell’Indiana, la mia meravigliosa città natale, e
io stavo
tornando a casa dopo la scuola. Ero al terzo anno in un istituto
privato che sosteneva fortemente la superiorità dei ragazzi
bianchi di buona famiglia, ma che almeno offriva molti corsi
interessanti e con professori che venivano pagati per le loro
abilità.
Ero rimasto a scuola un po’ più a lungo
del solito, perché, come ogni giorno, cercavo una scusa per
non
dover tornare a casa, entrare nella mia enorme villa vuota e starmene
da solo, così avevo passato quasi due ore nella biblioteca a
studiare inglese. Però sapevo di non poter restare
lì
ancora a lungo o mi avrebbero chiuso fuori, così ero uscito
per
tornarmene, con la maggior calma possibile a casa.
Il cielo era coperto
da delle nuvole grigie e tetre che preannunciavano una brutta serata e
il vento cominciava a soffiare gelido. Mi strinsi nel cappotto, anche
se non mi infastidiva poi tanto l’aria fredda, e comunque i
pantaloni della divisa scolastica non riparavano minimamente le gambe,
che ormai cominciavano a perdere di sensibilità.
Ero tranquillo,
perso tra i miei pensieri come un giorno qualsiasi, ma molto attento al
marciapiede, perché sapevo che il ghiaccio non aveva ancora
avuto modo di sciogliersi, proprio come i cumuli di neve sulle piccole
aiuole erbose accanto. Infatti quando passai accanto ad un albero posai
il piede con molta attenzione a terra, perché mi aspettavo
la
lastra ghiacciata e per fortuna non scivolai, però non fui
così fortunato anche il secondo successivo. Il ragazzo
dietro di
me, di cui non mi ero nemmeno accorto, non prestò la mia
stessa
attenzione al suolo e posò con troppa non curanza il piede a
terra, scivolando pesantemente. Non mi accorsi di nulla, ma poi
ricostruii la dinamica che è questa: il piede del ragazzo
scivolò in avanti, lui per non cadere compensò
portando
il busto verso di me e posando la mano sulla mia spalla, ma non ci
riuscì e scese fino ad aggrapparsi alla mia manica. Io
ovviamente non me l’aspettavo e probabilmente avevo un piede
in
aria, perché persi immediatamente l’equilibrio,
forse ero
ancora sul ghiaccio, questo non l’ho mai scoperto, e finii
per
cadere come un pero in uno dei cumuli di neve. Fu letteralmente una
doccia fredda sul viso e sulle mani, e persino sulla schiena, quando
una manciata di gelo si infilo dentro la camicia, a contatto con la mia
pelle. Farfugliai qualcosa, forse dissi anche, molto poco
elegantemente, qualche parolaccia, ma quando riuscii un minimo a
ritrovare la terra sotto ai piedi alzai lo sguardo per guardare la
causa dei miei mali.
-Oddio! Scusami, non volevo, è che sono scivolato come un
idiota e…-
Il ragazzo agitò le mani cercando di ricostruire la scena,
senza alcun risultato e poi mi porse la mano.
-Ti prego, alzati e dimmi che stai bene…-
Sentendo la disperazione nella sua voce non riuscii a trattenere un
sorriso e presi la sua mano, lasciando che fosse lui a tirarmi in
piedi. Poi cominciò a passare la mano sul mio cappotto,
sulle
maniche e sulla schiena per liberarmi dalla neve che mi copriva.
Continuava a scusarsi e a controllare che non mi fossi fatto male, e
non riuscii davvero a trattenere una risata.
-Tranquillo, non è niente
succede…Solo…- Mi aprii
il cappotto e sfilai la camicia dai pantaloni, passandomi una mano
sulla schiena per far cadere il cumulo di neve che ci si era infilata.
Quando fui apposto alzai lo sguardo sul ragazzo, sorridendo.
-Vedi, non è successo niente?-
Ma il suo sguardo era ancora dubbioso e preoccupato, così
decisi di trovare una soluzione.
-Dai, offrimi un caffè così mi scaldo e
starò benissimo.-
Continuavo a sorridergli, per tranquillizzarlo, perché
più che provare fastidio per il piccolo incidente mi stavo
divertendo a vedere il suo viso torturato dai sensi di colpa per una
cosa da niente. Ma alla mia proposta si illuminò e
annuì.
-Ci sto- disse con entusiasmo, per poi porgermi la mano.
–Comunque dopo averti quasi ucciso dovrei almeno presentarmi,
sono Adam.
Ricambiai la stretta della mano sorridendogli e con un senso di
simpatia e fiducia crescente.
-Io sono Oliver e il piacere è tutto mio.-
Qualcosa mi diceva che quell’incontro particolare fosse solo
l’inizio, e avevo ragione, anche se ora mi pento di aver
offerto
quel caffè.
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