La Fille Danse
… quand elle joue avec moi.
A singer in a smoky room,
A smell of wine and cheap
perfume.
For a smile they can share the
night
It goes on, and on, and on, and
on!
(Journey
– Don’t Stop Believin’)
Look for the girl with the sun
in her eyes and she's gone.
(Beatles
– Lucy In The Sky With
Diamonds)
Oh, did you ever believe that I
could leave you standing out in the
cold?
(Led
Zeppelin – In The Light)
Parigi,
1884, primo giorno di primavera.
Ombre, ghiaia e stridii di
carrozze, le strade di Parigi e il suo tramonto malato, lo scorrere
delle acque
della Senna un lieve sussurro nell’aria. In quelle strade
grigie, niente faceva
pensare che fosse arrivata la primavera, il profumo dei fiori era
scomparso
dietro un pensante tanfo di fogna e muffa. Nessuno sembrava
preoccuparsene, nei
loro completi neri ed eleganti, quando si trattava di nobili signori, o
nei
loro abiti sporchi di fuliggine e petrolio, quando ai bordi delle
strade i
poveri operai e spazzacamini tornavano a casa stanchi e affamati.
Eppure un
barlume di felicità doveva esserci in qualche angolo della
città dell’amore,
nascosta da qualche parte insieme alla primavera. Lui
l’aveva trovata. La sua ombra scivolava indiscreta
tra quella
delle altre anime disperse simili a fantasmi, muovendosi elegante e
spigliata
sotto le sue scarpe di vernice nera tirate a lucido e allungandosi tra
i
ciottoli appuntiti e lerci.
Lo chiamavano l’Anglais, non che fosse il
solo nella
città, ma perché era unico. Col suo fare garbato
e col sorriso sghembo che
nascondeva dietro a labbra perfette, sottili ma ben delineate, aveva
conquistato la faccia felice e viva di Parigi, quella fatta di
prostitute e
bevitori di vino o assenzio, quella degli artisti di strada, di
giocolieri,
maghi e ballerini, di menestrelli innamorati di donne che appartengono
a tutti
tranne che a loro stesse, di poeti e pittori, mendicanti e ladri.
Montmartre, il quartiere del peccato*,
era ormai
casa sua.
Nelle vene de l’Anglais scorreva
nobiltà, buone
maniere e i frammenti di tutte le aspettative che il padre aveva
costruito su
di lui sin dall’infanzia, inculcandogli l’arte del
dovere, del denaro e della
famiglia; il giovane, però, aveva ereditato il cuore di sua
madre, nobile nei
sentimenti e poeta, assetato di libertà. Col nome di Robert
Anthony Plant
arrivò a Parigi e questa lo accolse e lo
ribattezzò l’Inglese.
Lui non aveva un nome, solo un posto di origine e questo
bastava, con quello sguardo blu di malinconia e quel sorriso sempre
pronto a
spuntare, sempre, perché il cuore leggero di un poeta non
può fare a meno del
sorriso. E cantava, ma questo non lo sapeva nessuno. La sua voce era
solo il
mezzo attraverso il quale ciò che gli suggeriva il cuore
raggiungeva l’orecchio
di qualche giovane donna, come quelle che al Chat Noir si sedevano
sulle sue
ginocchia e offrivano il seno ai suoi baci, il collo al solletico che i
suoi
ricci dorati provocavano sulla loro pelle.
Era l’equinozio
di
primavera e lui camminava lungo il Boulevard Rochechouart, diretto
proprio al
Chat Noir, immerso nel suo completo porpora, le mani nelle tasche e una
cravatta nera d’inchiostro che scendeva lungo la camicia
bianca, avvolta in un
gilet bordeaux, i capelli raccolti in una coda bassa ed elegante.
Annoiato si
aggirava in cerca di qualcosa senza sapere cosa fosse, avvertendo
nell’aria il
sentore della novità. Quando arrivò al
caffè presso il quale era cliente
abituale, dovette arrestarsi, il suo orecchio richiamato da una melodia
gitana,
scaturita dalle mani frenetiche di alcuni zingari e le loro chitarre
alle quali
si aggiungeva il suono cristallino di un tamburello. Robert si
voltò, incantato
da quella musica, ma quando si avvicinò incuriosito, rimase
letteralmente
stregato. Una ninfa dolcissima dalle forme gentili, si muoveva leggera
sulla
strada, i lunghi capelli color grano intrecciati intorno al volto e una
rosa
tra di essi, il vestito bianco spezzato solo da una piccola cintura di
raso
rosso in vita, un tamburello tra le mani e un velo bianco tempestato di
sonagli
attorno i fianchi. I piedi nudi sfregavano sulla strada a ritmo di
musica e
vicino ad essi vi era un cappello blu nella quale vi erano pochi spicci.
Robert si
avvicinò ancora
di più, fino a quando tra lui e la giovane non rimase che un
metro di distanza;
guardò i suoi piedi, addolorato. Sembravano gigli
d’oro**, tanto erano martoriati e deformati.
Eppure, lei sorrideva, felice
nella sua danza, sembrava giocare con ogni sguardo di ogni singolo
passante e
di lui che era lì, immobile, a perdersi nei suoi gesti, nei
suoi passi, nel
sole di primavera che lei portava negli occhi. Dopo un po’,
iniziò a frugare
tra le tasche; vi trovò solo sessanta sapeque e li
lasciò tintinnare nel
cappello. Lei si voltò a guardarlo, raggiante, la
gratitudine stampata sul
volto.
Potessi
io stesso accompagnar la sua danza col canto***, pensò il giovane
inglese che fece per andarsene
quando una voce piccola e acuta lo fermò.
- Signore?
Sì
voltò di nuovo verso la
ragazza e la vide togliersi la rosa bianca striata di rosa dai capelli,
per poi
passarsela leggera sulle labbra carnose. Lei gliela porse col
più intenso degli
sguardi, con quegl’occhi che sembravano fiordalisi, e quando
lui aprì le mani
per ricevere il fiore, sfiorò per un attimo la pelle delle
sue mani, fresca e
liscia come seta.
-Forse
che quella che chiamiamo rosa cesserebbe d'avere il suo profumo
se la chiamassimo con altro nome? –
recitò lui, guardandola negli occhi, il
cielo che ammirava il suo riflesso nel mare, prima di baciarle il dorso
di una
mano, avvertendone il profumo, anch’esso di rosa. Poi si
allontanò,
sistemandosi la rosa nell’occhiello, per poi buttarsi nel
locale che già era
pregno dell’odore di tabacco. Le luci soffuse e il fumo,
rendevano sfuocate le
sagome degli uomini seduti ai tavolini; Robert prese il posto al solito
tavolo,
quello vicino alla finestra, ricambiando con un gesto della mano i vari
saluti
che gli arrivavano dai svariati angoli del locale. Sophie, la sua cameriera di fiducia, arrivò
con un
bicchiere vuoto e una bottiglia di vino rosso, ammiccando e sistemando
la lunga
chioma rossiccia.
- Desidera altro,
monsieur?
- Per questa sera no,
Sophie. – rispose lui gentilmente,
il
mento sopra le mani incrociate e i gomiti poggiati sul tavolo.
- Come desidera!
– disse
lei, rammaricata e alquanto delusa, scomparendo nella nuvola di fumo
che
aleggiava nel caffè. Ben presto, anche il fumo della sigaretta
di Robert si
aggiunse a quello degli altri, mentre nell’altra mano
stringeva il calice di
vino rosso. Iniziò a bere, gli occhi fissi su qualcosa oltre
la finestra. Anzi,
qualcuno. La giovine dalla pelle
d’avorio
continuava a muoversi, a ballare, a regalare sorrisi ai passanti. Ogni
tanto
qualche monetina si aggiungeva alle altre, ma Robert notò
con piacere che
nessuno riceveva il regalo più grande. La sua attenzione.
Quella era stata
rivolta solo a lui e nel preciso momento in cui l’uomo si
rese conto di ciò,
una strana sensazione s’impossessò del suo petto.
Strana, ma piacevole.
Continuò a bere, il profumo del vino che si mescolava con
quello della sua
acqua di colonia, ripensando al calore dei suoi denti che si sporgono
tra le
labbra, arrivando alla conclusione che quella zingara sconosciuta era
la
persona che più desiderava al mondo in quel momento.
Quell’aria innocente e
sensuale allo stesso tempo, quel modo di ballare a metà
strada tra il piacere e
il dolore erano qualcosa d’irresistibile.
Le ore passarono veloci,
si succedevano senza che lui se ne accorgesse, fino a quando lei e i
suoi
compagni non raccolsero le loro cose per andarsene. Fu allora, che dopo
aver
rifiutato le attenzioni di tutte le ballerine del Chat Noir, si
alzò dal tavolo
e uscì in strada, dove l’unica luce oltre quella
dei lampioni, era quella delle
stelle. La inseguì, scalciando di tanto in tanto una pietra,
fin quando lei non
si accorse della sua presenza. Si voltò, il rumore della
gonna che strisciava
sulla ghiaia e quello dei sonagli sui fianchi ruppero il silenzio, e
così restò
ferma, la sua silhouette che si stagliava contro la luce calda di un
lampione.
Quando le fu vicino, Robert si mise di fronte a lei, cercando il suo
sguardo;
lo trovò innocente e infuocato come poche ore prima,
attraversato da un alone
di mistero, forse quello che accompagna i nomadi, che ormai hanno
conosciuto il
mondo e ne custodiscono i segreti.
-
Buonasera! –
sussurrò lei,
abbozzando un sorriso.
Robert allungò
una mano
sui suoi fianchi e lei abbassò la testa per seguirlo con lo
sguardo; con un
gesto, le slacciò il velo dai fianchi, facendolo tintinnare
nel silenzio della
strada, e lo passò dietro la sua nuca, tirando le
estremità sulle sue guance.
Lentamente l’avvicinò, respirando a pieni polmoni
il profumo delle sue guance,
un misto tra sapone di Marsiglia e rosa, il respiro di lei che si
scontrava sul
suo collo, appena sopra il colletto della camicia.
- Buonasera. –
sussurrò lui,
prima di avvicinare le proprie labbra a quelle di lei, sfregandole
delicatamente, i loro nasi che si scontravano dolcemente. Ben presto
scattò una
scintilla e la lingua di Robert superò la barriera delle
labbra di lei,
prendendo confidenza con la sua bocca, col suo sapore.
Fu lei a interrompere il
momento, prendendolo per mano.
- Andiamo.
- Dove?
- Seguitemi.
***
Il prato sembrava
ricoperto d’argento così come la superficie della
Senna, entrambi attraversati
dal fascio lunare. La giovane guidava Robert nel piccolo giardino
abbandonato,
dove dominava un profumo di rose, viole e gelsomino. Quando furono
vicina alla
riva si baciarono di nuovo, le braccia di lei allacciate al suo collo,
quelle
di lui sotto il suo mento, i pollici sulle guance. Il velo le
scivolò dalle
spalle, suonando argentino tra l’erba, mentre le lunghe dita
di lui scivolavano
sulle braccia, provocandole la pelle d’oca, mentre lei
iniziava a spogliarlo.
Giacca, gilet e camicia raggiunsero il velo di lei, ai loro piedi,
lasciando il
petto di lui esposto ai raggi lunari, dandogli un che di marmoreo. Lei
lo guardò
sorpresa e compiaciuta, ammirandolo con un sorriso, prima di portare le
dita
esili dietro il suo collo per sciogliergli i capelli, i quali ricaddero
in
avanti, liberando un piacevole profumo di vaniglia.
- Da dove vieni?
– chiese lui,
iniziando a baciarle il collo e abbassando le spalline del candido
vestito di
lei.
- Da tutti i posti e
nessuno. – rispose lei, buttando il collo indietro, mentre
lui accoglieva i
suoi seni tra le mani. Sembravano fatti apposta per riempigli i palmi,
così
piccoli e sodi, ma perfetti, da buttarci la bocca, proprio come stava
facendo
lui, strappandole qualche piccolo gemito acuto.
- Lei da dove viene,
Signore?
- Da Londra. La grigia e
fredda Londra. – rispose lui, abbassandole completamente il
vestito,
lasciandola nuda, avvolta solo dalla brezza di mezzanotte. Gli porse
una mano e
l’aiutò a scansare il vestito, prima di
accompagnarla sotto un albero di
gelsomino. Ne colse alcuni steli, per poi intrecciarli perfettamente
nei
capelli lisci e setosi di lei, prima di spingerla ai piedi del tronco,
facendole poggiare delicatamente la schiena sull’erba umida.
Poi la sovrastò e
lei lo aiutò a liberarsi dei pantaloni, i quali raggiunsero
subito gli altri
indumenti, prima che si distendesse su lei che sembrava essersi fatta
piccolissima rispetto a lui così imponente e virile. Robert
affondò il naso tra
i capelli di lei, aumentando il proprio piacere inebriandosi le narici
del
profumo di gelsomino.
- Un
profumo e un odore d'eternità – prese a
sussurrare, come immerso
in una visione, in completa estasi - un
odore di vino dorato, bronzeo, un odore soave di rose, di antica
felicità. Di
ebbra felicità di morire a mezzanotte, felicità
che canta: il mondo è profondo
e più profondo di quanto il giorno pensasse!
- Che
cos’è, mio Signore? –
chiese lei, tremando sotto le sue mani che la esploravano avide.
- Nietzsche.
- Un poeta? –
domandò
ancora.
- No, un sognatore. Forse
un folle. – disse lui, baciandole il ventre – Hai
mai incontrato un poeta?
- Voi!
- Come fai a saperlo?
–
sorrise Robert, baciandole le gambe sottili e toniche.
- Me l’hanno
detto i
vostri occhi. Puliti, sinceri, ma profondi. Baciate come un dio,
parlate come un
poeta.
- Dammi del tu, piccola
dea. Siamo così vicini, a che serve tenersi distanti con le
parole? Chiamami
Robert, questo è il mio nome. Rendetelo una preghiera!
– disse, prima d’insinuarsi
tra le pieghe del suo desiderio, assaporandolo, mangiandone e
saziandosene. La
ragazzina prese a tremare, il piacere la rendeva schiava e padrona allo
stesso
tempo, poiché Robert non riusciva più staccarsi
dalla sua carne così dolce e
fresca, avvertendo l’imminente desiderio di farne parte, di
congiungersi,
incoraggiato dalla voce di lei che lo invocava.
Accolse la sua preghiera,
lasciandosi accogliere dalla sua rosa costellata di rugiada, tra gemiti
rochi e
prolungati. Lei chiuse gli occhi, sospirando pesantemente, stringendo
tra le
dita sottili i fili d’erba sotto di lei.
- Come ti chiami, mia
dolce rosa? – chiese lui, annaspando.
- Aimée.
- Dici sul serio?
- Sì. Mi chiamo
così! –
sorrise lei, stringendo le spalle di lui con le mani, come per
aggrapparsi ad
una roccia.
- Mon
Aimée. – sussurrò lui,
spingendosi sempre di più dentro di lei –
La mia dolce amata.
Ormai erano una cosa sola,
mentre Robert spingeva in lei con trasporto, il cuore che gli
martellava nella
gola, mentre sotto di lui Aimée si arcuava contro il suo
ventre, la schiena
umida di rugiada. Quando raggiunsero l’apice, volsero le loro
urla al cielo, le
bocche socchiuse e gli occhi serrati, i muscoli tesi e scossi dal
piacere.
Robert si
accasciò su di
lei, le labbra vicine alla sua guancia e gli occhi che cedevano al
sonno.
- Aimée
– riuscì a dire – La
mia primavera…
***
All’alba, gli
occhi di
Robert si socchiusero pigramente, le sue labbra vicinissime a quelle di
lei.
Era bellissima, proprio come la sera prima. Pensò di
svegliarla, così avvicinò
la bocca al suo orecchio.
- This is the springtime of my
loving, the second season I am to
know.
Aimée si
svegliò,
concedendogli quel sorriso che per una notte li aveva uniti sotto un
tetto di
gelsomino.
- Oh, cantate mio signore.
– disse, portandogli una ciocca di capelli dietro
l’orecchio.
-
Sì mia signora. – disse lui, puntellandosi su un
gomito - You are the sunlight in my growing. So
little
warmth I've felt before. Riesci a
capirmi, mia amata?
- No mio signore.
– disse rammaricata
– Ma avete una voce così soave, una
così tale dolcezza, che mi sembra
impossibile credere che mi stiate offendendo.
- Oh, no mia signora.
–
disse lui, baciandole dolcemente le labbra – Mio amore.
Queste parole le
tradurrò, per te.
- E io le
porterò tra i
miei passi da nomade e in quelli di danzatrice, mio bellissimo signore.
Si sorrisero, le parole
erano finite e l’alba stava risvegliando Parigi,
illuminandola col tiepido sole
di primavera.
Note:
* sono le parole che in Moulin Rouge
pronuncia il padre di Christian.
** i gigli d'oro sono una tradizione delle donne
cinesi, ma non ve la
spiego perché è davvero cruenta. Se volete sapere
di cosa si tratta, cercate Loto
d'oro oppure Gigli
d'oro.
*** sono parole tratte da Così Parlò
Zarathustra.
Angolo della pazza:
Salve! :D
Non riesco a stare lontana da questo fandom, anche perché
avevo in mente questa
OS da un sacco di tempo.
Niente, ringrazio come sempre Ire, che ha saputo con largo anticipo di
questa
storiella sgangherata.
Il titolo è ispirato a una canzone di Damien Rice.
Un abbraccio,
Franny
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