La madre che avevo.

di Demone
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L’acqua ticchettava sul tetto, producendo un rumore che a Dubbhe sarebbe piaciuto molto. Sembrava una musica. Continui ticchettii che, come una ninna nanna, la più dolce fra le canzoni, l’avrebbero accompagnata nel dolce sonno che contraddistingue i bambini.
Ma Dubhe non c’era, Dubhe non era lì. Probabilmente quella bambina che aveva solo voglia di giocare e di vivere, quella bambina che sorrideva e rideva, quella bambina che non ubbidiva, quella bambina che rideva, era morta. Era morta per una colpa che non era sua. Un solo incidente, pochi secondi, e tutta la vita che Melna aveva costruito, andava a pezzi.
Dubhe, durante un gioco, aveva ucciso il suo amico Gornar. La notizia aveva distrutto tutti. Un omicidio, compiuto da una bambina per di più! Melna era sicura che tutta quell’orrenda faccenda si sarebbe risolta con qualche pettegolezzo, qualche chiacchiera sussurrata. Dubhe era forte, sarebbe riuscita a superare ogni cosa e quella giornata di estate sarebbe diventata solo un triste ricordo, nulla in più.
Invece nessuno aveva rispettato il dolore della sua famiglia. Le avevano strappato la bambina dalle braccia, avevano rinchiuso suo marito. Aveva ucciso la sua famiglia. L’ultimo ricordo che avrebbe avuto di sua figlia era quello di una bambina di otto anni che urlava e scalciava, piangendo, mentre urlava? Non la avrebbe più rivista?
No. Non l’avrebbe più rivista perché l’avevano uccisa. L’avevano abbandonata, da sola, in chissà quale luogo. Dubhe era morta. Melna lo sapeva, era una sensazione di vuoto nel petto.  Gorni probabilmente l’aveva seguita nella tomba.
Ed ora lei era rimasta sola. La gente per il villaggio la additava, si scansavano quando camminava, bisbigliavano al suo passaggio. Alcuni provavano pena per lei. La maggior parte non capiva. Lei era solo la madre dell’assassina e gli sguardi della famiglia di Gornar pieni di odio glielo ricordavano ogni attimo, ogni secondo.
Ogni pietra, ogni pianta, ogni angolo gli ricordava Dubhe. Correva sempre per quella via. Quello era il muretto da cui era caduta da piccola. Quella era la sua pianta preferita. Quello era il suo nascondiglio preferito.
Dentro casa non era meglio. Alcune volte aveva l’impressione di sentire ancora la sua risata. In quei casi si girava di scatto, aspettando di vederla lì, seduta al tavolo, con i piedi a penzoloni e le verdure fra le mani. Oppure aveva l’impressione di sentirla giocare con quegli animali che a lei facevano tanto ribrezzo. Ma la verità era che Dubhe non faceva più parte di quel villaggio ed ora neanche lei.
Partì dalla soffitta, dove Dubhe si era rintanata per giorni dopo la morte di Gornar. I suoi passi la portarono nella sua stanza. Sul letto le sembrava di vedere ancora il contorno del corpo di suo marito. La stanza di Dubhe era rimasta invariata. Era come sempre, come quando era stata portata via con la forza. Chiuse la porta alle sue spalle.
Chiuse un capitolo della sua via.
Avvolta in un mantello da viaggio, camminava lentamente per le vie di selva. Con lei solo due bagagli. Tutta la sua vita. Uscì fuori dal villaggio e rimase immobile ad osservare la palizzata che ogni secondo si scuriva sempre di più. Sul suo volto le lacrime si confondevano con la pioggia.
Fu così che Melna abbandonò Selva. 




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