- Chi vuole seppellire in quella
fossa?- chiese il vecchio Carter, accompagnando la frase con un risolino
nervoso, tentando di buttarla sul ridere.
L’uomo si trovava davanti a lui, in
mezzo alla radura. In mano teneva una vanga.
- Chi vuole seppellire in quella
fossa?- rise, figurarsi se voleva seppellire qualcuno.
- Oh, purtroppo, mentre stavo
andando con l’auto per la strada qua vicino, un cerbiatto mi ha tagliato la
strada. L’ho tirato sotto.- Rispose l’uomo. Il suo tono era pacato, forse
leggermente impregnato della stessa ironia che si leggeva nei suoi occhi.
- Mio Dio! È morto?- domandò
Carter, con sincera preoccupazione.
- Stecchito.-
- E lei sta bene?-
- Certo, solo un po’ di sangue sul
cofano.- rispose lui con una risata nervosa quanto fuori luogo. Poi continuò:
- Sono pericolose, queste bestie.
Da quando non ci sono più predatori si moltiplicano come conigli. E quando meno
te lo aspetti, te ne ritrovi uno spiaccicato sul cofano.- Mentre parlava,
l’uomo affondò qualche altra volta la sua vanga nel terreno, con rinnovato
vigore. Carter, si grattò la testa, rifletté, rispose:
- Ma in fondo cosa vuole farci?
Sono solo delle povere bestie.-
- Ucciderle. È una buona soluzione,
e anche facile da farsi.-
Carter si scandalizzò:
- Ma che dice! Non si può fare una
strage di animali solo perché causano di tanto in tanto qualche incidente!-
L’uomo sembrava aver finito di
scavare. Buttò la pala fuori dalla fossa, e si issò lentamente in superficie.
Rispose, come al solito, con un mezzo sorriso stampato in volto:
- Alcuni incidenti sono mortali.
Vuole dire che alla fine è meglio un uomo morto che cento cerbiatti stecchiti?-
La domanda lasciò il vecchio Carter
in imbarazzo. Balbettò qualche parola di risposta:
- No, non intendevo quello. Dicevo
soltanto che ucciderli non è la cosa migliore. In fondo sono anche loro esseri
viventi. O no?-
L’uomo si frugò nella tasca
sinistra, estraendo dopo una calma ricerca un pacchetto di Pall
Mall. E, dopo aver tratto un lungo sospiro, disse
infine:
- Voglio dirle una cosa. Conosco
uomini che vivono come animali.- si frugò nella tasca destra, ed estrasse un
accendino, con cui subito diede fuoco alla sigaretta - ma animali che vivono
come un essere umano, non li ho mai visti. Se mi vuole scusare, ora lo
seppellisco. Con permesso.- detto ciò, si incamminò verso la macchina. Il
vecchio, dopo un attimo di indecisione, chiese:
- Ah. Signore! Posso vederlo? Il
cerbiatto, intendo.- pronunciò la domanda timidamente, a bassa voce, quasi vergognandosene. L’uomo
aspirò una boccata di fumo, quindi la soffiò fuori lentamente. Carter si chiese
se non stesse prendendo tempo, se non si stesse inventando una qualche scusa.
Ma alla fine, l’uomo rispose:
- E perché? Le piacciono i
cadaveri?-
Ancora ironia fuori luogo. Carter
provo quasi schifo.
- No, ma cosa dice? È solo per curiosità.-
Farfugliò il vecchio, imbarazzato.
- Se le fa piacere vederlo, si
accomodi. Ma non è un bello spettacolo, sa? Gli ho schiacciato il cranio con
una ruota. Le ossa del cranio hanno lacerato il cervello, c’è tutta la roba
grigia che esce fuori come un tubetto di dentifricio strizzato.-
- Ho capito, lasci stare. Fa
niente. Arrivederci.- Carter si morse la lingua: stava balbettando. L’uomo si
limitò a salutarlo con un cenno, e poi sparì oltre la boscaglia.
Pochi minuti più tardi, Carter era
di nuovo sulla via di casa. Incontrare quell'uomo gli era sembrato strano,
sgradevole: era stato come aver guardato dentro un pozzo troppo profondo. Un
abisso di cui non si riesce a vedere il fondo.
“Fantastichi troppo, vecchio scemo.
Era un uomo, non il diavolo. Era solo un uomo.”
***
L’ultima palata di terra, intanto,
si era appena posata sulla buca, ormai interamente ricoperta. L’uomo vi pestò
sopra con i piedi, e constatò con piacere che era bella compatta: aveva fatto
un buon lavoro. Lasciò cadere a terra il mozzicone della sigaretta, quindi si
lasciò alle spalle la fossa appena riempita.
- Un altro cerbiatto morto.-
borbottò tra se, mentre ritornava alla sua macchina. Pochi minuti dopo, la
portiera della sua auto si chiudeva, la chiave si girava nella toppa d’accensione,
il motore riprendeva a funzionare, e la Desoto abbandonava quel
luogo.
***
La macchina della polizia
parcheggiò esattamente nel posto dal quale la Desoto se ne era andata
due giorni prima. La chiave venne girata, il motore si spense, le portiere si
aprirono, e uscirono due rappresentanti della polizia dello stato. Erano due
bianchi, sudaticci, con la divisa in disordine: stavano continuando una
discussione già iniziata da tempo:
- Quindi eravamo d’accordo. Io
stavo in auto, e lo aspettavo, mentre lui entrava nel bar e parlava al
colombiano. Io gli dico dieci minuti, non di più, e lui okay. Se non fosse
uscito entro il tempo stabilito, allora davo il segnale e facevo irruzione
insieme all’altra pattuglia.- Diceva il primo, alto, occhiali scuri.
- Ah, non eravate solo voi allora.-
il secondo era più basso, più grasso, più sudato. Quando non parlava continuava
a lisciarsi i suoi due scarni baffi castani.
- No, no, non te l’avevo detto?
C’erano anche quegli altri due, quegli altri due nuovi. MacCall
e… come si chiamava l’altro?-
- Parson,
mi pare che fosse Par…- la frase dell’altro agente
venne troncata dal collega:
- Smith! Era Smith, e dire che è
pure facile da ricordare.-
- Ma no, che dici? Con MacCall c’era Parson, erano amici
quei due.-
- MacCall
stava con Smith, non dire cazzate!-
- Guarda che ti sbagli.-
- Cazzate.-
Quello coi baffi sospirò. Sembrava
l’ultimo sospiro di una lunga serie.
- Fa niente, lascia stare. Dove?-
- Il sentiero per la casa del
vecchio dovrebbe essere quello. Andiamo.-
I due imboccarono la stradina
sterrata, mentre il poliziotto con gli occhiali continuò a raccontare:
- Allora, dicevo, lui entra, e io
sono calmo. Mi accendo una sigaretta e aspetto. Passano cinque minuti, e me ne
accendo un’altra. Inizio a preoccuparmi: a quell’ora avrebbe dovuto già essere
di ritorno.-
- Oddio, lo avevano ammazzato?-
- Cosa? No, no, magari. Ma fammi
andare avanti.-
- “Magari”?-
- Come?-
- Hai detto “magari”, che
intendevi?-
- Aspetta, ora ci arrivo! Dicevo,
lui non si vede più. Io ho finito le sigarette, e inizio davvero a diventare
nervoso. Undici minuti. Porca vacca, dico io, ora mi tocca davvero fare
irruzione in un bar in cui un intero cartello colombiano si sta facendo il
bicchierino della staffa. E lo sto per fare, quando lui, il coglione, esce,
tutto tranquillo. Io con lui non ci avevo mai lavorato, pensavo sapesse il
fatto suo, no?-
- Certo, lo pensavo anch’io. E
invece?-
- E Invece, quel cazzone, mi dice: Martinez non
c’era. Sono andato un attimo in bagno. Ti eri preoccupato?-
L’agente con i baffetti emise una
sonora risata:
- Ma dai, dici sul serio? Non ci
credo!-
- Credici, amico, gli era scappato
da cagare. Non mi ci far pensare, mi viene voglia di ucciderlo ogni volta che
ci penso.- Il poliziotto con i baffi continuò a ridere di gusto, finché i due
non arrivarono a destinazione: la baita si trovava davanti a loro.
- Chi bussa?-
- Lascia, faccio io.- Quello con gli occhiali si avvicinò all’uscio, e vi
bussò sopra tre volte, in rapida successione. Gli agenti sentirono dei passetti
concitati dall’altra parte, di qualcuno che si avvicinava per aprirgli. Il
signor Carter si affacciò alla soglia:
- Agente?- lo chiese come a dire “desidera?”
Ma risultò più simile a un “cosa ci fa qua?”
- Lei è il signor Theodore Carter?- chiese quello con gli occhiali.
- Si sono io. Cosa succede?- disse il
vecchio, irrigidendosi.
- Stia tranquillo, non siamo qui
mica per arrestarla!- disse con una delle sue solite risate quello con i baffi.
– Dobbiamo solo farle alcune domande. Nei dintorni, ha notato qualche movimento
sospetto, negli ultimi giorni?-
Il vecchio si grattò la testa:
- Dunque, lasciatemi pensare. Qui
non passa molta gente... Eh, che stupido sono, l’altro ieri! È arrivato un uomo
che non avevo mai visto prima in vita mia.-
- Può dirci di chi si trattava, per
favore?-
- Certamente, non ho… non ho nulla da nascondere.- Carter ridacchiò mentre
pronunciava quelle parole.
Il signor Carter quella mattina stava
trascinandosi per il bosco intorno alla sua baita, impegnato nella sua
passeggiata di routine consigliatagli dal medico. Sua moglie aveva scelto quel
luogo come meta delle loro vacanze per la sua quiete e per il suo isolamento.
E, in effetti, quel posto era rimasto isolato almeno fino a vent’anni prima:
poi il governatore aveva ben pensato di violentare quell’eden con un po’ del
buon vecchio progresso. Ora, la grigia colonna vertebrale della strada statale
si snodava lungo le colline, raramente interrompendo il cinguettio degli
uccelli con il rombo di un motore. Nonostante la statale fosse lì, sembrava che
le auto la snobbassero per altre strade, dirette verso altre destinazioni,
lasciando il suo asfalto ad una lentissima agonia sotto le ruote di camioncini fatiscenti
in transito verso il paese più vicino, che per inciso distava almeno trenta
miglia.
Durante il periodo estivo, il
signor Carter non riusciva più a chiamarle vacanze da quando era iniziata la
pensione, rimaneva la maggior parte del tempo da solo, con un qualche libro
aperto davanti, più spesso dormendo che leggendo, e sperando che qualche faccia
nuova si facesse viva per rompere la fastidiosa quiete tutt’intorno a lui:
esattamente il contrario di quello che desiderava la signora Carter, che
borbottava ogni volta che qualcosa di soltanto vagamente umano proiettava la
sua ombra all’orizzonte.
Quella giorno il signor Carter aveva
visto una vecchia Desoto parcheggiata al limitare
della strada, e aveva sorriso. Pochi si fermavano da quelle parti: l’ultima
volta erano stati una giovane coppia, con il figlio che doveva fare pipì. Il
vecchio si era avvicinato all’auto e aveva a lungo rimirato l’imbottitura dei
sedili e i cerchioni, e guardando il cofano si era immaginato il motore.
Sembrava ferma già da un po’ di tempo, era del tutto fredda. I suoi occupanti non sembravano nei paraggi.
Dovevano essersi inoltrati nel bosco, e dato che c’erano solo due sentieri che
conducevano in quello spiazzo, e Carter non aveva visto nessuno mentre veniva
lì, imboccò subito il secondo, speranzoso di potersi fare una bella
chiacchierata prima di pranzo.
Non ci era voluto molto tempo prima
di poter chiaramente distinguere, poco distante dal sentiero che stava
percorrendo, il rumore di un attrezzo metallico che affondava ritmicamente nel
terreno. Incuriosito, Carter si era addentrato nella boscaglia seguendo il
rumore che si faceva sempre più vicino, fino a che non era riuscito a vedere di
cosa si trattava.
L’uomo stava scavando una fossa,
abbastanza larga perché qualcuno potesse sdraiarcisi dentro.
Carter si era domandato in cosa
fosse incappato, e stava giusto per iniziare a formulare qualche congettura a
proposito quando si accorse che l’uomo aveva posato la vanga, e lo stava fissando.
I suoi occhi erano spenti, privi di gioia. E questo era strano, dato che le sue
labbra erano contratte in un sorriso storto. Improvvisamente Carter si era
sentito a disagio. Aveva farfugliato un saluto, per spezzare l’imbarazzo, e
poco dopo la curiosità gli aveva tirato fuori di bocca quella domanda. Chi
vuole seppellire?
-Era un tipo. strano, il modo in
cui parlava...- si bloccò. L’immagine dell’abisso gli si ripresentò davanti. -
No. Lasciate stare. Guidava una Desoto bianca, una
bella macchina. Però aveva appena investito un cerbiatto, sulla strada. Io l’ho
incontrato mentre lo seppelliva.- disse Carter agli agenti.
- Un cerbiatto?- i due agenti si
guardarono l’un l’altro, con un’espressione che quasi poteva dirsi soddisfatta.
Quello con gli occhiali riprese a parlare:
- E l’ha visto, il corpo di questo
cerbiatto?-
- No, non l’ho visto. perché, è
importante?- chiese incuriosito Carter. Subito vide sul volto dei poliziotti
apparire un sorriso strano, compiaciuto e infelice allo stesso tempo.
- Bingo.- fece quello coi baffi.
***
Carter sentì di nuovo la pala
affondare nel terreno, come due giorni prima. La buca scavata da quell’uomo
misterioso, stava venendo riaperta, mentre ai sui lati si ammonticchiava
lentamente la terra soffice della radura.
- Sigaretta?- gli chiese l’agente
con gli occhiali, tendendogliene una. Era seduto su di una sasso, lasciando il
collega scavare con l’unica pala che erano riusciti a procurarsi. Il vecchio
scosse la testa, senza distogliere un attimo lo sguardo dalla buca che, una
vangata dopo l’altra, si svuotava lentamente. E più si svuotava, più Carter
capiva che non avrebbero trovato un cerbiatto la sotto. Il suo contenuto era
incomprensibile, come i pensieri dell’uomo che l’aveva scavata.
La pala si fermò. Si immobilizzò
con un rumore strano, mai sentito, eppure subito riconosciuto per quello che
era. Il poliziotto emise un gemito, e alzò con un rapido gesto la vanga: la
punta era tinta di un rosso vivo, mischiato alla terra fresca.
- Ralph! Credo che ci siamo.-
balbettò.
L’agente con gli occhiali buttò a
terra la sigaretta, e la calpestò con forza. Con due rapidi, larghi passi si
buttò nella buca. Iniziò subito a raspare con le mani sul fondo, spostando il
terriccio dal cadavere. Era di qualche giorno, sembrava. I primi vermi lo
stavano giusto iniziando ad intaccare. Carter si avvicinò timidamente alla
fossa, per osservare meglio.
- Cazzo!- esclamò poi
improvvisamente Ralph. Ora il cadavere era chiaramente visibile, agli occhi di
tutti i presenti. Ed era il corpo senza vita di un cerbiatto, con la scatola
cranica sfondata.
- Che razza di granchio!- disse il
poliziotto con i baffi, grattandosi la testa con un’espressione a metà strada
tra il deluso e l’imbarazzato. Ralph si alzò da terra, afferrò la pala e la
buttò contro il suo collega:
- Ricoprilo. Inizia a puzzare.-
Issatosi al di fuori della fossa, si rivolse a Carter, mentre si infilava di
nuovo gli occhiali da sole:
- Sembra che la fortuna non sia
dalla nostra parte. Comunque avrebbe dovuto avvertire un’autorità forestale,
riguardo al cerbiatto, lo sa?- disse poi, come per ostentare che sapeva fare il
suo lavoro.
- Sì. Mi scusi. Non ci avevo
pensato.- balbettò Carter. – Davvero.-
***
Il ristorante non spiccava
particolarmente, era un locale come tanti, l’ennesimo locale lungo
l’autostrada, in cui la gente entrava e usciva una sola volta nella vita. Il
suo interno era illuminato abbondantemente, nonostante vi fosse davvero ben
poco su cui valesse la pena far luce. Solo qualche tavolo sporco, con qualche
avventore ritardatario che raccoglieva gli ultimi rimasugli di bistecca e
patate dal proprio piatto.
Angelo era appena arrivato: dopo
aver parcheggiato la Desoto lì vicino, era entrato, e quindi
aveva ordinato una bistecca e una birra. E la suo ordinazione era appena
arrivata, quando sentì il cellulare squillargli nella tasca della giacca. Lo
afferrò pigramente, quasi nella speranza che se lo avesse lasciato squillare
abbastanza a lungo alla fine avrebbe smesso, lasciandolo in pace. Ma quando lo
ebbe portato all’orecchio, il telefono continuava imperterrito a trillare.
Rispose:
- Pronto?-
- Ciao bello, sono io, Steve.-
- Ehi, Steve, è un piacere
sentirti. Lavoro?- Angelo non aveva voglia di chiacchierare, e nessuno lo avrebbe
chiamato solo per fare due chiacchiere.
- Sì. Dove ti trovi ora?-
- Un ristorante, sulla strada per
tornare a casa. Ero in campagna per un altro impiego, ma ho appena finito.-
- Ottimo, torna in città appena
puoi. Ti va se ti spiego tutto nei dettagli domani a pranzo, che ne so, al
“Golden Tower”?-
- Mi sta bene. Riguardati,
vecchio.-
- Stammi bene, figliolo.- e
riattaccò. Angelo riprese in mano le sue posate, intenzionato a finire la cena
il prima possibile. “Torna in città”, gli aveva detto. Angelo sorrise, come
aveva sorriso a Carter molte ore prima. Si tornava in città. Tagliò la bistecca
a metà, con un movimento veloce e nervoso.
***
Carter era a letto, ma non riusciva
a dormire. L’immagine della fossa era continuamente davanti ai suoi occhi. La
vedeva piena, vuota, poi di nuovo riempita, poi ancora svuotata. Era un po’
come il passare delle stagioni, un albero che perde le foglie e poi le
riacquista a primavera.
Pensava al suo fondo incomprensibile,
al suo contenuto. Un cerbiatto investito da un’auto: un errore, una distrazione
umana, un animale morto. Eppure, era inquieto. Era come la paura di un buio
diffuso, spezzato da non abbastanza luce. Una
realtà parziale.
Carter sentì le palpebre farsi
pesanti: era tardi, era stanco. Chiuse gli occhi, e i pensieri iniziarono a
confondersi. E tra la veglia e il sonno un’immagine sfuocata occupò la sua
mente. Era come guardare al cinema una vecchia pellicola graffiata. Vedeva se
stesso, che si allontanava dalla radura. E poi quell’uomo, che tornava dentro
la fossa, e che ricominciava a scavare, a scavare una buca più profonda. Una
buca in cui un uomo potesse giacere insieme ad un cerbiatto.