Come quella volta, quando catturai le fiamme di Dominil (/viewuser.php?uid=49959)
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Come quella volta, quando
catturai le fiamme
Quando ti ho rivisto per la prima volta dopo tutto quel tempo, quando
ti ho rincontrato seduto al tavolino di un bar con in mano il tuo
bicchiere di caffe fumante, ho deglutito.
Sì,
ho deglutito forte, mi sono fermato in mezzo al marcipiede esattamente
di fronte a te – ero solo troppo lontano perché tu
avessi potuto vedermi – e poi mi sono guardato intorno. Non
c'era nessuno in quel momento che mi impediva di guardarti mentre
puntavi i tuoi occhi oltre il semaforo poco lontano, mentre ti grattavi
il naso per la centesima volta nell'ultimo minuto e quando poi infine
hai tirato fuori il telefono dalla tasca dei pantaloni e sei scoppiato
a ridere.
Mi
dispiaceva non riuscire a vedere bene i tuoi occhi, da quella
posizione, poterli solo immaginare sorridere anche loro insieme alle
tue labbra. È stato questo a spingermi ad avvicinarmi, a
sedermi al tuo tavolo e a salutarti come se tutti quegli anni di
silenzi in realtà non c'erano mai stati rivelandosi solo un
fottuto incubo nella mia testa.
E
per un attimo ci ho sperato, ho sperato davvero che fosse andata
così; ma tu non mi hai sorriso, quando mi hai visto prendere
posto al tuo fianco anzi, sei sobbalzato e i tuoi capelli hanno seguito
il fremito del tuo corpo e alcuni ciuffi ti hanno coperto il viso.
Forse
per un attimo non mi avevi riconosciuto, poi però hai capito.
Il
fatto che tu non abbia detto niente per i primi minuti mi ha permesso
di rilassarmi, significava che avessi intuito che volevo solo vederti
più da vicino, ricordare i tratti somatici del tuo viso che
avevano iniziato a scemare; mi sono spaventato la prima volta che mi
sono reso conto di non ricordare più bene quale fosse la
forma delle tue sopracciglia e delle tue labbra. Avevi capito e mi hai
lasciato fare, come d'altronde avevi sempre fatto, così mi
sono sistemato meglio sulla sedia ed ordinato anch'io un
caffè, sperando nel frattempo di trovare le parole giuste
per iniziare una conversazione.
Forse
non ce n'era bisogno, forse sarebbe stato meglio rimanere in silenzio a
guardarci.
“Ti
sei tagliato i capelli.” hai esordito, facendo una smorfia
che non riesco tutt'ora a decifrare. Sembrava quasi che fossi
dispiaciuto, come se ti avesse dato fastidio il mio nuovo taglio.
Io
non ho detto niente, mi sono solo accarezzato la nuca col palmo della
mano e ho rabbrividito quando non ho sentito i miei improponibili
capelli lunghi sotto le dita. Magari anche tu ti sei ricordato di tutte
quelle volte che, distesi in due in una cuccetta del tour bus, annodavi
ciocche intere facendomi borbottare per ore.
La
verità è che mi piaceva quando lo facevi,
sembravamo una schifosa
coppietta di maritini felici; era bello sentirsi parte di qualcosa di speciale.
Non
te l'ho detto neanche adesso, non aveva senso dirtelo dopo tutto quel
tempo e alla fine me lo sono tenuto per me, tanto ormai i capelli
lunghi non li ho nemmeno più.
“Io
sono qui per l'uscita del mio fumetto. Tu?”
L'hai
detto come se io sapessi il motivo della tua permanenza in quella
città, e infatti sapevo; sapevo e speravo di non
incontrarti, desideravo passarti accanto senza accorgermene
così da non sentire questo fastidioso vortice nello stomaco
che rischiava di inghiottirmi, e forse avrebbe inghiottito anche te se
ti fossi sporto un po' a guardare.
“Concerto...”
ho risposto, senza guardarti in faccia, anch'io osservavo il semaforo
adesso nonostante il sole che, colpendomi gli occhi, mi impediva di
vedere bene.
Erano
cambiate tante cose dall'ultima volta in cui ci eravamo visti, ma i
nostri silenzi erano rimasti esattamente gli stessi; è stato
bello saperlo, era come se fosse rimasto qualcosa di noi due, in fondo
a tutte quelle macerie.
Ad
un certo punto, direi quasi senza motivo, hai sghignazzato con le
labbra strette, ti si vedevano a malapena i denti, il tuo viso era
basso e il tuo sguardo pure. Hai scosso la testa ed io ho avuto
paura, temevo che avessi detto qualcosa di ingiusto, di
scomodo; d'altronde sei un bambino viziato Gerard, ti piace fare la
parte dell'infantile.
Ecco,
non lo sei, lo fai e basta perché ti diverte vedere la gente
che ti rincorre e desidera esserti amico, nonostante lo schifo,
nonostante i palazzi distrutti che avevi nel petto, nonostante i
fantasmi che ti portavi dietro la notte.
Ti
sei strofinato un occhio con una mano chiusa a pugno, io ti ho guardato
un'ultima volta in viso e poi mi sono alzato; ti ho guardato
così a lungo che quasi mi girava la testa, ho stentato a
riconoscerti, riflesso nelle tue iridi chiare, ed ho avuto paura di
sostituire la vecchia immagine che avevo di te con quella di adesso.
Per questo mi sono alzato, tu non lo sai, ma me ne sono andato
perché odio il fatto che tu non sia lo stesso, che non lo
sia nemmeno io, che solo i nostri silenzi non siano cambiati.
Avevo
fatto il pieno
per quel giorno, mi era improvvisamente venuta voglia di piangere, con
i miei capelli corti e i miei rimpianti, volevo correre via
perché non riuscivo a sopportare più chi eri diventato.
Per
di più, era una tortura per me vedere l'uomo che avevo amato
nascosto da quello sconosciuto che in quel momento stava indossando gli
occhiali da sole.
Non
so se e quando ci saremmo rivisti, probabilmente ci saremmo affidati al
caso, come al solito, a volte fingendo di non vederci, a volte amandoci
da lontano; perché Bert e Gerard erano ancora lì,
nascosti da qualche parte, tra foto sbiadite e rimasugli di sigarette.
"Hear your voice again
Can we dim the sun
And wonder where we've been."
(I Caught Fire, The Used)
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