Cronache di un’edizione
degli Hunger
Games
LA MIETITURA
DISTRETTO 4
Sott’acqua si era al
sicuro; lì non si sentiva nulla tranne
il gorgogliare delle onde che premeva nelle orecchie, smorzando ogni
altro
suono proveniente dalla superficie.
“Resterò qui
fino a quando riuscirò a trattenere il fiato”
pensò Sebastian lasciandosi andare alle onde
“Anzi, anche oltre”.
Il vecchio Johnny, che tesseva le
reti sulla porta della sua
catapecchia sulla spiaggia, raccontava del tempo in cui gli aerei di
Capitol
City sorvolavano il cielo, carichi di bombe predisposte alla
distruzione dei
Distretti in rivolta. Per non sentire i rumori della guerra, Johnny che
era
poco più di un bambino all’epoca, si rifugiava
sotto la fredda e trasparente
muraglia che lambiva le loro spiagge; da allora era diventato il suo
rifugio.
Dopo la fine della rivolta e l’inizio degli Hunger Games,
ogni anno, il giorno
della mietitura tentava di gettarsi a capofitto in mare per non sentire
più
niente, ma veniva sempre ripreso. Faceva questo ogni anno; persino i
Pacificatori erano abituati alle sue stranezze. Quest’anno,
il vecchio Johnny
non c’era più.
L’anno precedente sua
nipote era stata sorteggiata come
Tributo. Alla fine della mietitura era entrato in acqua e non ne era
più
uscito.
Sebastian aveva iniziato a fare come
il vecchio Johnny già
da prima dei suoi dodici anni assieme agli altri bambini e bambine che
ascoltavano le storie e le lezioni del vecchio tessitore di reti; ma
non
poterono continuare. Nessuno aveva voglia di mettersi contro i
Pacificatori.
Nel corso di quei cinque anni,
Sebastian aveva visto partire
alcuni di quei bambini che si “nascondevano” tra le
onde con lui e nessuno
ritornare; solo se eri abbastanza grande e allenato avevi qualche
chance di
fare ritorno al tuo Distretto coperto di “onori e
gloria”. Sebastian Smythe del
Distretto 4 era grande ed era allenato ed era affascinante al punto da
potersi
guadagnare le simpatie degli sponsor di Capitol City; un perfetto
Favorito. Ma
lui non voleva. Non voleva rischiare di morire, non voleva sopravvivere
per
diventare un giocattolino della capitale, non voleva rinunciare a quel
mare nel
quale si lasciava andare ogni mattina, quando tutti ancora dormivano,
quel mare
che lo proteggeva, che rendeva la sua pelle ruvida per la salsedine,
come uno
scoglio sommerso.
“Solo quest’anno
e poi un altro, e mi lasceranno in pace”
continuava a pensare, mentre alcune gocce brucianti gli entravano nel
naso e
nella bocca, facendo urlare ai suoi polmoni aria
aria aria.
Poteva riuscire a resistere ancora un
po’, come il vecchio
Johnny, ma lui aveva avuto mezzo secolo per allenarsi e Sebastian
nemmeno un
decimo.
Quando si risollevò dalle
onde, boccheggiando, sperò che
qualche traccia di acqua salata fosse rimasta impressa nel suo petto.
“Almeno porterò
il mare con me fino alla prossima
immersione” pensò, uscendo dall’acqua e
lasciando che i primi raggi del sole lo
asciugassero. Tornando a casa, portò con sé anche
una manciata di sabbia.
Tenne con sé quella parte
che più amava del suo Distretto
fino al momento in cui il suo nome venne sorteggiato alla mietitura. E
anche
oltre.
I TRIBUTI
DISTRETTO 11
Avevano detto solo i loro nomi ma se
avessero aggiunto un
bel “siete condannati a morte perché uomini e
donne vissuti quasi sessant’anni
fa, e che sicuramente adesso sono anche morti, hanno deciso di
ribellarsi a
Capitol City”. Andate tutti a fare in culo, maledetti.
Mercedes Jones poteva permetterselo
quel risentimento e
quella rabbia, verso gli amici e i parenti che avevano solo pianto
mentre lei
andava a morire in chissà quale diavolo di Arena, verso i
Pacificatori che
prendevano in giro lei e l’altro Tributo, Wade
“Unique” Adams, chiamandoli con
scherno “la grassona” e “la
checca”, verso quel debosciato di Capitol City
talmente rifatto da sembrare un manichino di plastica, che parlava loro
come se
fossero stati amici di vecchia data. Aveva smesso di ascoltarlo quando
aveva
esordito con “Non sapete quanto siete fortunati, miei
cari”. Sì, proprio
fortunati a pensare che avevano solo pochi giorni da vivere ancora.
Chi volevano prendere in giro?Quali
possibilità avevano
entrambi di sopravvivere? Non erano agili e forti o abili in un qualche
tipo di
combattimento, erano… sì, erano
“grassi”, per una predisposizione fisiologica,
non certo per una buona alimentazione. Proprio per questo, Mercedes e
Wade
erano più utili nel loro Distretto, dove potevano dare tutte
le loro forze per
il lavoro, piuttosto che in un’Arena dove non sarebbero
vissuti nemmeno due
minuti, in mezzo a tutte quelle macchine da guerra umane. Ma questo a
qualcuno
importava? Non certo a quei figli di puttana di Capitol City; altro
sangue per
il loro divertimento e per la loro voglia di emozioni forti, ecco
cos’erano
loro due. Non a tutti quelli che rimanevano a casa, che
l’avevano scampata per
un altro anno e che, a poco a poco, iniziavano ad
“abituarsi” a questi
sacrifici annuali.
Pigiati nella macchina, Mercedes
sentiva il tremito convulso
di Unique. Con Wade, lei e pochi altri usavano quel nome non per
dispregio ma
per rispetto; era stato proprio lui a volere quel nome per sentirsi
autentico e
voler essere veri e reali era una delle poche cose che Capitol City non
avrebbe
mai potuto togliere loro. Se Wade sentiva di essere Unique, allora era
Unique.
Mercedes avrebbe voluto consolarlo in qualche modo, anche solo
stringendogli la
mano per fargli coraggio; ma quanto sarebbe potuta durare quella
pietà?
Sarebbero arrivati ad un determinato momento in cui
l’appartenere allo stesso
Distretto non avrebbe significato più nulla, in cui i giochi
fatti da bambini sarebbero
stati un lontano ricordo ormai cancellato, in cui il senso di
sopravvivenza
avrebbe prevalso e l’importante sarebbe stato solo
sopravvivere.
Che il tempo si fermi. Anche se si
deve rimanere per sempre
bloccati in una macchina con quella fastidiosa voce da damerino nelle
orecchie.
IL COMMIATO E
IL VIAGGIO
DISTRETTO 2
Il bello dell’essere uno
dei Distretti più vicini a Capitol
City era che non si aveva nemmeno il tempo di capire cosa stava
succedendo.
Semplicemente veniva estratto il tuo nome, avevi giusto il tempo di
salutare la
tua famiglia (ci si poteva permettere un
“arrivederci” invece di un
“addio”).
Se erano ragazzi più ambiziosi (e più deficienti)
non c’era nemmeno bisogno
della meititura visto che i volontari si guadagnavano la più
totale ammirazione
degli abitanti del Distretto 2.
Kurt Hummel, figlio di uno degli
estrattori di diamanti
della miniera, non si sarebbe mai offerto volontario. Odiava gli Hunger
Games e
Capitol City anche se si guardava bene dal dirlo ad alta voce, e odiava
ancora
di più quei fanatici che sognavano solo di scendere in
un’Arena per massacrarsi
a vicenda. Per quel che lo riguardava, potevano fare quello che
volevano:
offrirsi volontari, combattere, uccidere, vivere, morire, dare il culo
ai
vecchi della capitale. Bastava solo che lasciassero in pace lui e suo
padre. Purtroppo
il Tributo femmina che si era proposta spontaneamente aveva spento
l’ardore di
tutto il genere maschile dai dodici ai diciotto anni lì
presente; Quinn Fabray
era nota non solo per la sua bellezza ma anche per la sua freddezza,
per il suo
spirito da guerriera d’altri tempi, il cuore di un guerriero
sanguinario
racchiuso nel corpo, all’apparenza fragile, di
un’eterea ragazza di sedici
anni. Per questi ed altri motivi gli aspiranti volontari tacquero. E ad
essere
estratto quella volta fu Kurt Hummel. Non poté rifiutarsi
anche se lo avrebbe
voluto più di ogni altra cosa.
Mi strappate
a mio
padre, alla mia famiglia, agli anni che ancora potevo vivere.
Era Quinn la protagonista indiscussa;
molti già vedevano i
suoi capelli biondi incorniciati dal diadema della vittoria.
Così Kurt poté
vivere in maniera più tranquilla e riservata il commiato
dalla sua famiglia.
Finn, il suo fratellastro, gli
stritolò con forza le spalle
continuando a ripetergli “Coraggio, puoi farcela”.
Se fossi
come te, se
avessi il tuo fisico e la tua stazza potrei farcela, forse.
Carole, la sua matrigna, riusciva
solo a scuotere la testa
come se stesse cercando di scacciare un pensiero molesto che la
afferrava e la
riafferrava ed evitava il suo sguardo.
Burt, suo padre, lo guardava e non
diceva niente. Basta.
Nessuno di loro voleva farsi ancora più male. Anzi, adesso
sarebbe stato anche
più facile tirare un sospiro di sollievo: ogni anno con la
paura di dirsi addio
e quel momento alla fine era arrivato; dopo di ciò niente
più avrebbe potuto
far male.
Quando salì sul treno,
Kurt non volle affacciarsi all’ampio
finestrino. Si dice “Addio” solo una volta.
Ad un tratto, mentre il treno
iniziava a muoversi, gli venne
in mente il frammento di una poesia del Vecchio Mondo scomparso. Non
ricordava
il nome dell’autore ma il titolo sì.
“Mercoledì delle ceneri”*
…
perché io non spero
più di ritornare.
LA CERIMONIA D’APERTURA
DISTRETTO 8
Capitol City era in delirio.
Quell’anno i Tributi erano
quanto di meglio potesse esserci, non tanto per forza fisica e
combattività
quanto per bellezza e avvenenza. Bellezza e avvenenza erano i requisiti
richiesti per essere favoriti alla vittoria e per questo gli stilisti
avevano
dato il meglio e anche il peggio del loro talento per far risaltare le
doti
fisiche dei ventiquattro giovani partecipanti agli Hunger Games.
I minimi dettagli non sfuggivano
all’occhio allenato di
Blaine Anderson, Tributo del Distretto 8; lavorava, cioè
aveva lavorato in una
fabbrica di tessuti sin da quando era piccolo e sarebbe stato in grado
di
indovinare la tecnica utilizzata per confezionare l’abito che
indossava
semplicemente tastando i vari tipi di stoffa impiegati. Il suo stilista
lo
aveva interamente ricoperto di ritagli di stoffa che andavano dal rosso
acceso
al dorato attraverso varie tonalità, ma aveva abilmente
fatto in modo che il
tutto non gli desse un aspetto goffo e disordinato ma nobile ed
elegante,
mettendo in risalto il suo fisico e il suo sguardo. La sua controparte
femminile, Rachel Berry, invece aveva poca stoffa a coprirla. Anzi,
quasi tutte
le ragazze indossavano abiti che non lasciavano nulla
all’immaginazione e
mettevano in mostra le loro grazie; il Tributo del 7, una splendida
ragazza
ispanica dallo sguardo freddo e allucinato indossava un body
trasparente con
sopra ricamati dei rami arabescati che andavano a coprire le parti
più intime
del suo corpo. Rachel non era stata denudata in quel modo ma aveva la
schiena e
le braccia completamente esposte agli occhi degli esultanti abitanti
della
capitale, una lucida stoffa rossa e dorata le copriva il resto e i
capelli
erano sorretti da enormi spilloni da cucito ornamentali.
Ad ogni biga che passava, le
acclamazioni e le urla
d’eccitazione della folla si facevano più alte;
sui maxi schermi Blaine
riusciva a vedere la causa delle impennate d’entusiasmo: la
ragazza del 7, il
ragazzo del 4, che aveva causato più di un mancamento tra le
signore, i due
Tributi del 3 rivestiti interamente di tuniche argentate che
splendevano sotto
i riflettori, lui alto e massiccio, un guerriero di granito, lei
piccolissima
ed esile (“Non può avere dodici anni”
pensò subito Blaine “E’ troppo
piccola”),
tenuta in braccio dal suo compagno che la stringeva a sé
come per difenderla
dagli eventi che li stavano trascinando via, una stella cometa
attaccata alla
sua scia.
Ma lo spettacolo più
sconvolgente fu offerto dai Tributi del
Distretto 2. Bellissimi e regali come due sovrani, con abiti fatti
interamente
di diamanti di varie dimensioni; sarebbe bastato smuovere un solo filo
che
teneva unite quelle pietre per farle cadere e lasciarli completamente
nudi.
Lievi nuvole brillanti comprivano la sommità dei loro
capelli e contornavano le
loro orbite; ma Blaine si rese conto che nel ragazzo c’era
qualcosa di più
luminoso dei diamanti che lo rivestivano: i suoi occhi.
Tutta la luce artificiale che emanava
dal suo corpo, il verde-azzurro
di quegli occhi la trapassava come due scie di colore. Blaine era
sicuro che
quel ragazzo non avrebbe avuto bisogno di nulla per apparire
più bello; bastava
solo il suo sguardo. I Tributi del 2 erano noti per il loro sguardo
assassino,
da predatori, tipico dei Favoriti, come anche quelli dell’1 e
del 4; tutti gli
altri tremavano davanti a loro. E la ragazza del 2, col suo cipiglio
freddo, ne
era un esempio perfetto. Ma il ragazzo sembrava rappresentare
l’eccezione: non
c’era sete di sangue e di gloria nei suoi occhi, solo una
gran rabbia, la
stessa che si poteva leggere nella maggior parte dei Tributi, il senso
di
ingiustizia che si provava nel sapere di essere solo parte di un
passatempo
crudele, di valere quanto gli abiti grotteschi che indossavano quelli
di
Capitol City che, passati di moda, sarebbero stati dimenticati in un
armadio o
gettati via.
Erano tanti giocattolini preziosi
pronti per essere rotti
per il divertimento degli altri.
Quando la cerimonia ebbe termine e i
ventiquattro poterono
scendere dalle bighe e abbandonare le pose rigide mantenute fino a quel
momento, Blaine diede una rapida occhiata attorno a sé per
vedere un po’
l’effetto che facevano quegli abiti senza più la
luce dei riflettori, sempre
per un abitudinario attaccamento a certi dettagli. Certo, finito lo
spettacolo,
le comete, le cascate d’oro e cremisi, le luci, le
nudità perdevano il loro
effetto e tutti ritornavano ad essere ragazzi e ragazze dai dodici ai
diciotto
anni con dei vestiti fatti su misura che non avrebbero più
indossato.
Se non avessero avuto
l’ombra di un conflitto imminente alle
loro spalle avrebbero potuto mettersi a chiacchierare, a fare
conoscenza;
alcune ragazze sembravano smaniare dalla voglia di andare ad
accarezzare la
bambina del 3 che rimaneva in braccio al suo compagno gigante,
spaventata dalla
folla urlante.
Erano uguali, chi più chi
meno. C’era solo un destino che
non avevano scelto loro a dividerli.
Nella folla di mentori e stilisti che
si andava formando,
Blaine si alzò sulle punte per trovare ancora il ragazzo del
2, curioso di
vedere il suo cambiamento. Lo vide un po’ più
distante dal suo gruppo, intento
a togliere con un panno il trucco brillante che aveva sul viso, con
aria
stanca.
Sì, chi gli aveva messo
quella roba in faccia doveva essere
un vero idiota. Se gli avessero permesso di mostrare il suo volto
pulito e al
naturale avrebbe ottenuto un maggior successo, anzi, probabilmente l’intera Capitol
City avrebbe urlato a gran
voce la “grazia” per lui… forse lo
avevano truccato proprio per evitare una
simile evenienza.
Blaine doveva averlo guardato con
troppa insistenza perché,
ad un certo punto, il ragazzo del 2 alzò lo sguardo verso di
lui, gli occhi
sbarrati in un misto di costernazione, paura e rabbia. Sembrava gli
volesse
urlare “Cosa vuoi da me? Smettila di guardarmi”.
Urtato da quell’occhiata
fulminante, Blaine abbassò lo
sguardo, come se si fosse sentito colpevole per avergli fatto un
qualche
sgarbo. Che poi era assurdo, a ben pensarci: non erano amici, nessuno
di loro
sarebbe stato amico degli altri, presto si sarebbero trovati tutti a
combattere
fino all’ultimo sangue per sopravvivere.
- Blaine, cosa fai? – lo
scosse Rachel, avvicinandosi a lui,
la testa dritta per evitare che gli spilloni le cadessero –
Non lasciarti
intimorire da quelli del 2; sono dei macellai –
continuò lei notando lo scambio
di sguardi tra i due ragazzi.
- No, non preoccuparti – le
rispose lui, continuando a
spiare il ragazzo del 2 che era tornato a strofinarsi con forza il viso
per
togliere gli ultimi residui di trucco – E’ solo
che… no, non è niente –
balbettò Blaine voltando le spalle e raggiungendo il suo
gruppo.
Spero di non
ritrovarmi a combattere contro di lui. Spero di non doverlo uccidere io.
Ma chissà come sarebbe
stato morire per mano sua. Morire
avendo quegli occhi davanti.
IL CENTRO DI
ADDESTRAMENTO
La cerimonia d’apertura, in
fondo, non era stato nulla di
che, se non un’enorme pagliacciata. Un bel abito, un qualche
effetto speciale,
gli apprezzamenti del pubblico non erano assolutamente niente. Solo al
centro
di addestramento si iniziava a capire chi erano i veri avversari e
già li era
difficile visto che i più astuti non mostravano mai il loro
vero potenziale; il
trucco era saper individuare quelli che usavano tutte le loro forze (i
meno
pericolosi) e quelli che ne usavano solo una parte (le vere macchine
assassine)
e tra ventiquattro ragazzi di ambo i sessi non era certo un compito
facile,
tenendo conto del fatto che lì, l’intento
principale dei Tributi era allenarsi
in vista degli Hunger Games.
I due Tributi del Distretto 6, due
ragazzi dai tratti
asiatici, Mike e Tina, che erano passati quasi inosservati durante la
sfilata dei
carri, avevano dato subito prova della loro abilità; subito
erano stati seguiti
dalla maggior parte degli altri Tributi, in una gara a chi era il
più temibile,
dove il vincitore era colui che riusciva a terrorizzare di
più gli altri. In
certi momenti, il cercare di comprendere i punti forti e i punti deboli
degli
avversari, spaventarli, togliere loro ogni speranza diventava la vera
arma
vincente.
Chi voleva stordirsi o dimenticare,
poteva abbandonare la
postazione delle armi e immergersi in una più passiva
difesa. La bambina del 3,
Lettice, troppo piccola anche solo per poter prendere in mano
un’arma,
trascorreva lì la maggior parte del tempo, intenta ad
imparare metodi per
“ritardare” la morte mentre il suo compagno, Dave
Karofsky, era tra quelli che
intimidivano gli avversari distruggendo manichini a mano nude.
Blaine aveva deciso di alternarsi,
come la minima parte dei
Tributi, tra combattimento, difesa e tecniche di sopravvivenza. Una
cosa che lo
stupì fu il trovare anche il Tributo del 2 alla difesa e
alla sopravvivenza; in
genere, i Favoriti non abbandonavano mai le postazioni di
combattimento. Invece
lui la stessa attenzione che usava nel combattimento, la riservava al
massimo
alla difesa e alla sopravvivenza. Vedendolo anche in quel momento,
Blaine era
sicuro che fosse lui ad avere maggiori probabilità di
vittoria, visto che aveva
tutte le qualità per attirare gli interessi del pubblico
unite all’intelligenza
e alla previdenza.
Ma pur lontano dai primi
combattimenti “non ancora mortali”,
Blaine era comunque su una china scivolosa visto che il tempo che
avrebbe
dovuto impiegare per allenarsi lo sprecava, invece, a spiare ogni
movimento,
ogni espressione, ogni momento in cui il ragazzo del 2 aggrottava la
fronte. E
anche quella volta, il ragazzo se ne accorse.
- Smettila di guardarmi –
saltò su il ragazzo del 2,
cercando di non attirare l’attenzione degli istruttori,
sempre vigili per
fermare all’istante qualunque tentativo di lite tra i Tributi.
- N-non ti stavo guardando
– replicò debolmente Blaine, preso
alla sprovvista.
- Mi stai guardando dalla cerimonia
d’apertura, invece –
continuò a ringhiare il ragazzo.
- Guardo te come guardo tutti gli
altri – tentò di
difendersi Blaine.
- Allora mi hai scambiato per
“tutti gli altri” – se non
l’avesse detto con durezza, sarebbe stata una battuta
perfetta per farsi
qualche risata – Te lo dirò un’ultima
volta: smettila.
- Scusami –
mormorò Blaine, con più sincerità di
quanto
avrebbe voluto.
- “Scusami”?!
– esclamò il ragazzo costernato –
“Scusami”?!
Credi forse che siamo in un centro ricreativo? Ma chi sei? Chi ti
conosce?
- Blaine, del Distretto 8 –
rispose Blaine come se il
ragazzo glielo avesse chiesto per curiosità e non con rabbia
e ironia.
- Cos’è questo?
– reagì il ragazzo – Un astuto
stratagemma
per farmi abbassare la guardia quando saremo nell’Arena?
- No… non… no,
non è niente – balbettò Blaine
mortificato.
Il Tributo del 2, per tutta risposta,
borbottando un epiteto
poco amichevole, tornò a concentrarsi su un piccolo
marchingegno che aveva in
mano evitando di incrociare nuovamente lo sguardo di Blaine.
Quest’ultimo tenne
solo un altro po’ gli occhi su di lui, forse sperando in
un’altra parola, anche
se violenta e piena di rabbia, che però non
arrivò; pensò allora di cambiare
postazione anche per evitare quell’atmosfera pesante che si
andava formando
attorno a sé.
- Kurt, Distretto 2 –
sentì dire dal ragazzo che continuava
ad armeggiare con l’oggetto che aveva in mano –
Quella roba che indossavi alla
cerimonia era orribile – non c’era colore o alcun
tipo di sfumatura nelle sue
parole; erano parole e basta.
- E’ vero –
assentì Blaine, senza sorridere.
Sorridere sarebbe stato troppo.
* * *
Durante quella settimana, Kurt e
Blaine si parlarono ancora.
Non erano chissà quali conversazioni; semplicemente
parlavano, come se fosse
stata la prima volta che si incontravano e l’ultima
chiacchierata che avrebbero
mai più fatto. Poco importavano le domande dei loro mentori
e delle loro
compagne. “Si parla e basta, nulla di importante o di
pericoloso”; ed infatti,
ogni volta che si ritrovavano a chiacchierare in maniera distaccata,
guardandosi poche volte in faccia, sembravano voler dimostrare, prima a
loro
stessi che agli altri, che non erano importanti quelle parole. Quel
poco tempo
che rubavano, quegli sprazzi di un futuro che non avrebbero mai avuto
non erano
importanti. Solo… erano. Punto.
- Com’è il
Distretto in cui vivi? – chiese Blaine.
- Migliore degli altri, sicuramente
– rispose Kurt – E’
diviso in vari quartieri, che sembrano più che altro delle
città in miniatura;
quello dove vivo io non è uno dei quartieri più
lussuosi, mio padre lavora
nelle miniere ma non possiamo lamentarci. Ci sono anche dei piccoli
spazi verdi
tra un quartiere e l’altro; ogni anno, all’inizio
della primavera ci portavano
sempre in quei giardinetti a vedere gli alberi in fiore. In quei giorni
c’era
tanto di quel polline che respirare diventava un’impresa, ma
erano anche gli
unici giorni in cui mio padre era con me, la mia matrigna e il mio
fratellastro, senza quella dannata miniera a seppellirlo.
Com’è il tuo
Distretto, invece?
- Non è così
bello come il tuo – rispose Blaine – E’
una
zona completamente industriale, dominata interamente da fabbriche
tessili,
senza nemmeno uno spazio verde, tutto nero e grigio; l’unico
colore che si può
trovare è quello delle tinture per le stoffe e, se non stai
attento, corri il
rischio che sia l’ultima cosa che vedi: molti bambini che
lavoravano con me in
una delle fabbriche sono diventati ciechi per colpa delle esalazioni
tossiche
di quei coloranti. Si sente sempre il rumore dei macchinari che dalle
fabbriche
si estende per l’intero Distretto, un ronzio che non ha mai
fine, che anche
quando credi che ti stia dando un po’ di tregua continua a
sfondarti i timpani
quando sei a letto e vorresti dormire. E anche quando dormi continui a
lavorare
perché le tue dita si muovono credendo di avere sotto mano
stoffe, macchine per
cucire e telai. E questo ogni giorno ed ogni notte della tua vita
finché non
vieni sorteggiato alla mietitura o non muori. E non
c’è molta differenza.
- Che schifo – si
limitò a commentare amaramente Kurt –
C’è
qualcosa di bello in questo tuo Distretto?
- C’è la mia
famiglia – rispose il ragazzo.
Kurt scosse la testa, forse per
scacciar via quelle parole o
forse perché voleva evitare di guardare Blaine negli occhi.
- Spero che nell’Arena ti
ammazzi qualcun altro – mormorò
con voce spezzata, di punto in bianco.
Con uno scatto, Blaine
mollò tutto quello che stava facendo
in quel momento e si alzò per andarsene; anche se dubitava
che Kurt avrebbe
alzato la testa per vederlo andar via, si voltò
completamente: non voleva che
lo vedesse piangere. Non per quelle parole in sé ma
perché, per la prima volta,
Kurt gli aveva mostrato un sentimento.
- Io invece spero che tu vinca
– lo ripagò Blaine, non
preoccupandosi che anche gli altri lo sentissero –
Così potrai ritornare a casa
tua, nel tuo Distretto, e la prossima primavera potrai vedere ancora
una volta
il polline.
Kurt, finalmente, alzò la
testa e quella volta fu lui a
fissare Blaine al punto da farlo voltare per guardarsi negli occhi.
- Io odio il polline –
disse.
Quella fu l’ultima volta
che si parlarono.
Poi ci furono le interviste e con
esse l’ultimo giorno.
GLI
HUNGER GAMES
Solo un altro giorno.
Voglio vivere solo un altro giorno ancora.
L’ARENA
Quell’anno
l’Arena degli Hunger Games voleva essere un
omaggio al Vecchio Mondo, scomparso da secoli ma già in
rovina da millenni. Il
mondo dell’antico e leggendario impero romano che Capitol
City si ostinava a
far rivivere ogni giorno nei suoi usi e costumi. Si era deciso di
riprodurre le
rovine di un antica città distrutta a suo tempo dal
“fuoco di una montagna”;
nei vecchi testi ritrovati, questa città veniva chiamata
Pompei.
Quando i Tributi vennero portati
fuori dai condotti ebbero
giusto i soliti sessanta secondi concessi per orientarsi
approssimativamente su
quanto li circondava: a parte la Cornucopia, stavolta molto
più intonata col
suo elemento visto l’ambiente classico antico, posta sempre
al centro davanti a
loro, intorno c’erano strade lastricate da enormi pietre
bianche, e residui e
macerie di palazzi e abitazioni in rovina e semi distrutti, alcuni
ancora
miracolosamente in piedi, altri che conservavano solo quattro o cinque
file di
mattoni che ricordavano la presenza di mura e pareti. Su tutto
incombeva sullo
sfondo una montagna dall’aria sinistra; con
quest’ultima gli Strateghi si erano
veramente superati.
Sessanta secondi per vedere
l’ambiente e capire cosa fare;
sembra impossibile ma non è poi tanto difficile. Basta solo
lasciarsi andare.
Dopo un minuto scesero tutti dalle loro pedane ed iniziò la
carneficina o
“bagno di sangue”, come dir si voglia.
Quella fu una di quelle edizioni
degli Hunger Games nelle
quali il grosso dei Tributi venne decimato all’inizio, alla
Cornucopia.
Mercedes Jones e Wade Adams del
Distretto 11 vennero uccisi
mentre cercavano di fuggire da quel luogo, senza nemmeno prendere
niente dalla
Cornucopia.
Dave Karofsky del Distretto 3 fu
abbastanza veloce da
afferrare uno zaino ed un’arma (una mazza ferrata ma lui
quasi non ci badò) e
ritornare indietro di corsa: il Tributo maschio dell’1 stava
per abbattere la
sua spada sull’esile corpicino di Lettice, ma Dave gli
fracassò la testa con la
mazza, prese la sua piccola compagna in braccio e, correndo
più volece che
poteva, si rifugiò tra i ruderi dell’antica
città.
Blaine Anderson del Distretto 8 venne
ucciso da una lancia
scagliatagli alle spalle dal Tributo femmina dell’4;
quest’ultima non fece in
tempo a godersi quella piccola vittoria perché Kurt Hummel
del Distretto 2 le
fu subito addosso e le tagliò la gola con un coltello.
Anche Rachel Berry, sempre
dell’8 non superò i primi minuti:
ferita al fianco, tentò di trascinarsi verso le rovine della
città ma una
freccia le trapassò il collo da parte a parte.
Alla fine del bagno di sangue,
attorno alla Cornucopia
c’erano quattordici Tributi morti.
Erano sopravvissuti la ragazza
dell’1, Kurt Hummel e Quinn
Fabray del 2, Dave Karofsky e Lettice Schyller del 3, Sebastian Smythe
del 4,
Mike Chang e Tina Cohen Chang del 6, Santana Lopez del 7, e il ragazzo
del 10.
Quest’ultimo morì quella stessa notte per le
ferite subite.
Quel giorno segnò la fine
per tutti quei ragazzi e quelle
ragazze; non più persone e nemmeno animali, ma vano
trastullo per i ricchi e i
potenti.
Il giorno dopo, Quinn si
scontrò ed uccise la ragazza dell’1
impadronendosi del cibo di quest’ultima; lei, Kurt, Sebastian
e Santana si
trovavano in zone diverse della città, ognuno per proprio
conto, aspettando il
momento in cui qualche sponsor si fosse deciso ad inviare acqua e cibo
a
qualcuno di loro; Dave e Lettice si erano rifugiati in un tempio (uno
dei pochi
edifici ancora in piedi) e il ragazzo era l’unico che usciva
per tentare di
trovare dell’acqua e qualcosa da mangiare visto il poco che
avevano ma cercava
sempre di non allontanarsi troppo per non lasciare da sola la bambina.
Il terzo giorno, Mike e Tina, che
agivano insieme come una
persona e la sua ombra, tentarono di assaltare quel rifugio,
più con
l’intenzione di sbarazzarsi di due avversari che per altro;
erano armati di
un’ascia e di un arco e tre frecce, e queste ultime erano
l’ideale per un
attacco ma il loro numero esiguo era un problema.
Usando un enorme piatto per le
offerte come scudo, Dave uscì
allo scoperto per tentare di allontanarli; la prima freccia lo
mancò, andando a
conficcarsi nello spiazzo erboso dietro di lui, la seconda lo
colpì al
polpaccio. Infuriato per la ferita, il gigante lanciò il suo
scudo, come un
disco, contro Tina, l’arciera, colpendola con violenza al
volto, all’altezza
degli occhi. La terza freccia cadde inutilizzata accanto a lei. Mike
corse in
suo soccorso brandendo l’ascia ma Dave parò il
colpo con la sua mazza; il ferro
si immerse nel ferro. Entrambi i combattenti si ritrovarono bloccati
dalle loro
stesse armi. Nel gioco di forza e tensione che seguì, a
trovarsi in svantaggio
fu Dave, ferito. Ma l’urlo di Lettice lo rianimò:
con un doloroso strattone,
mentre la gamba ferita pulsava tremendamente, spinse via da
sé Mike, sbloccando
le loro armi, e senza neanche dargli il tempo di reagire lo
colpì alla testa,
ma il colpo non fu né abbastanza forte né
abbastanza debole e il ragazzo del 6,
mollando la sua ascia, si tenne la testa con le mani, senza la forza di
urlare,
incapace di capire cosa gli stesse succedendo, cadendo ad ogni
movimento e ad
ogni passo, e trascinandosi via, lontano da lì.
Senza badare a lui, Dave si
voltò giusto in tempo per vedere
Tina, che aveva ripreso i sensi, puntare l’ultima freccia
rimastagli contro
Lettice, aggrappata ad una colonna, paralizzata dal terrore. Senza
starci
troppo a pensare, Dave colpì Tina alla nuca con la mazza di
ferro. Stavolta il
colpo fu diretto e deciso e la ragazza cadde senza un grido.
Ferito e stremato, Dave venne aiutato
da Lettice a rientrare
nel tempio; presero anche lo zaino di Tina dove trovarono una borraccia
mezza
vuota e ciò che restava di un pacchetto di gallette. Quella
sera stessa arrivò
loro il dono di uno sponsor. Quando un’entusiasta Lettice gli
mostrò una
medicina per curare la ferita che la freccia gli aveva procurato, Dave
con un
moto di rabbia e frustrazione urlò – Date
dell’acqua e del cibo a Lettice,
maledizione!
Intanto, anche Mike era morto: era
stato trovato poco
lontano da lì, in quel labirinto di strade, incapace di
camminare ed urlare, la
testa che ciondolava in ogni direzione, un rivolo di sangue che gli
colava dal
naso, da Sebastian che gli piantò una lancia nel petto.
Così si concluse quella
“giornata emozionante”. Non ce ne furono altre. I
Tributi sopravvissuti rimasero
ognuno per conto proprio. L’unico passatempo per gli
spettatori fu assistere
all’agonia di Kurt.
Esaurite le sue scorte di cibo e di
acqua, incapace di
trovarne altre, il Tributo del 2, uno dei Favoriti, si
ritrovò a vagare per
quel reticolo di strade, aggrappandosi ai muri per non cadere, la gola
arsa
dalla sete, il corpo tremante e sul punto di collassare per la
disidratazione.
Qualche sponsor avrebbe potuto aiutarlo se avesse voluto, molti
avrebbero
potuto aiutarlo. Era bellissimo e alla Cornucopia aveva dimostrato di
saper
usare le armi… ed era bellissimo. Ma, in assenza di scontri
e di combattimenti,
vederlo soffrire era uno spettacolo gradito a tutti. L’intera
Panem assisté
alla distruzione di quel ragazzo che aveva incantato tutti alla
cerimonia
d’apertura. Le sue labbra rosee si fecero bianche e secche,
gli occhi sgranati
e rossi, il viso sul punto di sgretolarsi come una foglia secca.
Probabilmente
gli Strateghi avevano aumentato le temperature apposta per lui.
L’unico pianto
impotente per Kurt si levò dalla casa di suo padre nel
Distretto 2.
Alla fine, stufi del lento andamento
di quella edizione, gli
Strateghi decisero di chiuderla subito col gran finale da tempo
pianificato: la
montagna, o meglio il vulcano che sovrastava la copia delle rovine di
Pompei
eruttò, sputando un denso fumo nero ed una pioggia di cenere
e lapilli e pietre
vulcaniche, che si riversarono con violenza inaudita sulla zona del
tempio,
dove Dave e Lettice erano sempre rifugiati; in pochi minuti, oppresso
dal peso
delle pietre, quell’unico edificio intatto crollò
seppellendo sotto di sé
entrambi i Tributi del 3; Kurt, che brancolava in quella zona, venne
colpito in
pieno da una pietra vulcanica che piovve dal cielo a gran
velocità e il colpo
gli fracassò orrendamente la testa. La zona in cui si
trovava Quinn, proprio
sotto il vulcano, fu investita da una nube tossica; una delle
telecamere a
infrarossi riprese a distanza ravvicinata gli ultimi istanti di vita
della
ragazza, soffocata dai gas sulfurei del vulcano.
Alla fine, rimasero solo due Tributi:
Sebastian del 4 e
Santana del 7. Gli Hunger Games di quell’anno erano arrivati
alla loro
conclusione.
Due scie di lava fuoriuscirono da
delle spaccature nel
vulcano e colarono nelle zone in cui si trovavano Sebastian e Santana.
Guidate
dalle abili mani degli Strateghi, le due colate di lava guidarono gli
ultimi
due Tributi, costringendoli a fuggire per non morire bruciati, alla
Cornucopia.
Giunti lì, le colate si unirono in un anello di fuoco
liquido, lasciando i due
su un rialzo del terreno. Quando si trovarono l’uno di fronte
all’altra
capirono di essere giunti alla fine, solo
uno di loro sarebbe rimasto in vita nei
successivi minuti.
Sebastian era armato di una lancia;
Santana di un machete.
Intorno a loro, dietro il cerchio di lava, quella città
veniva distrutta una
seconda volta dalla pioggia di cenere e lapilli del vulcano.
Né gli Strateghi
né gli spettatori si sarebbero mai aspettati un finale
così d’impatto. Senza
aspettare, desiderosi farla finita, comunque fosse andata, si gettarono
l’uno
contro l’altra, le armi in pugno adesso molto grosse ed
ingombranti nello
spazio esiguo che era diventata l’Arena. Il tintinnare delle
armi che si
incontravano si perdeva in mezzo a quell’inferno di tuoni ed
esplosioni.
Impacciato dalla lunga asta della
lancia, Sebastian venne
quasi disarmato dalla sua avversaria, che lo atterrò con un
fendente al
braccio. Ma proprio mentre Santana stava per assestargli un colpo
decisivo, il
ragazzo trovò la forza per sollevare nuovamente la lancia
che mulinò sulla sua
testa in direzione del viso della ragazza, la quale si gettò
all’indietro per
schivare il colpo ma non fece in tempo. La violenza del colpo la fece
cadere di
lato, una mano premuta sull’occhio destro dal quale colava
una cascata di
sangue nerastro; il suo grido rimbombò per tutto lo spazio
circostante.
Deciso ad approfittare della
situazione, Sebastian si rimise
in piedi, il braccio sanguinante che stringeva la lancia; sembrava
Achille che
sta per sferrare il colpo di grazia a Pentesilea, ma quel guerriero del
mare
aveva sottovalutato quell’amazzone ferita. Santana,
dimenticando il machete
accanto a lei, si gettò come una belva sul ragazzo che,
spiazzato da
quell’attacco inaspettato, non fece in tempo a mettersi sulla
difensiva, si
ritrovò sotto di lei, accecato dal sangue della ferita da
lui stesso inferta
che gli bagnava il volto. Batté l’asta della
lancia sulla schiena di Santana,
non riuscendo a raggiungerla con la lama, ma alla fine mollò
l’arma e con le
mani libere strinse il collo della ragazza come stava facendo anche
lei.
Approfittando della sua forza, Sebastian invertì le
posizioni trovandosi, così,
sul corpo di Santana che stava perdendo sempre di più le
forze per la perdita
di sangue; ma la voglia di vivere poteva tutto in quella lotta.
Lasciando la sua presa sul collo del
ragazzo, Santana decise
di tentare un’ultima azione disperata: conficcò
con forza le unghie nel volto
di Sebastian, una, due, tre volte ed ogni volta gli strappava via un
brandello
di pelle e di carne finché quei due guerrieri antichi si
ridussero a due
maschere di sangue urlanti.
Alla fine, chi sembrava sul punto di
soccombere, prevalse.
Quando furono entrambi allo stremo, Santana, tenendo le unghie nel
volto di
Sebastian, trascinò quest’ultimo verso di
sé, come una donna che desidera
baciare il suo amante, e con tutte le forze che le rimanevano, lo
spinse via e
il ragazzo, accecato dal suo stesso sangue e intontito dalla lotta
estenuante,
si lasciò andare come una bambola di pezza.
Scivolò via dal corpo di Santana
finendo nel cerchio di lava; lanciò solo un grido; si
agitò per quattro
lunghissimi secondi e infine, di lui non rimase che un ceppo increspato
e
scintillante di vene di fuoco.
Santana non sentì
né il cannone che annunciava la morte
dell’ultimo Tributo né la voce del presentatore
che dichiarava lei vincitrice di
quell’edizione degli Hunger Games. Ebbe solo il tempo di
fissare, con l’unico
occhio che le rimaneva, le sue unghie spaccate e lorde di sangue prima
di
perdere i sensi.
LA VITTORIA
DISTRETTO 7
Alla fine era successo: Santana Lopez
aveva vinto gli Hunger
Games e… e Capitol City l’aveva fatta diventare
una sua creatura. Adesso anche
lei non aveva nulla di diverso da quegli esseri grotteschi che
popolavano la
capitale. L’avevano vestita e truccata e acconciata come
loro; le sue unghie
erano state ricostruite e smaltate di rosso sangue (avevano riprodotto
fedelmente il colore del sangue di Sebastian ed era diventata la nuova
moda tra
le signore); e la cosa peggiore, nascosta sotto i capelli che le
ricadevano ad
arte sul viso. Poteva sentirlo al tocco: un liscio e tenero strato di
pelle lì
dove una volta c’era il suo occhio. Era diventata una bambola
artificiale senza
un occhio, una statuina rotta intontita dalle medicine somministratele
dai
medici per tenerla tranquilla. Quel nuovo handicap le era stato utile
solo
quando avevano mandato in onda la replica degli Hunger Games durante
l’intervista finale: aveva potuto far finta di vedere quando,
in realtà,
davanti aveva solo la macchia di colori del pubblico affiancata al
vuoto.
Credeva che gli “onori e la
gloria” derivati dalla sua
vittoria l’avrebbero fatta sentire meglio, ma si sbagliava.
Il diadema era
stretto, le faceva male.
Credeva che ritornare nel suo
Distretto, rivedere la sua
famiglia sarebbe stata la cura migliore… e non fu
così. Quando sua madre la
strinse a sé, Santana si limitò a fissarsi le
unghie artificialmente
ricostruite; c’era ancora del sangue lì, nascosto
dallo smalto rosso, era lì,
poteva vederlo perfettamente. E chissà per quanto tempo
ancora sarebbe rimasto
impresso lì. Per quanto tempo avrebbe rivissuto
quell’incubo ogni volta che
vedeva il sangue di qualcuno che si era ferito nella segheria, o che
sua madre
accendeva il fuoco sul fornellino da cucina, o che per strada si
sentivano le
urla dei bambini che giocavano.
Non sono un
soldato,
non ero abituata ad uccidere; ho solo diciassette anni e dei brutti
sogni che
non mi lasceranno mai. Quella roba che mi hanno somministrata quando mi
hanno
tirata fuori dall’Arena… come si chiamava? Ah,
sì: morfamina. Chissà dove posso
procurarmene dell’altra?
ANCORA LA MIETITURA,
UN’ALTRA EDIZIONE DEGLI
HUNGER GAMES
DISTRETTO 12
Venne sorteggiata Primrose Everdeen,
di dodici anni. Ma sua
sorella maggiore, Katniss, si offrì volontaria al suo posto.
La rivoluzione ebbe inizio in quel
momento. La speranza
poteva tornare a vivere.
FINE
Nota
dell’autore:
* “Ash Wednesday”
di T. S. Eliot. Il verso riportato è uno
dei più famosi e mi è rimasto impresso da quando
l’ho sentito pronunciato da
Carmelo Bene.
Ed ho tirato fuori
l’ennesima vagonata di dramma, angst,
dolore e sangue. Non mi smentisco mai. Ma questa volta non è
stata colpa mia,
ho solo seguito le indicazioni tracciate dalla signora Collins.
Stavolta l’idea mi
è venuta da un pensiero fisso che mi ha
torturato durante la lettura di “Catching Fire” e
“Mockingjay”: cioè Finnick e
Joanna con i volti di Grant Gustin e Naya Rivera. Una cazzata, in poche
parole.
Sorvolando sul fatto che, tanto per
cambiare, mi è uscita la
solita cosa stiracchiata fino all’eccesso, per
l’Arena mi sono naturalmente ispirato
ad uno dei nostri tesori nazionali: gli schavi di Pompei che ora,
purtroppo,
stanno andando in rovina a causa della mal gestizione degli enti
pubblici,
dello stato, della criminalità e dell’indifferenza
della gente. Quando si dice:
avere il pane ma non avere i denti, e qui mi fermo. Il tempio nel quale
si
rifugiano Dave e Lettice è il tempio di Iside (http://www.lebellezzeditalia.it/fotografie/foto%20campania/foto_napoli/foto_pompei/tempio_iside.jpg)
Prima di prendere le ascie ed altri
oggetti taglienti
mortalmente pericolosi, ci tengo a dire che per il momento penso di
aver
chiuso, non dico con l’angst, ma con le morti violente dei
personaggi.
Non voglio fare pronostici per
l’avvenire anche perché,
andando a vedere le note finali alle precedenti fanfic. e OS non ho mai
mantenuto una promessa o perché soffocato da una nuova idea
o a causa di altri
impegni. Quindi, stavolta non faccio anticipazioni; sappiate solo che
sto
scrivendo ancora e stavolta non muore nessuno XD
Mi faccio vivo io ; )
Per il resto vi rimando alla mia
pagina fb: https://www.facebook.com/pages/Lusio-EFP/162610203857483
e al mio profilo ask: http://ask.fm/LusioEFP
Ciao e tutti “e possa la
buona sorte essere sempre a vostro
favore”.
Lusio
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