Dal quaderno dei deliri di Glenda:
La
cartellina piena di fascicoli appena messi in ordine scivolò dalle mani di Reid,
e tutto il suo contenuto si sparpagliò sul pavimento.
“Oh,
fantastico…” imprecò il ragazzo a mezza voce.
Si era
lasciato scivolare via quei fogli come uno stupido; gli pareva di avere le mani
di burro, quella sera: se avesse dovuto tenere ben stretto qualcosa non ci
sarebbe riuscito.
Era stata
una giornata terribile…la conclusione di un caso che li aveva tenuti svegli a
turni per svariate notti, la tensione accumulata in quella snervante caccia
all’S.I., il viaggio in aereo interminabile, e, per concludere in bellezza,
quella pioggia fitta fitta, che sembrava penetrare anche nelle stanze fino a
fare nebbia nella testa.
Si chinò per
raccogliere i fogli, ma uno sbandamento lo fece sbilanciare, e, per rimanere in
equilibrio, dovette sostenersi con una mano alla scrivania.
“Tutto
bene?” Morgan si era chinato a sua volta e aveva cominciato a dargli una
mano.
“Sì. Bene.
Un po’ stanco”
“Solo un po’? Per rifiutare di giocare a
scacchi con Gideon, in aereo, devi essere sfinito! Va’ a casa, Reid! E’ stata
una brutta settimana!”
Reid ripose
la cartella sulla scrivania, sedette al computer e si mise a scrivere.
“Sistemo un
paio di cose e vado…” disse.
In quel
momento JJ comparve con due bicchieri di caffé.
“Servizio al
tavolo per i miei ragazzi!” esordì.
“Cara,
quando fai così sei una dea…”
“Onorata, ma
meglio che Garcia non ti senta! Spece…caffè?”
Reid annuì,
lasciò per un attimo il suo lavoro, e si alzò per andare incontro alla
collega.
Forse fu il
movimento troppo rapido, forse quel senso di pesantezza alla testa, ma la vista
gli si annebbiò di colpo, e lo stomaco sembrò contorcersi come se si fosse
trovato in alto mare. Barcollò visibilmente e si appoggiò con la schiena alla
parete, certo che, senza quel sostegno, sarebbe caduto.
“Reid!”
Morgan fu subito da lui e lo sostenne “Ehi, che hai?”
Gli porse
una sedia al volo, su cui lui si accasciò stancamente.
“Un calo di
pressione…” minimizzò.
Ma Morgan
gli piazzò una mano sulla fronte, e si scambiò con JJ un’occhiata d’intesa.
“Scotti come
una pentola a pressione, ragazzo!” sentenziò “Marsh: si va a casa al caldo! Ti
chiamo un taxi”
Reid fece
per aprir bocca e dire che non era necessario, ma JJ lo precedette.
“Figurati!
Lo accompagno io! Ho la macchina qua sotto, e stavo andando”
Lui sforzò
un sorriso, agitando la mano a far segno che non importava.
“Ragazzi,
sto bene. All’università sono andato a lezione con la bronchite cronica per non
perdere il seminario di psicologia criminale, e quando ero ancora al liceo…”
JJ gli
piazzò teneramente l’indice sulle labbra, sfoderando un sorriso che non
ammetteva repliche.
“Ssst. Ti
accompagno io, Spence. Niente storie”
Quando
l’auto parcheggiò sotto casa di Reid, la pioggia cadeva a scroscio.
Durante il
tragitto, minuto dopo minuto, lui si era sentito sempre peggio. Aveva dei forti
brividi, la testa gli scoppiava e la vista non era a fuoco.
JJ aprì la
portiera e gli fece spazio sotto un largo ombrello: vedendolo barcollare
pericolosamente, lo prese sottobraccio, e serrò la mano attorno alla sua vita.
Quanto era esile – pensò. Tutte le volte che lo abbracciava, si trovava a
pensare che, se non avesse saputo che lui era il dottor Reid, il genio della
squadra, il profiler che a 25 anni poteva vantare un curriculum pari a nessun
altro, probabilmente lo avrebbe guardato con la tenerezza con cui, al liceo,
guardava i ragazzi delle classi inferiori, ancora così timidi, graziosi e impacciati. Ma Spencer aveva
un’intelligenza che la lasciava stordita: tutte le volte che ci parlava, finiva
col sentirsi inferiore a lui.
Scivolarono
nel portone, mettendosi al sicuro dalla pioggia battente. Veniva giù talmente
forte che, nonostante l’ombrello, l’orlo dei loro pantaloni era completamente
bagnato.
“Spence…stai
tremando” si accorse d’un tratto. Gli massaggiò la spalla, come se quel gesto
potesse scaldarlo, e lo aiutò a salire le scale.
Reid
ringraziò a mezza voce: non riusciva a distinguere i gradini, gli pareva di
avere la testa di piombo e sembrava che il peso della sua fronte volesse
trascinarlo a terra da un momento all’altro.
Cercò di
infilare le chiavi nella toppa: non ci riuscì. JJ pose la propria mano su quella
di lui, e lo aiutò a trovare l’incastro giusto. La ringraziò di nuovo, con la
voce sempre più sottile.
“Ci siamo”
annunciò lei, rassicurante, continuando ad offrire al ragazzo la spalla “Adesso,
per prima cosa, ti stendi, poi vediamo che fare”
Lo portò in
camera e lo fece sedere sul letto: Reid si accasciò sul materasso come se fosse
stato un pupazzo di stoffa.
“Spencer…?”
lo scosse lei dolcemente “Spencer…mi senti?”
La risposta
fu solo un mugolio confuso.
“Spencer,
alzati…devi metterti sotto le coperte, fa freddo…”
Lui sollevò
appena una mano e fece un piccolo gesto, come a chiedere silenzio, poi se la
portò a coprire gli occhi. JJ gli sentì la fronte: scottava. Doveva avere la
febbre altissima e continuava a tremare visibilmente.
“Speriamo
che tu abbia in casa almeno un’aspirina” disse, quasi fra sé.
Frugò
nell’armadio, e tirò fuori uno spesso pile, che stese addosso al ragazzo, poi si
sedette accanto a lui, sul bordo del letto, e gli allentò il nodo della
cravatta. Infine gli tolse le scarpe e le sfuggì un sorriso nel notare i suoi
calzini spaiati.
“Sei un
disastro, Reid!” scherzò.
Eppure, nel
dirlo, sentì uno strano nodo stingergli la bocca dello stomaco.
Lo sguardo
le cadde sul comodino. C’era una piccola fotografia, posizionata in modo che
guardasse verso il letto: raffigurava un uomo, una donna e due bambini.
Sorridevano al fotografo, come una famiglia felice. JJ aggrottò le ciglia…dove
l’aveva vista? Per un attimo le parve di averla notata una volta in mano a
Gideon. Sotto c’era una nota a penna, nella calligrafia di Reid: “Contro i
brutti sogni”. Su quel piccolo ripiano non c’era nient’altro.
Quella
stanza era veramente disadorna. Non c’erano fotografie, né quadri, né
soprammobili. Niente. Solo il letto, un armadio, e una serie di mensole piene di
libri, tutti perfettamente in ordine…così tanti che l’idea che Reid li
conoscesse probabilmente tutti a memoria le diede i brividi.
Guardò il
ragazzo che respirava piano: doveva essersi addormentato, ma il suo viso era
teso e contratto…con quella febbre, era impossibile riposare serenamente.
Uscì piano
dalla camera e si diresse in bagno, sperando di trovare un armadietto dei
medicinali o qualcosa di simile.
Anche il
resto della casa non era molto diverso: semplicità, ordine, e, ovunque, un senso
nascosto di profonda solitudine. Per un momento si stupì nel trovarsi a pensare
cosa facesse Spencer tutte le sere, tornato da lavoro: Morgan gli ripeteva
sempre che doveva uscire, divertirsi, “vivere” insomma. Ma, quando non erano
loro a trascinarlo fuori, dove andava il dottor Reid, quel ragazzo così strano e
geniale, che non sembrava fatto per vivere la vita di tutti i giorni? Lo
immaginò in quell’appartamento spoglio, seduto a leggere, e si accorse di
provare tristezza. Quel pensiero la sorprese: anche lei non viveva con la
famiglia, come, del resto, tutti gli altri membri della squadra, se si faceva
eccezione di Hotch…non c’era nulla di doloroso. Perché per Spencer non avrebbe
dovuto essere lo stesso? Eppure, l’idea di andarsene e lasciarlo lì, tutto solo,
quella sera, le appariva inaccettabile.
Trovò un
antipiretico e sciolse la pasticca in mezzo bicchiere d’acqua.
“Spence” lo
svegliò piano, scotendogli appena una spalla “ce la fai a tirarti su?”
Reid sentiva
gli occhi bruciare immensamente: fece leva su una mano e sollevò il busto,
abbastanza da permettere alla ragazza di aiutarlo a bere la medicina.
Sforzò un
debole sorriso.
“JJ…” disse
“grazie…”
“Figurati”
si affrettò a rispondere “Adesso dormi ancora un po’”
“J-Jj…”
sussurrò lui, chiudendo gli occhi e affondando il capo nel cuscino “Vai a
casa…sto meglio...”
Lei gli
sistemò la coperta fino sotto il mento.
“Dormi…”
ripeté.
Rimase
qualche minuto a guardarlo.
Pensò a
quando era stata l’ultima volta che lo aveva visto così: pallido, sfinito…vulnerabile. Il ricordo le diede un
brivido lungo la schiena. Lo schermo del computer…Spencer semi disteso su quella
sedia…Tobias Henkel. E quel terrore…il terrore che aveva avuto di non rivederlo
vivo.
Quasi senza
accorgersene, come rapita da quell’angoscia, JJ si chinò su di lui e gli posò un
bacio sulla testa. La sua fronte era veramente calda.
“Hai preso
proprio un bel febbrone, Spence”
Reid aprì
gli occhi e il suo sguardo cercò i numeri fosforescenti della sveglia: le tre di
notte.
La testa gli
faceva ancora male, ma le palpebre non erano più così pesanti ed anche i brividi
erano passati: la febbre doveva essere scesa. Si avvolse la coperta attorno alle
spalle e sporse i piedi fuori dal bordo del letto. Aveva bisogno di un bicchier
d’acqua.
Barcollò
fino alla porta e si affacciò in salotto: alla luce di una piccola abajour
lasciata accesa, vide JJ che dormiva sul suo divano.
“Oh…”
Rimase con
la bocca semi aperta qualche secondo, domandandosi quale fosse il sentimento che
provava in quell’istante. Si sentì confuso.
Poi, un
attimo dopo, ebbe chiaro cosa fare: tornò in camera, tirò fuori una coperta da
un cassetto e la stese addosso alla ragazza. Si chinò sulle ginocchia e la
guardò: l’istinto lo avrebbe spinto ad accarezzarle la testa, ma la sua mano
rimase sospesa a mezz’aria, esitante. Perché mai, si chiese Reid, a lei veniva
così naturale di passargli accanto e scompigliargli teneramente i capelli, e per
lui era un gesto tanto complicato?
In quel
momento, JJ aprì gli occhi.
“Ehi,
Spence…! Che fai in piedi?”
Reid
sussultò
“J-Jj…”
Strinse le
labbra in quel modo così “suo” e spostò lo sguardo da un'altra parte. Lei rise,
nascondendo dietro il sorriso un piccolo attimo di imbarazzo. Quale era stato il
momento in cui aveva cominciato a trovare Spencer Reid così carino?
“Torna a
letto!” gli ordinò “Comportati da malato!”
Gli piazzò
la mano sulla fronte con decisione, facendo sbilanciare Reid, che quasi dovette
tenersi al bracciolo del divano per non cadere. La situazione lo fece scoppiare
a ridere.
Sorridi ancora così e ti bacio…pensò JJ.
Invece si
alzò in piedi, gli tese la mano, e lo aiutò a tirarsi su.
“A domani,
ragazzo…” disse, posandogli le mani sulle spalle e spingendolo verso il letto “e
non svegliarmi di nuovo. Sul tuo divano si dorme benissimo”
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