Annalisa. E me.
Archetipo di *noi*.
Ho sempre avuto l’abitudine di associare ad ogni circostanza
della mia vita un certo tessuto di cielo. Non credo di averlo mai fatto
coscientemente, semplicemente mi viene naturale pensare a dei grossi nuvoloni
antracite che incombono sulla finestra della mia camera se voglio ricordarmi
del mio quindicesimo compleanno. Quel giorno ho avuto in regalo la mia prima
chitarra, un’acustica dalla cassa blu di prussia con le chiavi madreperlate:
mentre la stavo scartando ha cominciato a diluviare contro i doppi vetri in
modo opprimente. Ero quasi convinto che da un momento all’altro una grossa mano
fatta d’acqua avrebbe eluso la loro consistenza e mi si sarebbe stretta alla
gola. Intendiamoci, la pioggia mi piace. Ma il fascino di un mosaico d’azzurri
intensi decorato dalla pennellata magistrale di qualche strascico nuvoloso è
tutto particolare. Ricordo soprattutto una mattina di marzo, in cui il cielo mi
è sembrato davvero mozzafiato.
Il sole stava scavalcando la parete di roccia che mi parava
le spalle per fare capolino sulla mia testa. Era già caldo, nonostante i suoi
raggi primaverili sembrassero piuttosto timidi e la sfera lucente stessa non
avesse ancora smesso l’aureola albina tipica delle giornate invernali. La volta
era di un celeste violento, che andava attenuandosi nella corsa verso
l’orizzonte. C’era addirittura una sfumatura nontiscordardimè proprio sopra il
campanile, sulla punta estrema del promontorio su cui stava abbarbicato il
borgo vecchio. Voluttuosi strascichi di nuvolaglia galleggiavano liberi verso
ovest e sembravano condensarsi sulla linea dell’orizzonte, dove mare e cielo
riescono finalmente ad abbracciarsi. L’acqua limpida lusingava gli scogli sotto
di me e il dolce sciabordio delle onde mi cullava appena. Un marangone solitario
pescava tranquillamente a pochi metri da riva, una barchetta di pescatori
buttava l’ancora poco oltre.
Mi sono lasciato andare all’indietro sul telo decretando di
aver scelto la giornata ideale per fare sega a scuola. Credo di essermi anche
addormentato, oppure sono semplicemente rimasto tutto il tempo a sognare ad
occhi aperti, guardando il versante di roccia che correva ripido vicino a me.
Da alcune ferite della pietra spuntavano dei fili d’erba e dei fiorellini
bianchi che assomigliavano molto a piccoli gigli. Mi sembrava di riuscire a
vederli rinvigorirsi a ogni raggio di sole un po’ più velocemente, nonostante
tutto il freddo della notte era ancora impietoso con i boccioli.
Mi sono scosso dalla contemplazione soltanto quando ho
sentito uno starnuto.
Mi sono tirato su e guardato intorno e non ho visto nessuno.
Una voce dietro di me ha imprecato, allora mi sono girato e
ho visto Annalisa, la mia compagna di forca che mi sovrastava completamente
zuppa. Indossava un paio di jeans lisi un po’ ovunque e una maglietta a righe
bianche e blu ormai trasparente, piccoli rivoletti d’acqua le uscivano dalle
scarpe da ginnastica. Teneva le braccia strette contro il petto e la pancia e i
capelli fradici le aderivano alle tempie e alle guance e tremava visibilmente.
Mi ha intimato “Non ridere!”, ha starnutito di nuovo. Non so
se avrei riso, forse l’avrei semplicemente insultata con affetto. Ma sentendola
difendere il suo orgoglio ormai già ferito con tanta ostinazione anzi che
chiedermi il telo su cui ero seduto per asciugarsi mi è salito alle labbra un
sorriso lieve.
Le ho detto “Che hai fatto?” con la massima serietà, ben
sapendo che se non avessi usato un minimo di tatto non ci saremmo più parlati
per giorni. Annalisa era tremendamente permalosa, e i nostri rapporti erano già
abbastanza complicati senza che litigassimo anche per quello.
Ha sputato un “Stavo facendo un giro sui maledetti scogli” e
subito starnutito.
Mi sono alzato, ho raccolto il telo e l’ho avvolta nella
spugna morbida. Aveva una certa luce minacciosa negli occhi, ma per come
tremava sembrava davvero un pulcino. Ha borbottato “Faccio da sola”, allontanato
le mie mani dalle sue spalle.
Ho sospirato e mi sono riseduto, a guardare il mare. Il marangone
aveva smesso di pescare, adesso scivolava sull’acqua liscio e libero come un
chitarrista dopo un buon assolo. Ho detto “Non ti sembra che laggiù la linea d’orizzonte
non esista quasi? Lo specchio del mare si confonde con il cielo”, pensando che
in fondo è triste sapere come i due elementi siano completamente separati in
realtà quanto rassicurante credere che da una qualche parte là in fondo c’è una
molecola d’acqua che fa l’amore con una molecola d’aria.
Annalisa ha detto “Non dire stronzate. Se hai studiato un po’
di chimica sai benissimo che-” e starnutito per l’ennesima volta.
Io mi sono alzato, l’ho tirata contro di me e strofinata
ignorando le sue imprecazioni. L’ho tenuta stretta per qualche minuto,
appoggiando il naso vicino al suo orecchio: i suoi capelli profumavano di
fragole e ciliegie e cannella e miele e caucciù e altri frutti assurdi
nonostante il retrogusto salmastro. Forse avrei potuto spingermi un po’ più in
là, immaginare che il mio viottolo sterrato potesse incontrarsi con la sua autostrada
a tre corsie. Invece mi sono limitato a sorridere non visto, avvolgerla meglio
con le mie braccia, trascinarla giù. Lei non ha parlato, forse aveva troppo
freddo per opporsi o forse si era semplicemente rassegnata alle mie cure. Si è
seduta in mezzo alle mie gambe, dandomi la schiena, e si è aggiustata il telo
intorno alle spalle.
Le ho chiesto “Stai meglio?”, ho di nuovo sorriso non visto,
mi sono appoggiato all’indietro puntando le mani per terra.
Ha detto solo “Grazie”, e poi non ha più parlato per un
pezzo. Siamo rimasti a guardare le onde che si infrangevano a pochi passi dal
nostro scoglio finchè il campanile lontano non ha dato dodici rintocchi: per i
nostri genitori stavamo uscendo da scuola.
Le ho proposto “Prendi il mio giubbotto. Non puoi venire in
moto con i vestiti bagnati, e neanche avvolta in un telo da mare…”.
Lei ha annuito. In ogni movimento mi sembrava più morbida di
prima, meno compulsiva, anche se i suoi occhi ardevano oltranzisti. Mi sembrava
che quel piccolo incidente ci avesse reso più complici, che si stesse scoprendo
un’altra sfaccettatura di Annalisa. Che strana creatura, Annalisa. Avevamo impiegato
anni ad arrivare a quel punto d’accordo instabile, e sentivo che non era venuto
ancora fuori tutto. Ma cavolo, quello che era venuto fuori mi piaceva già
abbastanza. Magari un giorno gliel’avrei anche detto.
Alla fine le ho lasciato il mio giubbotto e mi sono girato
per l’ultima volta verso il mare, aspettando che si rivestisse. Il marangone
era ormai scomparso.
Quando mi ha avvertito che era pronta abbiamo raccolto la
nostra roba e siamo tornati su verso la strada. Siamo saliti in moto, le ho
passato un auricolare del lettore cd che tenevo sempre acceso per guidare. C’era
su La Cura. E mentre Battiato ci raccontava i nostri stessi sentimenti,
Annalisa mi stringeva i fianchi e pensava a cosa raccontare ai suoi dei vestiti
bagnati e io sorrdevo non visto e pensavo ai viottoli e alle autostrade e ai
frutti assurdi e all’orizzonte e mi chiedevo se un giorno, ricordandomi di
quella giornata, mi sarei sentito ancora così irrazionalmente felice.