The
Weak Link
Feelin'
like a
freak on a leash (You wanna see the light)
Feelin'
like I
have no release (So do I)
How
many times
have I felt disease? (You wanna see the light)
Nothing
in my
life is free... is free
Korn,
"Freak on
a Leash"
Father
into your
hands
I
commend my
spirit
Father
into your
hands
Why
have you
forsaken me?
System
Of A Down,
"Chop Suey!"
I.
Voli Pindarici
Pindar
abbandona la testa sul bancone ‒ le dita che tentano, senza
successo, di artigliare l'ultimo boccale di birra della serata. Il
vomito pizzica sul fondo della gola e ogni cosa nell'ampio salone
dell'Horny Nipples − nome di squisita raffinatezza:
nell'Antica
Lingua Corrente significa qualcosa come "il dormitorio degli
spiriti" − gira su se stessa come una turbina in procinto di
esplodere, e di sicuro c'è qualcosa di profondamente
sbagliato nel
trascorrere così il proprio trentasettesimo compleanno.
O
forse è il trentottesimo.
Non
si lava i capelli da una settimana e mezza, e una massa oleosa e
biondiccia copre parzialmente la visuale sulla scollatura generosa
della barista di ritorno − nulla per cui angustiarsi, visto
il seno
prorompente di Keyli − e ciocche unte gli finiscono in bocca
ogni
volta che cerca di parlare. Prova ad articolare una richiesta di
soccorso, perché il semplice gesto di avvicinare le dita
alla testa
e gettare all'indietro la zazzera incolta sembra al momento piuttosto
complesso, ma tutto quello che esce dalle sue labbra è una
sequela
di versi inarticolati.
«Auuo...»
biascica «... heili 'asso 'euamehi daha faha...»
Si
chiede dove sia Liliane. Lei compare sempre in questi frangenti, si
materializza accanto a lui e lo aiuta come può −
del resto, per
qualcosa che non è corporeo e nemmeno visibile al resto del
mondo
non deve essere facile dare manforte ad un quarantenne ubriaco.
Solleva la testa, inarcando il collo quel poco che basta per parlare
meglio senza vomitare tutto il contenuto del suo stomaco, e per un
attimo cerca i capelli biondi di Liliane nella folla eterogenea che
popola l'Horny Nipples.
A
parte una ragazza alta e magra con il viso coperto da tatuaggi che
cambiano continuamente colore, non c'è nessuno che le
somigli anche
solo lontanamente.
«Ehi...
Keyli...»
Alza
un po' il volume e finalmente, interrompendo l'asciugatura di un
bicchiere sudicio, la barista posa i suoi enormi occhi verdi su di
lui e arriccia il naso in un'espressione di puro disgusto.
«Oh,
ma guarda tu che cazzo di roba. Pindar, 'rcaputtana, quanta roba ti
sei scolato?!».
Apre
per bene le dita della mano destra e le agita un po', giusto per
rimarcare il concetto: cinque. Cinque birre corrette con una
damigiana di alcool etilico puro, fedeli alla consuetudine ben poco
elitaria dell'Horny Nipples.
«Finirai
per ammazzarti, imbecille. Ma dove cazzo è
Calypso?».
Pindar
cerca di trarsi in salvo con un mugolio affranto − Calypso e
le sue
infinite tiritere moraliste sono l'ultima cosa di cui ha bisogno per
raggiungere casa incolume ‒ prima che una mano insolitamente
gentile si posi sulla sua spalla destra e un viso maschile, bello pur
nella visuale sfocata dell'ubriacatura, gli si piazzi davanti.
«Posso
aiutarlo io, se non è un problema». Ha i capelli
castani, riccioli
grossolani che gli sfiorano appena i lobi delle orecchie, e occhi
marroni screziati di verde; indossa una palandrana nera abbottonata
fino al collo e guanti dello stesso colore ‒ per quello che Pindar
riesce a vedere, eccetto viso e gola non ha lasciato un singolo
centimetro di pelle scoperta. Si irrigidisce, allontanandosi un po'
dal ragazzo con un'imprecazione biascicata. Non lo conosce, non
sembra affidabile e soprattutto non ha un bel paio di tette su cui
spalmarsi in attesa che passi la sbornia.
«E
tu chi cazzo sei, scusa?». Keyli squadra il nuovo arrivato
dall'alto
in basso, le mani piantate sui fianchi generosi «Non mi pare
di
averti mai visto in sua compagnia, e io questo stronzo qui lo conosco
molto bene».
«Nybras
Berglund». Il ragazzo si inchina con aria compita
«Volevo
semplicemente dare una mano, ho davvero un'aria così
losca?».
Keyli
inarca un sopracciglio e attorciglia una ciocca di capelli neri
sull'indice, pensierosa.
«Io
sono Keylianna Moreau e sì, hai davvero un'aria
così losca. Non ti
ho mai visto da queste parti... non sarai mica del primo anello,
eh?». Nella domanda di Keyli è palpabile la
minaccia, ma Nybras non
dà il minimo segno di cedimento: solleva entrambe le mani,
sulla
difensiva, e scuote la testa.
«Senza
offesa per questa meraviglia di locale, ma non mi
ritroverei
in un posto del genere se avessi i crediti di uno che vive del primo
anello».
«Ah,
ma senti un po'. Be', per quanto mi riguarda puoi anche andartene
affancul‒»
«Keyli,
cara, non mi sembrano modi da rivolgere ad uno sconosciuto che ha
detto la pura e semplice verità sul locale». Una
voce alta, acuta
in modo forzato, spezza il momento di tensione prima che una quarta
persona si sieda con disinvoltura accanto a Pindar «E
comunque ti
avevo chiesto di andarci piano con le ordinazioni di 'sto qua, sai
che esagera sempre».
Keyli
sbuffa con aria contrariata, Nybras strabuzza gli occhi e Pindar
emette un gemito disperato.
«Ha...
lypso».
«Tesoro,
se non riesci nemmeno a pronunciare il mio nome sei messo davvero
male. Adesso ti riaccompagno a casa, non preoccuparti. Comunque,
Berglund, checché ne dica il nostro comune amico, io sono
Calypso».
L'individuo
di nome Calypso si fa notare non solo per la statura ‒ supera di
tutta la testa qualsiasi altro avventore del locale ‒ ma anche per
il vestiario piuttosto peculiare di cui fa sfoggio: indossa un
abitino striminzito di pailette che cangiano dal verde al viola a
seconda della luce, un paio di stivali di vernice azzurra e una
cascata di bigiotteria multicolore, di tutte le sfumature comprese
tra il giallo e il blu. Calze a rete di un arancione così
carico da
sembrare fosforescente accarezzano gambe lunghe, atletiche e
abbronzate; i capelli, una massa di boccoli rosa shocking molto
curati, sono intrecciati a tutta una serie di pendagli e nastri dalle
forme più inconsuete.
Nybras
Berglund impiega qualche secondo a recuperare la propria compostezza
quando si rende conto di trovarsi di fronte ad un uomo − i
tratti
marcati e spigolosi del viso di Calypso lasciano poco spazio a
congetture, così come le sue mani grandi e nodose e la
totale
assenza di seno. Sotto il falsetto aggraziato che ammanta le sue
parole può sentire senza nessuno sforzo il timbro basso e
carezzevole di una voce maschile, per quanto sapientemente nascosta.
«Salve...
io−»
«Non
disturbarti, Berglund. Sarei deliziata di trascorrere del tempo con
te, ma Pindar sembra sul punto di vomitare anche l'anima e casa sua
è
lontana. Scusami».
Calypso
afferra Pindar come se fosse un sacco vuoto e se lo carica in spalla,
attirando gli sguardi scioccati di parecchi avventori; prima di
andarsene si avvicina a Nybras − socchiude gli occhi, di un
verde
cupo che scintilla nella penombra − e sussurra:
«Non so cosa
volessi dal mio amico, ma la prossima volta farai meglio ad
avvicinarlo quando è sobrio o quando io non sono nei
paraggi.
Altrimenti ti spezzo le gambe».
Il
ragazzo fa istintivamente un passo indietro, mentre sul viso di
Calypso affiora un sorriso melenso.
«Ci
si vede, pasticcino».
ᵜ
Il
profumo di caffè appena fatto è la miglior
accoglienza possibile
per chi si prepara ad affrontare un dopo sbronza. Pindar lo sa bene e
si avvoltola pigramente nelle lenzuola fresche di bucato mentre, al
di là delle palpebre serrate e di un paio di porte mezze
rotte,
Calypso si affaccenda in cucina tra il tintinnio delle tazzine e la
vibrazione cupa di un frigorifero ormai da buttare.
Qualche
ricordo si riaffaccia nella mente in subbuglio, le dita fresche di
Calypso sulla fronte, a scostare i capelli, il bruciore del vomito in
gola e il contatto piacevole con la pietra gelata del bagno. Non
è
la prima volta che lo riaccompagna a casa in condizioni pietose, e
Pindar si chiede davvero perché lo faccia − non si
considera un
tipo simpatico, affabile, o comunque qualcuno con cui valga la pena
trascorrere del tempo. Se potesse, lui stesso eviterebbe la propria
compagnia.
«Le
fogne hanno tracimato di nuovo». All'annuncio di Calypso
seguono un
paio di imprecazioni e un lungo lamento «Andiamo, non dirmi
che ti
dispiace avere una scusa per rimanere chiuso in casa come fai tutti
i giorni».
Pindar
si tira a sedere con uno sbuffo e appoggia la schiena alla testiera
del letto − un bancale rivestito con gli stracci che ha
raccattato
in giro per il quartiere − prendendosi qualche secondo per
osservare il caos in cui è immersa la sua stanza. Il
pavimento −
una distesa di anonime piastrelle grigiognole sbeccate e coperte di
crepe − è nascosto da una coltre di panni sporchi
irrigiditi dal
tempo e confezioni di cibo take-away buttate un po' ovunque; agli
angoli del soffitto prosperano colonie di ragni che Pindar non ha
né
la voglia né la crudeltà di eliminare, e sulle
pareti spoglie fanno
bella mostra di sé chiazze fangose di origine non ben
precisata. Non
c'è niente che indichi la presenza di una persona, eccetto
la
sporcizia.
Calypso
entra nella stanza brandendo un vassoio di peltro su cui ha
ammonticchiato vari biscotti e una tazza di caffè fumante,
si siede
sulla sponda del letto e sorride a Pindar in un modo che promette
allo stesso modo cure e tenerezze e tremende rappresaglie. La tuta
giallo limone che indossa crea un contrasto stranamente allegro con
l'arredamento squallido, e Pindar si scopre a pensare che è
per
merito di Calypso se in casa sua, ogni tanto, c'è un po' di
colore.
«Allora,
come ti senti?».
«Mah,
non ho nemmeno troppo mal di testa. Non è stata la serata
peggiore
della mia vita».
«Oh,
no. Stavolta sei riuscito a non molestare nessuno e a non procurarti
qualche livido prima di tornare a casa». Ha sempre odiato il
sarcasmo corrosivo di quella che, in fin dei conti, è la sua
unica
amica «A proposito. Hai una vaga idea di chi fosse il tipo
che
rompeva i coglioni? Quello vestito di nero dalla testa ai
piedi».
Pindar
butta giù un sorso di caffè rigenerante e scuote
la testa, pesca un
paio di biscotti punteggiati di cioccolato e li sgranocchia,
affamato.
«Probabilmente
un creditore, ma non mi ricordo bene la sua faccia. Come ha detto di
chiamarsi?».
«Nybras
Berglund. Nessuna delle mie conoscenze ha mai sentito parlare di lui,
e questo è piuttosto bizzarro».
Calypso intrattiene rapporti
mercantili e/o amichevoli con mezza città, sempre pronta ad
invischiarsi in ogni genere di affari loschi, e può vantare
una tale
quantità di fonti di informazioni che la mancata
identificazione di
Berglund suona, effettivamente, sospetta.
«Se
davvero, come penso, gli devo dei crediti... be', in quel caso
sarà
lui a presentarsi di nuovo. Chi ti presta la grana non dimentica mai
di riprendersela».
«Siamo
tutti abituati ai pazzi furiosi con cui ti indebiti, Slumboy».
Calypso sa che detesta quel soprannome, e proprio in virtù
di questo
lo usa tutte le volte che può «Ma questo aveva
qualcosa di strano.
Non sembrava più pericoloso di quel vecchio tossico che il
mese
scorso per poco non ti ha accoltellato, ma i suoi vestiti
erano...»
arriccia il naso «... puliti. E con "puliti" intendo dire
che non puzzavano di fogna come quelli di chi vive qui da
sempre».
Pindar
smette di sorseggiare il caffè e inarca un sopracciglio,
cercando di
raccogliere un po' di concentrazione nella palude dolorante che
è il
suo cervello.
«Stai
dicendo che potrebbe essere del primo anello?». È
un opzione
assurda persino per lui, che si imbarca spesso in speculazioni del
tutto prive di senso, ma lo fa rabbrividire comunque dal disgusto
«Cazzo, mi ha pure toccato. Che dici, per te mi ha passato
qualcosa?».
Calypso
fa spallucce.
«Quelle
sulle epidemie che sono scoppiate lassù potrebbero essere
soltanto
voci. Anche perché nel primo settore riescono a curare tutte
le
malattie senza sforzo... dicono che sia perché usano gli
Elelu,
no?».
Negli
occhi azzurri di Pindar passa un'ombra, le dita si stringono
impercettibilmente attorno alla tazza bollente.
«Così
dicono. Com'è la situazione, là fuori?».
«Puoi
affacciarti e rendertene conto da solo».
Ci
vuole qualche secondo perché l'uomo, appesantito da un
intorpidimento diffuso e sgradevole, riesca a liberarsi dal viluppo
di lenzuola e scenda dal letto, barcollando. L'unica finestra della
stanza è un quadrato di cinquanta centimetri di lato tappato
alla
meno peggio con pezzi di vetro rimediati chissà dove e
rimasugli di
cartone pesante, infradiciato dalla pioggia, ma offre una visuale
notevole del corso principale del secondo anello. Spazza via la
condensa con una mano rattrappita, Pindar, e appoggia la fronte al
muro scrostato.
«Cazzo,
è un bel bordello».
Molnavje,
la strada più grande e frequentata del secondo anello della
città
di Ecbàtana, è un caos di fango e carcasse di
piccoli animali che
scivolano sul selciato e si ammucchiano nei canali di scolo otturati,
di motociclette abbandonate su un fianco e autobus sventrati e
deformati dall'impatto con le pareti rocciose della montagna. Succede
ogni volta che piove: le fogne, da troppi anni abbandonate a
sé
stesse, si colmano di acqua e rifiuti e smettono di funzionare; i
tombini saltano, geyser di fango e detriti marcescenti invadono le
corsie pedonali, i negozi sbarrano le entrate e le case al pian
terreno vengono travolte da un'inondazione di liquami. Il fetore
è
così forte che chi abita in una delle tane affacciate sulla
strada
mura le finestre o le copre con qualsiasi cosa abbia a disposizione,
perché quel lezzo, che si incolla alle pareti e impregna i
capelli e
i tessuti, nemmeno dopo la morte andrà più via.
La
fiumana scende verso il basso senza apparente interruzione, diretta
verso gli slum del terzo anello − dove, probabilmente,
ristagnerà
per settimane prima che l'amministrazione riesca a pomparla via.
Accarezza pigramente le basi dei pinnacoli rocciosi in cui la gente
di Ecbàtana ha scavato le proprie case, si infiltra nelle
cantine e
sommerge qualcuno dei ponticelli tesi tra una guglia e l'altra,
strappando via le funi marce che li assicurano a robusti chiodi
conficcati nella pietra. Più vicine alla cima della
montagna, una
rete di grigio che ne avvolge i fianchi e i crinali come un sudario
funebre, le strade del primo anello non sembrano in condizioni
migliori − non fosse per le enormi muraglie di calcestruzzo
che
separano i tre settori, i rifiuti si accumulerebbero soltanto in
basso, sulle pendici del monte, e invece ristagnano equamente in ogni
angolo della città. Il lato positivo è che anche
i ricchi sono
costretti a godersi l'olezzo delle proprie miserie.
«Mi
chiedo perché l'amministrazione cittadina non spenda un po'
di soldi
per sistemare le fogne. Guarda che schifo... e io che mi consideravo
un privilegiato quando mi hanno rifilato questo buco con vista su
Molnavje».
«Puoi
effettivamente considerarti un privilegiato,» celia Calypso,
frugando pensosamente tra i biscotti «hai sia un magnifico
panorama
sul cuore pulsante del secondo anello che una fantastica vista
fiume». Ridacchia «E la puzza qui non
è molto peggiore che da
me, credimi».
«La
tua simpatia mi uccide».
«Non
più di quanto faccia l'alcool, Slumboy».
Pindar
sbuffa e lancia la tazza su un mucchio di vestiti, poi si sfila la
maglietta e i pantaloni come se Calypso non fosse nemmeno
lì. Uno
dei lati positivi dell'essere mentalmente disturbati, secondo Pindar,
è il fatto che le persone non si offendono se le ignori o se
ti
comporti in maniera strana davanti a loro: fanno finta di non vedere
o, come nel caso di Calypso, partecipano lietamente della tua stessa
follia.
Il
bagno, un bugigattolo di un paio di metri quadri scavati nel granito
rossastro della montagna, comprende una grata che sostituisce il
pavimento e un tubo di ferro arrugginito che sbuca dalla parete e
vomita costantemente una cascatella di acqua mista a terra. Una
nicchia nella parete ospita grossi pezzi di sapone fatto a mano,
simile a burro grigiastro e puzzolente di cenere, e Pindar se ne
strofina uno sulla testa, a lungo, nel tentativo di rendersi
presentabile. Sente la cute bruciare, irritata, ma non se ne cura:
dopo tanti anni nel secondo anello si è abituato ad una vita
spartana, probabilmente le essenze fruttate dei detergenti del primo
settore finirebbero per disgustarlo.
«Devi
buttare giù un po' di pancia». Calypso, nel
frattempo, sta facendo
piazza pulita dei biscotti «Keyli non ti verrà mai
dietro, se
continui così».
«Keyli
ha ventidue anni e io sono brutto, Cal». Non c'è
amarezza nelle
parole di Pindar, solo una vuota constatazione «Chi vuoi che
mi
guardi?».
Percepisce
un sospiro, ma il rumore dell'acqua che gocciola nelle orecchie
è
troppo forte perché ne sia certo.
«Liliane
ti ha più parlato?». La voce di Calypso
è modulata, incerta, e chi
la conosce sa quanto una circostanza del genere sia rara. Pindar si
volta verso di lei e sorride, senza smettere di strofinare la schiuma
grigia sui capelli, poi inclina la testa da una parte e si appoggia
al muro come se improvvisamente gli mancassero le forze. Sospira.
«Lei
mi parla sempre, Cal. Lei è sempre con me, tutto il
tempo». Negli
occhi di Pindar risplende una felicità così
intensa che Calypso non
se la sente di contraddirlo, ma non può impedirsi di
indietreggiare
leggermente «A volte, quando la puzza di putrefazione
è meno forte,
riesco addirittura a sentire il suo profumo».
Calypso
non può esserne sicura, non con la testa di Pindar sotto il
getto
dell'acqua, ma le sembra che i suoi occhi si siano fatti rossi e
lucidi, prossimi al pianto. «Sei proprio un vecchio
pazzo,» mormora
«matto da rinchiudere».
Nonostante
tutto c'è qualcosa in lui che la affascina, forse il totale
abbandono del suo sguardo o la lentezza studiata e metodica dei
gesti, o la voce roca che a tratti sembra ruvida come il granito e
poi, d'improvviso, diventa carezzevole come l'eco montana. Il viso di
Pindar, che molti non esiterebbero a definire "brutto", è
in realtà un collage di tratti spigolosi e curve morbide, di
ombre
decise e porzioni quasi amorfe, nell'insieme poco armoniose ma
decisamente affascinanti.
È
una bellezza che necessita di numerosi presupposti per essere
compresa, e lo stesso Pindar fatica a capire le lodi che la sua amica
spesso gli rivolge.
«Sono
felicemente pazzo». Ridacchia; quando esce dal bagno, nudo e
gocciolante, Calypso pesca a caso dei vestiti e glieli lancia
«È
uno status solo mio, no? A te queste cose di solito
piacciono».
«A
me importa solo che non ti succeda niente, Slumboy. Per il resto puoi
vedere quello che vuoi».
Con
la testa infilata in una felpa marrone e un braccio incastrato nel
tentativo di raggiungere la manica, la risposta di Pindar viene quasi
soffocata dalla stoffa.
«Se
smettessi di vederla, Cal, mi ammazzerei. Per ora è l'unica
cosa che
mi tiene in vita».
_________________________
_ _ _
So
che gli habitué della sezione Fantasy dovranno trattenersi
dal
lanciarmi appresso tutto quello che si trovano a portata di mano, ma
questa storia partecipa al contest "A
Strange Fantasy" ed
è, perciò, particolare sotto
molti punti di vista. L'ho
ambientata in un mondo fantastico che ricalca approssimativamente le
caratteristiche della nostra epoca moderna, più qualche
aggiunta per
rendere il tutto più frizzante; Ecbàtana, la
città in cui la
storia è ambientata, prende il nome da quella roccaforte
persiana
circondata da sette cerchie di mura che fu conquistata da Alessandro
Il Grande (yeah, scarsa fantasia per i nomi).
Pindar
è un protagonista piuttosto atipico per un fantasy, lo so,
ma
sentivo il bisogno di creare un personaggio del genere. Mi auguro che
il primo capitolo vi sia piaciuto e che i successivi (ne mancano
altri quattro, già scritti, più un breve epilogo)
continuino a
divertirvi.
See
you soon,
GreedFan
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