Chapter 01 - The Patron Saint Of Liars And
Fakes
Ci sono diverse cose di cui i miei genitori non sono a conoscenza.
Ad esempio, non sanno che quando avevo quattro, o forse erano cinque,
anni ho picchiato il mio amichetto del parco giochi. In
realtà non ricordo nemmeno che faccia avesse, o il suo
nome…boh, forse Bruce, o Billy, Bob, non
so…ricordo solo che c’era una B di mezzo.
Fu una scena quasi comica: ci pestammo, da bravi discoli, per il
possesso di un’altalena, manco a dirlo la più
bella, quella che non emetteva il minimo cigolìo, ma
soprattutto l’unica del parchetto; e nessuno a dividerci.
Eravamo solo io e lui, quella mattina.
Dopo i pianti e gli strepiti di circostanza, però, accadde
che il bimbo farfugliò che non avremmo dovuto dire nulla
della nostra scaramuccia ai rispettivi genitori. La promessa che ci
scambiammo era così solenne che non me la sentii di venirle
meno, e così mantenni la parola. A quanto pare anche lui,
visto che nessuno venne a reclamare alla nostra porta che
“quella furia di tua figlia ha mollato un cazzotto al mio
bambino!”, o comunque qualcosa di simile. Diciamo che avevamo
entrambi dei vantaggi da trarre: io non sarei dovuta andare a testa a
bassa a chiedere scusa, e lui non sarebbe stato tacciato già
così presto di essere una specie di checca. Ovviamente,
queste cose, due bambini di quattro o cinque anni non le sfiorano
nemmeno col pensiero.
Quanto ai lividi, che inevitabilmente mi ero procurata…
“Sono caduta dallo scivolo”.
Caso archiviato.
Ma fosse solo questo, ciò di cui i miei sono
all’oscuro.
Non sanno che fumo da quando avevo quindici anni, e che la prima
sigaretta, una Lucky Strike, me lo ricordo come se fosse ieri, me la
offrì proprio Dharma, nel bagno della scuola. Se lo
sapessero, smetterebbero di idolatrarla. La adorano, letteralmente,
come se mi avesse portato chissà quale salvezza, ai loro
occhi. In realtà se c’è qualcuno che
deve essere legittimato ad adorarla, beh, quel qualcuno sono io. Mi ha
salvato da loro, non è cosa da poco.
Ma non voglio smontare le loro convinzioni, forse perché ho
paura di un non del tutto improbabile effetto
‘domino’, che contribuisca a far crollare anche le
mie, ed è per questo che tutte le assenze che facevamo, a
giro per caffè, e poi in libreria, o nei negozi di dischi, o
quelli di strumenti musicali, dove rimanevo fissa davanti alla parete
delle chitarre, sono pressoché sconosciute agli abitanti di
casa Root. Sì, sempre loro. I miei genitori.
Le chitarre potevo soltanto stare a guardarle. Non avevo soldi per
prendermene una, e ai miei questo genere di cose non sono mai piaciute,
per cui non avrebbero mai acconsentito a compramene una. Lo so
perché chiedevo di continuo, più o meno
velatamente.
“Mi piacerebbe imparare a suonare la
chitarra…”
“Scordatelo.”
Col passare del tempo nemmeno lasciavano che la mia timida richiesta
finisse di fluire dalla bocca. Mi fermavano al ‘mi
piacerebbe’, ma che potevo farci. Sono sempre stati un
po’ all’antica, e spartani nella condotta di vita,
strana abitudine per dove abitavamo, e non sono mai stata quel genere
di persona io, decisamente, per cui cercavo di arrangiarmi come potevo
e , devo dire, è andata benissimo. Ormai sono anni che
lavoro nel negozio di Mike, qui a Brooklyn, e questo, almeno, lo sanno.
Non è che approvino, ma sul lavoro non si discute: lo so che
avrebbero voluto che studiassi per diventare architetto, ma proprio non
ci sono portata, e così, ovviamente, si prende quello che
capita. Devo dire che il mio è un impiego altamente
invidiabile, voglio dire, paga ottima, orario part-time, che diventa
full quando Mike non sta bene, posso mettere la musica che voglio, e
starmene circondata da dischi di ogni tipo, vinili, cd, dvd.
È il paradiso.
Beh, sì, non l’avevo specificato, è un
negozio di dischi, di quelli vecchio stile, un po’
bugigattolo stipato all’inverosimile di materiale e col
retrobottega perennemente in disordine.
Adoro quel posto. Quando non girano molti clienti puoi anche fermarti a
pensare, magari davanti a un frappuccino di Starbucks e con i Pink
Floyd di sottofondo. E se sei incazzato, puoi sparare i Metallica, o i
Pantera, gli Anthrax, o chiunque altro per loro, e Mike non dice
niente, non batte ciglio, perché a lui la musica piace
tutta, e non discuterà mai i tuoi gusti, anche se dentro di
sé potrebbe pensare che siano privi di spessore, o dettati
dalla moda del momento. Però te lo fa capire
perché, tempo mezz’ora, e ti passa un album a
caso, di quelli che preferisce, e sussurra: “Te lo scalo
dalla paga. Ascoltatelo, merita.”
La prima volta è successo quando ho avuto
l’azzardo di dire che gli Strokes non sono poi
così male.
Mi ha detratto i Velvet Underground. I primi due. Quello della banana
di Andy Warhol in copertina, e White Light / White Heat. E io mi fido
di lui, così quando sono tornata a casa li ho messi, uno
dopo l’altro, nello stereo, e gli Strokes mi sono sembrati
una cagata, in confronto.
Devo molto, a Mike. Mi ha dato un lavoro, consentendomi così
di non rubare più dischi a giro (c’è da
dirlo? Vabbè, sì. Anche questa è una
cosa che sfugge ai miei.), di andare a vivere da sola, o meglio, con
Dharma, il suo gatto e il suo basso, e di comprarmi quella bella
chitarra che mi folgorò anni prima, e che adesso mi vanto di
saper suonare quanto basta per far parte di una band e non fare figure
di merda durante i live.
Tutto questo grazie a lui, e a Ronnie.
Veronica. Sua sorella.
Lei sì che sa suonare, cavolo. E infatti ho approfittato, e
mi sono fatta insegnare le nozioni fondamentali. Si stupì
anche lei dei progressi e la determinazione che acquisivo col tempo, e
mi spronava in tutti modi. Mi ha anche portato a comprare la chitarra.
Una Epiphone Les Paul, di un lucido e brillante blu elettrico. Sono
talmente innamorata della mia sei corde che ci dormirei anche, ma, dato
il mio sonno turbolento, non è un’idea da
contemplare, se non come una fantasia piuttosto divertente.
“Leslie, io dico che sei pronta” mi disse, quel
giorno. In quel momento stavo provando una Fender, credo fosse una
Telecaster.
“A fare che?” le chiesi, distogliendo la mia
attenzione dallo strumento e fissandola piuttosto sbalestrata.
“A suonare in una band, che domande!”
“Beh, se non specifichi…non sono mica
telepatica…e comunque con chi suonerei, che siamo solo io e
Dharma? Manca tutto il resto.”
“Non è proprio esatto…”
“Ah…quindi?” continuavo a chiedere, con
la faccia stolida.
“Avete anche un’altra chitarra” rispose,
finalmente, indicandosi.
“E il tuo gruppo? Aspetta,
eh….com’è che vi chiamate?”
“Heaven Is Good For Heroes…eh, Leslie, siamo in
rotta.”
“Ah sì?” esclamai, sbigottita. Ronnie
annuì, e nulla più.
“Dunque abbiamo bisogno solo di una voce e una
batteria!”
“Abbiamo anche la batteria. Charlie ha detto che sarebbe un
piacere, per lei, continuare a suonare con me.”
“Grandioso” farfugliai, sfiorando distrattamente le
corde della Telecaster, o quello che era.
“Però voglio un nome migliore per la band, non
offenderti, Ronnie, ma quel coso fa veramente pena!”
affermai, e lei rise. Posai la Fender e mi concentrai su quella
Epiphone. Una Gibson mi sembrava ancora troppo, per il mio livello. La
provai, me ne innamorai, la portai a casa e accarezzai le sue corde
tutta la notte, tanto che Dharma, ormai arresasi alla prospettiva di
non chiudere occhio almeno fino a che non fossi andata a lavorare,
prese il basso e si mise a suonare con me. Una bella jam session, a
essere sinceri.
È passato un anno e mezzo, da quel giorno. Stiamo suonando
un po’ a giro per la città, e anche nei dintorni,
New Jersey e posti del genere, e staremmo anche cercando di incidere
qualche pezzo, tra la valanga di quelli che abbiamo scritto, ma la
quantità di soldi che abbiamo è quella che
è, per cui ancora nulla di fatto.
E così, ho una band.
Ma, ovviamente, i miei ancora non lo sanno.
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