His
Breath of Life
Aleggiava
uno strano silenzio nel suo appartamento, quella notte. Certo, era
presente il
ticchettio insistente dell’orologio nel corridoio, il rumore
rilassante delle
macchine che passavano sull’asfalto bagnato, il ronzio
fastidioso del suo
frigorifero proveniente dalla cucina, ma il silenzio a cui si riferiva
stava
avendo spazio nella sua mente. La privazione di pensieri stimolanti, di
azione,
adrenalina e spirito d’avventura lo rendevano insensibile al
mondo. Per questo,
quando si svegliava nel cuore della notte, ciò che riusciva
a creare dentro e
intorno a sé era solo silenzio, stancante e snervante
silenzio.
Scalciò le coperte,
annoiato da tutto quel
tepore e quella solitudine che potevano essere associate a un vecchio
signore
senza più voglia di aprire gli occhi al mattino e non a un
giovane appena
sbarcato dall’angosciante mare dell’adolescenza. Si
alzò in piedi, strofinandosi
il viso stanco con una mano e apprezzando i brividi di freddo dovuti
alla
scarsa temperatura.
Silenzio.
Esso
lo seguì come un’ombra fino al soggiorno, dove
John accese la televisione,
posata su una vecchia cassapanca, cercando di svagarsi con deplorevoli
risultati. Trovò un documentario sulla riproduzione delle
cicale, un film
romantico datato anni ’70 e il telegiornale notturno. Quasi sperò,
vedendo la battaglia che
imperversava in Afghanistan, che qualcuno stesse reclutando giovani
promesse.
Avrebbe fatto faville, sul campo di battaglia, se lo sentiva fin nelle
viscere.
Lui era nato per sentire il vento sferzargli il volto, le gambe dolere
per la
stanchezza e la testa piena di euforia. Era quello che gli serviva, la
sua
medicina quel silenzio che aveva sempre oppresso la sua vita.
Chiuse
gli occhi per un istante, lasciando che la rabbia per quel bilocale, il
suo
misero lavoro al bar, la sorella in crisi emotiva e per la sua intera
vita da
pacato giovanotto senza roseo futuro lo investisse come
un’onda anomala. Quella
sensazione lo riempì tutto per un infinito istante,
facendogli pompare il cuore
più forte e tendere i muscoli; riaprì gli occhi e
ritornò alla normalità.
Una
luce improvvisa inondò la stanza, interrompendo la sua
forzata attenzione su
uno spot pubblicitario.
Scattò
in piedi ancora prima di pensare, osservando dalla finestra
un’elegante BMW
nera parcheggiare davanti al cancello scrostato del condominio. Tolse
un po’ di
condensa con la mano, guardando meglio ciò che stava
avvenendo fuori.
Era
strano che qualcuno si fermasse a quell’ora della notte,
soprattutto in quella
zona periferica della città, a quasi un’ora dal
centro.
I
fari dell’automobile si spensero e calò di nuovo
l’oscurità, interrotta
solamente, in alternanza, dal lampione guasto al centro della via.
Riuscì a
scorgere la figura di un uomo, con il volto nascosto dai capelli,
dirigersi
frettolosamente fino al cancello, scavalcarlo con un balzo e proseguire
nel
piccolo cortile dei condomini, prima che il buio lo inghiottisse.
John
sussultò mentre la macchina scompariva a fari spenti nella
notte. Provò
un’emozione mai sentita prima attorcigliargli lo stomaco e
mandargli una
scarica al cervello. Colui che aveva visto, molto probabilmente, era un
ladro.
Indossò frettolosamente dei pantaloni slavati e un maglione
largo, afferrando
un coltello dal tavolo della cucina prima di aprire silenziosamente la
porta d’ingresso.
Chiunque
avesse avuto voglia di giocare con lui, o con uno degli anziani
condomini che
dormivano placidamente nei loro letti, avrebbe trovato una brutta
sorpresa ad
attenderlo: John Watson stava avendo un lungo periodo di giornate no,
senza
alcuno sfogo per rilassarsi.
Posò
i piedi sul pianerottolo quando sentì lo sconosciuto salire
le scale
velocemente. John aprì la bocca in cerca di aria, mettendosi
in una buona
posizione di difesa; la sua testa era in subbuglio e il cuore batteva
così
forte da poterlo ascoltare nelle orecchie.
Rumore.
Gli
era già successo di incontrare dei delinquenti, quando era
piccolo e nessuno
sapeva proteggerlo. Aveva giurato a se stesso, da quella notte, che
sarebbe
stato forte per sempre.
La
luce artificiale si accese di colpo, facendogli socchiudere gli occhi.
Cosa
diavolo…?, pensò, nel momento in cui
riuscì nuovamente ad usare la vista. Notò
un giovane ragazzo con un lungo cappotto scuro e un borsone da viaggio
di
fronte a lui, con un sopracciglio alzato.
Oh.
Rimase per pochi istanti in quella posizione, fissandolo, prima di
decretare
che si fosse già messo abbastanza in ridicolo con quel
giovane. Raddrizzò le
spalle, schiarendosi la voce. “Piacere, John Watson, immagino
tu sia venuto per
il 221B.” Il ragazzo si limitò ad annuire,
osservando il coltello nella sua
mano.
“Lo
avresti usato?” Pronunciò poi, con voce profonda.
John batté le palpebre un
paio di volte, perplesso.
“Forse,
credevo fossi un criminale.”
“Supposizione
stupida, infatti. Se fossi stato un criminale non ti saresti nemmeno
accorto
della mia presenza.” John spostò il peso da un
piede all’altro, guardando
l’altro prendere un mazzo di chiavi dalla tasca del cappotto.
“Io
abito al 221A. Non ci sono molti giovani, qui.” Disse,
appoggiando una spalla
allo stipite, incrociando le braccia.
“Meglio,
non ho un buon rapporto.”
“Con
i ragazzi?”
“Con
le persone.” Sentenziò, abbassando la maniglia e
aprendo la porta d’ingresso.
“Posso
darti una mano con i bagagli, se vuoi.”
“Non
ho bagagli.” John sospirò, capendo quanto quella
conversazione nel cuore della
notte, con un coltello in mano e uno sconosciuto sul pianerottolo,
fosse
assurda.
“Se
hai bisogno di qualunque cosa, puoi bussare alla mia porta.”
Borbottò, entrando
nel suo appartamento, affianco a quello del nuovo arrivato.
“Davvero?”
Chiese l’altro, dopo un attimo di silenzio, prima che John
chiudesse il
portone. Voltò il viso verso di lui.
“Certo.”
Disse, aggrottando le sopracciglia.
“Bene,
okay.” Mosse le mani contro l’uscio, prima di
parlare nuovamente. “Il mio nome
è Sherlock Holmes.”
“Buonanotte,
Sherlock.” John si sentiva sulle spine davanti a quegli occhi
inquisitori, così
chiuse la porta alle sue spalle, sospirando.
Sperava
solo che non avrebbe cominciato a tenere alta la radio fino a notte
tarda o a
combinare guai. Aveva già fin troppi problemi a cui badare.
Per
una settimana John osservò in silenzio il nuovo arrivato,
quando non aveva i
turni o non andava ad aiutare sua madre. Lo stava studiando
perché c’era
qualcosa di diverso in lui, qualcosa che lo faceva ricadere tra i suoi
pensieri, qualunque argomento stesse valutando.
Era
bizzarro, ecco tutto. Lo trovava una mattina con un cesto di strani
insetti e
quella dopo con una provetta fumante. Non parlava mai, però.
Accennava un gesto
con la testa e spariva nel suo appartamento come un’ombra.
Il
lunedì successivo al suo arrivo, John decise di provare a
fare un primo,
incerto passo verso quel ragazzo, dopo le lamentele a causa del chiasso
della
signora al piano di sotto. Scese a prendere la posta con tutta calma,
ringraziando che almeno il lunedì avesse la giornata libera
per riposarsi.
Azzardò uno sguardo alla posta del nuovo coinquilino e la
vide piena di
biglietti elegantemente ripiegati. Li prese delicatamente ed
andò a bussare
alla sua porta.
Per
alcuni istanti si sentì solo il rumore di un trapano e un
ronzare fastidioso
prima che Sherlock aprisse uno spiraglio, facendo sbucare solo
metà volto.
“Ciao!” Salutò, schiarendosi la voce.
Sherlock sembrò appena stupito, prima di
ritornare impassibile.
“No.”
John aprì la bocca, confuso.
“No?”
“No,
non smetterò di far baccano solo perché la
signora Turner vuole riposare. Sto
lavorando.”
“Oh,
no, sono venuto per la posta.” John gli tese le lettere con
un sorriso
cordiale. Sherlock le osservò come se fossero sotto ad un
microscopio.
“Non
ho bisogno di aiuto.”
“Sto
solo cercando di essere un vicino cortese!”
Ribatté stizzito dall’atteggiamento
irremovibile dell’altro.
“Non
sono un tipo con cui le persone sono cortesi.” John lo
guardò per la prima
volta negli occhi e riuscì a leggerci una profonda
solitudine, specchio della
sua, dietro mura di cemento.
“Io
non sono le persone.”
Sherlock
sembrò apprezzare la risposta che gli fece affiorare un
lieve sorriso.
“Neanche
io.” Aprì di più la porta e
sparì in cucina, spegnendo quel rumore incessante
di sottofondo, prima di buttare tutta la posta nel fuoco.
“Potevano
essere importanti.” Asserì, facendosi largo tra le
pile di fogli sul pavimento,
guardandosi intorno.
L’appartamento
sembrava aver subito una rivoluzione. C’era un teschio sopra
al camino, buchi
nel muro – era forse quello il rumore che aveva sentito la
notte precedente,
quando ancora non riusciva a chiudere occhio? –, macchie di
caffè sul tavolo,
strani odori nell’aria e un violino su una scatola, vicino a
quelle che
sembravano ossa. John pensava di trovarsi in una realtà
parallela.
“Sono
sicuro che non lo fossero” John sorrise, sedendosi su una
sedia e guardando
l’altro girovagare per casa.
“Quindi
tu lavori a casa? Una specie di impiegato?”
Domandò, già sicuro della risposta.
Sherlock si fermò davanti a lui, con un’antologia
tra le mani.
“E’
questo che credi?” Ribatté con il solito tono a
cui John si stava man mano
abituando. Sapeva cosa Sherlock cercava di fare: sondare il terreno,
vedere se
anche lui sarebbe finito nell’angolo dei non-scelti.
“Dimmelo
tu, sembri abbastanza sicuro di ciò che fai.”
Sherlock
si sistemò la camicia elegante, fissandolo negli occhi e
sondandogli l’anima.
“Sono
un consulente. Un consulente investigativo.”
John
si passò le mani sudate sui jeans, non abbassando lo sguardo
nemmeno per un
secondo.
“Cosa
significa?”
“Significa
che quando la polizia non sa come risolvere un caso, ovvero sempre,
allora
consulta me.”
John
rise, incredulo.
“La
polizia non consulta giovani dilettanti.”
Qualcosa
nell’atteggiamento di Sherlock cambiò radicalmente
mentre i suoi occhi vagavano
su di lui.
“Davvero?
Potrei dire che stavi studiando una facoltà che ti piaceva
molto, medicina. Lo
si capisce dal modo in cui analizzi le persone, occhio clinico e dal
portachiavi con il serpente attorcigliato al bastone. Ma hai lasciato
la
facoltà. Ti svegli troppo presto per le lezioni o per i
turni da tirocinio, a
volte ci incontriamo sulle scale. Lavori per sopravvivere, vivi da
solo.
Vent’anni e già questo problema? Il
perché è ovvio, la famiglia. Probabilmente
non ci vai d’accordo, non hai ricevuto nessuna visita in
questi giorni. Ma c’è
dell’altro.” Sherlock si abbassò sulle
ginocchia, continuando a fissarlo. “Il
coltello. Lo avresti usato, non avresti esitato nonostante la tua anima
da
dottore. Tu sei dipendente da adrenalina, non è
così? La luce nei tuoi occhi,
il modo in cui non riesci a dormire la notte, come reagisci agli
stimoli, i
sintomi ci sono tutti. La tua vita ti soddisfa molto poco, a quanto
pare. Ecco
quello che ti serviva.”
John
non si ricordava come si pronunciava parola.
Il
silenzio era calato tra di loro, un silenzio che aveva un sapore
diverso da
quello a cui era si era sempre abituato. Aveva il sapore
dell’attesa.
John
sentiva il suo cervello agitarsi e correre frenetico mentre una nuova
energia
sembrava crescergli nel petto.
“E’
stato…fantastico!”
Sherlock
spalancò gli occhi, per la prima volta piacevolmente e
sinceramente sorpreso di
fronte a lui.
“Pensi
questo?”
“Certo
che si! E’ stato incredibile, sei davvero
intelligente.”
Sherlock
si rimise in posizione eretta, stirando le labbra in un sorriso.
“Sei il primo
che lo dice.”
“Perché
la gente è stupida, giusto?” John rise e Sherlock
annuì, passandosi la mano tra
i capelli.
“Vieni,
ti mostro cosa faccio nel tempo libero.”
John
scoprì che seguirlo era la cosa più semplice che
avesse mai fatto.
Era
in un prato infinito e si sentiva cosi leggero mentre correva a
perdifiato nella
brughiera che, anche con il respiro spezzato, rideva a crepapelle.
Stava
seguendo Sherlock, sempre una decina di passi avanti a lui, che urlava
il suo
nome e lo apostrofava come un cretino che non sentiva il campanello.
Campanello?
John
aprì gli occhi, infastidito dal rumore onnipresente del
campanello di casa.
Perché da un mese e mezzo a quella parte tutti i suoi
lunedì iniziavano in quel
modo? John sospirò angosciato quando vide
l’orologio.
“John?
John, alzati, maledizione! Lo sapevo che avrei dovuto scegliere un cane
come
scaccianoia, molto più utile!”
John
incenerì col pensiero la porta e colui che stava dietro di
essa per
quell’epiteto che si portava dietro da quando avevano
iniziato a passare un po’
del loro tempo insieme. Si infilò i pantaloni della tuta e
una maglia, andando
ad aprire la porta.
“John,
finalmente!”
Per
tutta risposta inarcò le sopracciglia.
“Sono
le cinque del mattino di uno dei miei due giorni di riposo. Sherlock
Holmes,
spero tu abbia una motivazione valida.”
“John,
ho finito il latte e metà della mia cucina stava andando a
fuoco a causa dello
stupido acido di ieri sera!”
John
chiuse gli occhi e cercò di non implodere per la
frustrazione.
“Non
dormire in piedi, dai, ho anche un lavoro da fare insieme questo
pomeriggio.”
“Con
il tuo scaccianoia?” John era sicuro della sua
irremovibilità quel giorno:
nessuno l’avrebbe smosso da casa sua.
“Con
il mio assistente.” Sparò a freddo, bloccando John
per un istante.
“Deve
essere costato tanto progredire nel girone dell’Inferno che
noi ordinarie
persone chiamiamo gentilezza.”
“Non
sai quanto.” Brontolò, incrociando le braccia al
petto come un bambino e
guardandolo con i suoi migliori occhi da cucciolo.
“Entra
e mangia qualcosa, prima. Non voglio portarti a casa in braccio a causa
di uno
svenimento.” Cedette, facendolo entrare in casa e grattandosi
la nuca,
sconfitto.
“Va
bene, dottore.”
Sempre
la solita storia, pensò con un sorriso felice sul volto, un
sorriso che aveva
poche settimane ma a cui si stava abituando in fretta.
Non
aveva programmato il giorno in cui qualcosa di strano scattò
in John, anzi. Era
un comune giorno come tanti. Aveva dormito quattro ore, aveva un livido
nero
sotto l’occhio, a causa del killer seriale di due sere prima,
e aveva appena finito
il suo turno pomeridiano al bar.
Era
tornato a casa con un mal di schiena atroce mentre l’aroma
delizioso che
proveniva dall’appartamento della signora Hudson gli
intorpidiva i sensi. Passò
davanti al 221B e si fermò, indeciso tra la voglia di un bel
bagno caldo o
qualche nuova pazzia del suo migliore amico.
Aprì
la porta con il duplicato delle chiavi che si era fatto fare dopo che
Sherlock
stava morendo nel soggiorno
a causa di
una nube tossica da lui stesso creata.
Ormai
passava tutto il suo tempo libero con lui e non avrebbe voluto
spenderlo con
nessun altro. Lui era unico nel suo genere e anche se molto spesso
cercava di
comportarsi come un irritante robot senza scrupoli, da poco tempo
avevano
trovato piacevole, o almeno John la pensava così, passare le
serate sul divano
logoro a guardare TV spazzatura o discutere su files di casi da
risolvere, fino
a quando John si addormentava in un angolo e si svegliava la mattina
dopo con
un plaid sulle spalle. Semplicemente, adorava la vita che si stavano
creando
insieme.
Non
era sicuro che Sherlock provasse per lui quella profonda amicizia che
lui aveva
da subito sentito per quel ragazzo solitario che aveva deciso di
incominciare
la propria vita lontano dalla famiglia, proprio come lui.
Si
diresse verso la cucina dove Sherlock era solito fare i suoi
esperimenti, ma di
lui nessuna traccia.
“Sherlock?”
John prese il suo cellulare dalla tasca ma nessuna notifica lampeggiava
sul suo
schermo. Dove diavolo si era cacciato?
Quando
ormai la preoccupazione stava prendendo il sopravvento in lui, John lo
trovò.
Sherlock
era steso su un fianco, sul suo letto matrimoniale. I riccioli appena
bagnati e
il petto nudo lo facevano somigliare a uno di quegli angeli raffigurati
nelle
chiese. Le labbra piene erano appena socchiuse e la sua espressione era
serena
e pacifica. Sherlock stava dormendo come un bimbo.
John
si accorse dopo qualche minuto di star sorridendo intenerito a quella
scena, desiderando
di condividere con lui quel momento.
Si
tolse lentamente le scarpe, avvicinandosi al letto e tirando su le
coperte nel
poco non occupato dal lungo corpo dell’amico. Si stese e
restò a contemplare le
ciglia scure che gli accarezzavano le guance pallide, il capello
ribelle che
gli sfiorava la fronte e l’arco di cupido che armonizzava la
sua bocca e tutti
i suoi lineamenti. Accarezzò con un polpastrello la punta
del suo naso prima di
abbracciarlo delicatamente e respirare tra i suoi ricci.
Quando
Sherlock si adattò al suo corpo e si accoccolò
contro di lui, John seppe
distintamente che, qualunque persona gli avrebbe chiesto con chi non
avrebbe
saputo vivere, la risposta sarebbe stata la stessa, per il resto della
sua
vita.
Sherlock.
Uno
scampanellio frettoloso ruppe il silenzio isterico di John, gli occhi
fissi su
Sherlock seduto a testa in giù sul divano del 221B.
“Finalmente,
è arrivata la pizza.” Borbottò,
alzandosi dalla poltrona.
“Noioso.”
“Sher-“
“Noioso.”
“Potresti
alm-“
“Noioso!”
John
inspirò forte, afferrandosi le tempie e cercando di non
impazzire mentre andava
ad aprire la porta. Prese le scatole e lasciò la mancia,
prima di ritornare in
soggiorno, dove Sherlock aveva ripreso una posizione normale.
“Hai
scelto il film per stasera?”
“Psycho.”
Rispose, afferrando le pizze. “Non hai preso da bere,
John!”
Per
tutta risposta, John incenerì con lo sguardo Sherlock che
sorrideva beato.
Marciò
fino alla cucina, ignorando il richiamo invitante dei coltelli, e prese
due
bottiglie di birra, cercando con l’altra mano il cavatappi
dentro al cassetto.
Appena trovato, John aprì con forza il tappo.
Chiuse
gli occhi, contando fino a dieci mentre sentiva la birra bagnare sempre
di più
il suo maglione nuovo.
“Sherlock!”
Strepitò, posando con un gesto secco la bottiglia, ormai
vuota per metà, sul
ripiano del cucinotto.
“Si?”
Rispose con voce falsamente angelica.
“Hai
per caso sbattuto le birre, Sherlock? Perché una mi
è appena esplosa in mano!”
Tornò in salotto e vide Sherlock con le sopracciglia
aggrottate. “Non
ricordo, devo averlo rimosso. Comunque prendi quella, se per te
è un problema
di grande rilevanza, quell’orribile maglione.” John
sbuffò dal naso, prendendo
una camicia di Sherlock che era stata abbandonata sulla sedia.
“Non
abbiamo la stessa taglia, potrei romperla.”
Sherlock
scrollò le spalle.
“Puoi
tenerla, se ti va, così perdoni le birre.”
Perdonare lui, voleva dire, e John
lo capì bene.
Andò
in cucina a mettersi la camicia, guardandosi nel riflesso della
finestra. Gli
stava bene, forse un po’ stretta in vita ma indubbiamente
bellissima. Annusò un
piacevole odore contro al tessuto sottile e lo associò
immediatamente all’aroma
naturale di Sherlock.
Sorrise
un po’ di più e tornò in soggiorno,
sedendosi sul divano, dove Sherlock aveva
già fatto iniziare il film da una manciata di minuti. Prese
la sua cena e si
sistemò meglio contro i cuscini, sentendo una strana
sensazione addosso. Girò
il capo e vide gli occhi di Sherlock puntati su di lui.
“Che
c’è?” Chiese, avvicinandosi un
po’ di più a lui.
“Niente,
sto bene.” Sherlock ritornò a guardare la
televisione, con un lieve rossore
sulle gote. “Quella camicia ti sta…è
okay. Su di te. Ecco.” John sorrise fino a
sentir male ai muscoli facciali, con un calore incendiario nel corpo.
Lo
abbracciò da dietro per tutto il resto della serata,
ascoltando rapito i suoi
commenti sul film.
Il
giorno dopo, la camicia color prugna aveva il posto d’onore
nell’armadio di
John.
“Sherlock!”
Sussurrò, continuando a correre per le strade buie di
Londra, cercando di
acciuffare un venditore illegale di armi che vendeva anche droghe di
molteplici
tipi. “Sherlock, aspettami!” John non si sentiva
più le gambe e i polmoni gli
stavano andando a fuoco. “Sherlock, non ce la faccio
più!” Gridò, allora,
vedendo che l’altro continuava ad andare avanti senza di lui.
A quel punto
Sherlock si arrestò e lo spinse in un vicolo laterale,
continuando ad osservare
la strada.
“Sei
impazzito, John? Poteva rintracciare la nostra posizione con i tuoi
piagnistei!” John lo trucidò con lo sguardo,
colpendolo al braccio.
“La
tua considerazione per la mia salute è
commovente.”
“Si,
si, grazie.” Mormorò Sherlock, non prestandogli
attenzione. John lo fissò per
qualche minuto e, notando il suo continuo atteggiamento strafottente,
fece
dietrofront e cercò di uscire dal cunicolo. Poco prima di
uscire dal loro
nascondiglio, Sherlock lo afferrò per la manica del
giubbotto. “Dove stai
andando?” Mormorò infastidito.
“Da
qualche altra parte.”
“Non
fare il bambino.”
“Credo
dovrei essere io a dirlo a te.”
Sherlock
serrò i denti. “Perché fai
cosi?”
John
non si aspettava una domanda del genere in quel momento. Da giorni
fantasticava
su come sarebbe stato abbattere quei muri che li dividevano e
rivelargli che
lui era…
“Dovremmo
controllare l’uomo e chiamare la polizia.”
“Mi
sto occupando di te, ora. Posso fare entrambe le cose.” John
serrò la mascella
e osservò gli occhi chiari di Sherlock che brillavano come
zaffiri nella notte.
Bellissimo.
Una
sola parte del viso era illuminata dal chiarore della luna mentre
l’altra era
inghiottita dalle tenebre, come il suo intero essere.
John
alzò piano la mano, andando a sfiorargli lo zigomo. Sherlock
sembrava avere la
fragilità di un bambino.
“Cosa…cosa
stai facendo?”
Ti sto amando,
pensò, prima di alzarsi sulle punte e premere le labbra
contro le sue. Sembrava
di marmo, ma non gli importava perché se quella fosse stata
l’unica e l’ultima
volta che lo avrebbe baciato, almeno voleva godersela.
Portò
una mano tra i suoi ricci, accarezzandogli la nuca e l’altra
sulla sua spalla
mentre provava a muovere le labbra contro le sue, lentamente.
Perfetto.
Era
una morte dolce, come una mosca che affogava nel miele.
Sherlock
provò a far scivolare le mani sui suoi fianchi, succhiando
il suo labbro
superiore. John sospirò, soddisfatto, toccandogli il labbro
inferiore con la
punta della lingua.
Il
rumore chiassoso ed estremamente vicino di una pattuglia li fece
staccare, a
malincuore. Sherlock si sistemò la giacca, uscendo dal
viottolo nel più
completo silenzio.
Era
sotto shock?, si chiese John, cercando di guardarlo di sottecchi mentre
Lestrade parlava con loro e poi lungo tutto il tragitto per tornare a
casa.
Aveva fatto bene a fare quello che aveva fatto? Era stato azzardato?
Aveva
rovinato il loro rapporto? Non voleva più tornare nel
silenzio.
Arrivati
al loro condominio, John aveva già preparato tutto un
discorso di scuse e di
mal fraintendimenti, ma tutto ciò che riuscì ad
uscirgli di bocca fu il suo
nome in risposta al gelido buonanotte da parte di Sherlock. Non avrebbe
permesso ad uno stupido errore di rovinare le coccole sul divano, con
sulle
gambe i cartoni del ristorante cinese affianco, le risate dopo aver
messo in
galera un criminale, il momento in cui si svegliava con le urla di
Sherlock
nelle orecchie e la colazione insieme al mattino. Ogni secondo con lui
era
prezioso e avrebbe volentieri accantonato il suo amore pur di stare
vicino al
meraviglioso uomo che era.
La
mattina successiva, John era convinto di ciò che avrebbe
dovuto fare, così si
vestì e andò al 221B.
La
porta era appena socchiusa e tutto ciò che apparteneva a
Sherlock sembrava
essere sparito nel giro di una notte.
Quando
la consapevolezza della realtà incominciò a farsi
strada in lui, John sentì la
voglia di vomitare il suo intero essere.
Di
Sherlock, del suo Sherlock, non c’era più traccia.
Girò
tutte le camere più e più volte, chiamando il suo
numero e quello di suo
fratello, ma la segreteria fu l’unica voce che
riuscì ad ascoltare.
Silenzio,
ancora.
Le
gambe cedettero per un istante e si aggrappò al muro per non
cadere, ritornando
nel suo appartamento. Perché? Aveva creduto di poter
risolvere ogni cosa
insieme e invece ciò che gli restava era solo aria.
John
tornò nella sua camera da letto e notò un pezzo
di carta sul comodino, grande
quanto un biglietto da visita.
Addio,
John. SH
Il
suo cuore rallentò fino a rompersi in mille pezzi.
L’aveva amato troppo e lui
non l’aveva amato abbastanza.
Una
sola lacrima rigò il suo volto, ma bruciò come
mille lame di fuoco.
Andato.
Per
sempre.
Due mesi dopo
“Va
bene, Mary, solo per questa sera. Sì, ti passo a prendere
io, a dopo.” John
chiuse la telefonata, entrando nel condominio, salutando la signora
Hudson sul
balcone. Quella
sera avrebbe avuto il
suo primo appuntamento dopo lui e
Mary era riuscito a convincerlo solo per stanchezza.
Non
che non fosse attraente, anzi, capelli biondi, occhi scuri, magra e
abbastanza
alta, con un seno pieno e la parlata facile. L’aveva
conosciuta al bar e
dall’ora non aveva smesso un momento di provare a fargli
spuntare un sorriso.
Il
problema era lui, nonostante fossero
passati giorni interminabili dal suo addio. Solo pensare al suo nome gli faceva rabbia. Aveva
calpestato il suo cuore e l’aveva lasciato esiccare,
facendolo morire in
solitudine fin quando aveva avuto la forza di rindossare la maschera
che per
anni gli aveva fatto compagnia.
Ora
faceva finta di nulla perché l’alternativa era
peggiore.
Salì
stancamente le scale, passandosi una mano sul volto stanco, con il
silenzio che
aleggiava intorno a lui. Aprì la porta di casa e
gettò la borsa a tracolla sul
pavimento, fiondandosi in camera.
Avrebbe
dovuto trovare una scusa per non uscire con Mary? Non sapeva
più cos’era giusto
o sbagliato.
Spalancò
le ante dell’armadio, cercando della biancheria pulita, e il
suo sguardo
incrociò la sua camicia,
ripiegata
accuratamente sui suoi maglioni.
Per
la millesima volta la stessa domanda aleggiò nella sua
testa: perché?
Lui
non era un ragazzo che si dimenticava facilmente, tutto il contrario,
non lo si
dimenticava mai.
John
tolse la mano che, senza pensare, era finita sulla camicia e si diresse
in
bagno proprio mentre qualcuno suonava alla porta. John
aggrottò le
sopracciglia, guardando l’orologio. Strano, nessuno gli
faceva visita e aveva
espressamente chiesto a Mary di aspettarlo a casa.
“Chi
è?” Urlò dal soggiorno, ma non
arrivò nessuna risposta. Il cuore di John
cominciò a galoppare impazzito. “Chi
è?” Un nuovo squillo di campanello.
John
andò ad aprire la porta e il respiro gli si
bloccò in gola.
Non
di nuovo.
“Ehi…”
Il
suo cuore si era come bloccato – o prima era fermo e ora
aveva ripreso a
battere*. Non riusciva a muovere un muscolo di fronte alla faccia da
cucciolo
bastonato di Sherlock Holmes.
“John…”
Lo fermò con un gesto della mano, gli occhi pieni di
rancore.
“Perchè
sei tornato?” Mormorò con un filo di voce mentre
Sherlock si aggiustava il
colletto del cappotto.
“Lo
sai perché. Sono qui.”
John
strinse forte la mandibola, sentendo tutti i sentimenti e le parole non
dette
salire su, su e ancora più su, come un fiume in piena.
Stavolta sarebbe stato
il suo turno di parlare. “John, posso comprendere che tu sia
turbato dal mio
ritorno, ma non sai-“
“Oh
no, Sherlock, no.” Sherlock chiuse la bocca, incontrando il
suo sguardo.
“All’inizio ero turbato. All’inizio avevo
paura ed ero pietrificato, continuavo
a pensare che non avrei potuto vivere senza te al mio fianco, ma poi ho
passato
così tante notti rimuginando su quanto ti eri comportato
male con me che sono
diventato più forte, ho imparato ad andare avanti. Ora sei
tornato da chissà
dove! Ti sei semplicemente presentato alla mia porta con quello sguardo
triste
sul viso. Avrei dovuto cambiare la stupida serratura del cancello,
avrei dovuto
cambiare appartamento se avessi saputo anche solo per un secondo che
saresti
tornato a darmi fastidio.” Non si rendeva conto di quello che
diceva, voleva
solo fargli male, voleva che finalmente togliesse quella maschera e gli
mostrasse chi era veramente. “Beh, puoi andare adesso,
va’ via, esci da qui e
vai a farti un giro perché non sei più il
benvenuto. Non eri tu quello che ha
cercato di ferirmi con un addio? Pensavi che sarei crollato? Pensavi
che mi
sarei buttato a terra e sarei morto? No, non io!**Non per te,
Sherlock.”
Riprese fiato, continuando a guardare il suo volto imperturbabile
mentre i suoi
occhi esplodevano in mille pezzi. Ora poteva capire.
Sherlock
prese il suo borsone da terra, senza guardarlo. “Avrei anche
creduto a ciò che
hai detto, John.” Proruppe a un tratto, prima di entrare.
“Ma scommetto che nel
tuo armadio la mia camicia è ancora in cima a tutto il
resto.” Chiuse la porta
con fracasso prima che John crollasse sul pavimento, contro la porta
chiusa del
suo appartamento, senza forze.
Non
sarebbe sopravvissuto all’amore se in guerra c’era
Sherlock Holmes.
Per
i primi quattro giorni John si rifiutò di uscire di casa,
fingendo l’influenza
a lavoro, pur di non incontrare Sherlock, anche per sbaglio. Erano
tornati i
soliti rumori provenienti dal 221B, se possibile ancora più
forti di prima,
cosa che aveva creato dei dubbi in John – che cercasse di
attirare la sua
attenzione, insieme a quella di tutto il vicinato?.
Evitava
anche i messaggi di Mary, che ormai era finita in fondo alla sua
classifica di
persone da vedere.
Aveva
provato a buttare quella dannata camicia nel cestino e con lei tutti i
suoi
sentimenti, ma era finito con il dormirci accanto come un bambino,
tutte le
notti. Gli mancava e non gli aveva nemmeno dato modo di spiegarsi.
Il
quinto giorno, John era andato da Tesco per forza di cose e gli era
sembrato di
rivedere gli stessi riccioli scuri sulla testa del cassiere e la stessa
pelle
nivea nel ragazzo davanti a lui. Aveva preso anche una confezione di
latte in
più, per precauzione.
Il
sesto giorno, aveva sperato che Sherlock riprovasse a parlargli e John
gli
avrebbe detto che no, era irremovibile, e poi l’avrebbe
baciato così tanto da
consumargli le labbra.
Il
settimo giorno, si ritrovò a suonare il campanello del 221B,
con in mano il
giornale di quel giorno. Sherlock venne ad aprire con solo i pantaloni
addosso
– probabilmente nel suo infinito dizionario non esisteva la
parola decenza.
John
gli tirò il giornale in faccia. “Sei un
idiota.”
“Mi
hanno apostrofato con termini peggiori.” Rispose, scrollando
le spalle,
studiando il linguaggio del suo corpo.
“Voglio
sapere perché te ne sei andato, Sherlock, ti do cinque
minuti.” Sherlock restò
in silenzio, guardandolo, cosa che fece irritare John.
“Allora?”
“Non
riesco a dirlo.” Sussurrò così piano
che fece fatica a sentirlo.
Oh,
il suo Sherlock. Così forte per non mostrarsi
così fragile.
Voleva
davvero rimanere arrabbiato con lui finché non avesse
imparato la lezione, ma
quello sguardo, quelle labbra appena aperte che urlavano
silenziosamente per
l’incertezza, tutto di lui gli chiedeva di accoglierlo sotto
la sua ala. Lo
amava tanto, lo amava troppo per rifiutare.
Gli
afferrò i capelli e gli spinse dolcemente la testa contro la
sua spalla,
abbracciandolo forte.
“Ci
sono io con te, devi accettarlo.” Sussurrò,
accarezzandogli la tempia con le
labbra. Sherlock tentennò appena prima di nascondere la
testa contro il suo
collo. “Ti sei spaventato, non è così?
Nessuno ha mai provato questo per te e
tu non hai mai ricambiato nessuno. Ma questa volta è
successo.” Sherlock
sospirò, muovendosi all’indietro fin dentro casa,
continuando a stringerlo.
“E’
stato più forte di me.”
“Non
ti perdono di essertene andato via da me dopo il nostro
bacio.” Disse sicuro,
osservando emozionato tutte le sfumature delle sue iridi, cibandosi di
lui. “Ma
puoi provare ogni giorno, stando con me fino a quando le tue mani
rugose non
riusciranno più a premere il grilletto.”
Sherlock sorrise, accarezzandogli il polso.
“Non
accadrà tanto presto. Ci vorranno ancora molte altre teste
nel frigo, casi da
risolvere, indizi da decifrare, esperimenti da fare, violini suonati
nel cuore
della notte e cene di Natale insieme a Mycroft.”
“Dio,
quest’ultima è la peggiore!”
Esclamò, fintamente inorridito, ridendo mentre
Sherlock avvicinava il proprio volto al suo, osservandolo negli occhi.
Sapeva
che si stava adattando alla situazione e restò completamente
fermo, con il
respiro che accelerava sempre più. Sherlock fece scontrare
il naso contro al
suo prima di baciargli un angolo della bocca. John sorrise,
circondandogli la
schiena con le braccia.
“Non
ho intenzione di essere quella persona che si accorge del valore di
ciò che ha
solo quando lo perde, quindi non azzardarti a farlo di
nuovo.” Sussurrò, prima
di baciarlo con passione, finendo contro il muro.
“Io
resto.”
John
gli baciò il collo, la mandibola e la guancia, in una calda
scia che si
interruppe con il suonare del telefono di Sherlock.
“E’
Lestrade, non è vero?” Sospirò, facendo
un paio di passi indietro.
“Già,
un caso da otto, pare. Vieni?”
John
prese il cappotto e gli sfiorò il dorso della mano con le
dita. Non si sarebbe
mai lamentato della sua vita perché era ciò che
aveva sognato da sempre.
Sherlock
era il vento che gli sferzava il volto, gli faceva dolere le gambe e
gli
riempiva la testa di bellezza. Sherlock era la sua medicina, il suo
campo di
battaglia.
Il
suo primo, lungo, intenso, respiro di vita.
NOTE:
*Max
Pezzali – L’universo tranne noi
**
Gloria Gaynor – I will survive
Questa
fic la dedico a tutti i miei fedeli lettori che leggono e lasciano un
pensiero
ad ogni storia che viene postata qui su Efp. Vi ringrazio tanto, siete
tutti
una piccola parte del mio cuore.
Buon fine agosto e alla
prossima!
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