La vendetta del timido

di Sarren
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Guardai l’orologio: otto e mezza. Michele era già in ritardo di quindici minuti. E dire che mi aveva richiesto la massima puntualità per quell’incontro, invece io ero là ad attendere fuori al freddo, mentre lui ancora non era arrivato.

Una voce famigliare mi riscosse dai miei pensieri: era lui.

«Spero di non averti fatto aspettare troppo, Gabriele» disse con voce affettata.

«No, no» ribattei. «Sono appena arrivato anch’io.»

Lui annuì, soddisfatto di quella risposta che sapeva essere falsa.

«Piuttosto» gli dissi, guardandomi attorno «lei dov’è?»

«Donne!» esclamò in tono sprezzante. «Sai come sono fatte. Arriverà, stanne certo. Intanto è meglio se noi entriamo. Solo un pazzo aspetterebbe qua fuori per più di cinque minuti.»

La mia bocca si piegò in un falso sorriso, mentre mi chiedevo se quella piccola stoccata fosse volontaria o meno. Ad ogni modo non ribattei.

Entrati nel ristorante, ci sedemmo al tavolo che Michele aveva prenotato. Parlammo del più e del meno. Come sempre era lui a tenere i fili della conversazione. I suoi discorsi, pur variando tra i più diversi argomenti, erano accomunati da un unico filo conduttore: se stesso. Lui aveva sentito questo, lui aveva visto quello, lui aveva fatto quest’altro… Ascoltai, sempre più infastidito da quel suo egocentrismo, annuendo di tanto in tanto.

Approfittai di una sua pausa per chiedergli notizie della persona che aspettavamo. «Allora, lei quando arriva? Avevi detto che mi avresti fatto conoscere questa tua fidanzata di cui tanto ti vanti, ma io non l’ho ancora vista. Non è che ti sei inventato tutto?» Sorrisi, cercando di usare un tono scherzoso. Nonostante ciò il viso di Michele si rabbuiò e, per un meraviglioso istante, stette in completo silenzio. Poi, con una voce profonda da cui tuttavia traspariva il suo risentimento, disse: «Non mi sono inventato niente. Lei arriverà, ha solo avuto un contrattempo. Del resto» e qui il suo tono si fece quasi gioviale «non ho certo bisogno di inventarmi niente, io.»

Mi guardò, sorridendo lievemente, per essere sicuro che avessi compreso a chi si riferiva quando parlava di persone che dovevano inventarsi qualcosa. Mi sentii il viso in fiamme, odiandolo per come mi scherniva, mentre io mi sforzavo di apparire amichevole.

Non riderai ancora a lungo, giurai tra me e me.

Riprendemmo a conversare come prima, aspettando l’arrivo della donna. Tuttavia, più il tempo passava senza che lei arrivasse, più Michele si faceva buio in viso, brusco nei modi e taciturno nella conversazione. Io, al contrario, mi sentivo sempre più a mio agio.

Il cameriere era passato già due volte a chiederci se volevamo ordinare, ma entrambe le volte il mio compagno l’aveva respinto. Vedendo la faccia del poveretto, dubitai che sarebbe venuto una terza volta.

La conversazione stava languendo quando arrivò un messaggio a Michele. Tirò fuori il cellulare, vide il nome del mittente, aprì il messaggio e lo lesse con frenesia. Dopo, con aria greve, si alzò da tavola.

«Eva non verrà.»

«Che peccato! Ma, ormai che siamo qui, possiamo anche mangiare.»

Mi guardò e per una volta il suo sguardo si aprì in un’espressione di odio aperto, così diversa dalla sua solita aria di superiorità. Ma stavolta toccava a lui non aver nulla da ribattere.

«No, grazie.» Se ne andò con passo pesante.

Sorrisi, aprii il mio cellulare e mandai un messaggio.

Il cameriere mi si avvicinò esitante. Si stupì quando ordinai del prosecco.

Meno di dieci minuti dopo, una donna si sedette al mio tavolo.

«Salve, Eva» la salutai mentre con la mano le sfioravo la pelle. Al piacere di quel gesto si aggiunse la dolce consapevolezza di aver tradito l’amico.





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