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Il bambino triste.
"Questa è la storia di una patetica donna che non sapeva
amare.
Aveva partorito e allattato un mostro. Quell’essere si
era nutrito di lei, nel suo ventre, per nove mesi.
Poi aveva visto la luce. La donna, invece, aveva visto
l’orrore. Il suo cuore si spezzò e si detestò completamente.
L’incapace madre non seppe amare il proprio figlio e da
feccia morì. Perché i mostri si uccidono, non si amano. Nient’altro va
raccontato. Solo dolore."
Il silenzio, curioso e ghignante, origliava nell’oscurità.
La notte senza luna sospirava un freddo vento sinistro. La casa taceva. Le ombre
sembravano esibirsi in una macabra danza alla fioca luce della candela. Il
pianto di una donna era immerso nel buio. Rannicchiata nell’angolo, nel suo
corpo ossuto e patetico, puzzava di lacrime e paura. Isterica, affondò le dita
tra i capelli neri. Li strappò. Graffiò il volto, le braccia, le gambe. I suoi
fastidiosi, tragici singhiozzi si trasformarono in inarticolate grida di rabbia.
Una sola parola risuonava nella testa: mostro.
La donna urlò.
La flebile fiammella tremolò incerta. Timidi passi mossi da
piedi infantili si avvicinarono a lei. C’era un bambino, un bambino triste. Si
chinò sulla donna piangente.
«Mamma, che cos’hai?»
La donna strinse forte le ginocchia al petto. Tremò.
Strizzò le palpebre per non vedere. Si morse il labbro inferiore per non
gridare. Il bambino allungò una mano bianca per accarezzarle la fronte. «Mamma,
cos’hai?» sussurrò.
Lei, schifata, schiaffeggiò via la sua mano. Spalancò gli
occhi ricolmi d’orrore.
«Non mi toccare!» ringhiò.
Il bambino triste sussultò. Ma non si diede per vinto. Le
sue labbra azzardarono un sorriso tremolante. «Mamma, posso abbracciarti?»
La donna si ritrasse, come se qualcuno l’avesse percossa.
«Vattene via!» Alzò lo sguardo. Il respiro le mancò. Il viso che guardava era
quello di un mostro. I suoi capelli neri e lisci gli incorniciavano il volto di
una mostruosa eleganza. La pelle era di un bianco innaturale; né pallida né
chiara, soltanto bianca. I suoi occhi color dell’ambra non erano occhi umani.
Erano occhi di serpe.
La donna reclinò il capo in una smorfia d’orripilato
dolore.
Il triste bambino mostro era suo figlio.
«Vattene...» mormorò. «Devi andartene, esci di qui…»
Il bambino non capiva. «Perché?»
«Devi ubbidire alla mamma e basta» sussurrò lei. «Devi
ubbidirmi e fare il bravo bambino, altrimenti papà ti farà di nuovo male…»
«È stato papà a farti piangere?»
La donna scosse la testa. Lo sforzo che fece a rispondergli
fu enorme. «No, non è stato lui. Ma adesso vattene.»
«Non voglio» piagnucolò lui. «Voglio stare con te. Non
voglio che tu pianga.»
«È tutto a posto.»
Il bambino si morse il labbro inferiore, scuotendo la
testa. «Non è vero, è una bugia. Tu sei triste. Perché?»
Il respiro della donna accelerò. «Perché la mamma è
stupida. La mamma non sa amare…»
«Non è vero! Tu mi vuoi bene!»
Lei sorrise tra le lacrime. Il suo cuore si spezzò e si
detestò completamente.
La donna guardò il bambino e per un momento lo amò. Fu un
unico istante. Allungò le braccia tremanti come per prendere tra le mani quel
viso e accarezzarlo, baciarlo sulla fronte e sussurrargli parole dolci. Era
suo figlio. In quel momento non vide nient’altro. La donna rise tra i
gemiti. Fu madre per pochi secondi.
Ma quando il bambino la implorò in silenzio con quegli
occhi di serpe, lei smise d’amarlo per sempre.
Aveva partorito e allattato un mostro. Quell’essere si
era nutrito di lei, nel suo ventre, per nove mesi. Poi aveva visto la
luce. La donna, invece, aveva visto l’orrore.
Quel ricordo la fece quasi vomitare per il disgusto. Quel
bambino mostro era stato parte di lei. Non poteva essere suo figlio. E non
l’avrebbe mai amato.
Perché i mostri si uccidono, non si amano.
La paura la invase e la pietrificò. Le lacrime scesero
senza che lei se n’accorgesse. Poi trasalì. Il bambino aveva afferrato
delicatamente la sua mano e l’aveva portata ad accarezzarsi la guancia. Aveva
chiuso gli occhi, godendo di quel falso affetto con un sorriso triste. «Mamma…»
mormorò.
L’orrore la travolse. La donna lo schiaffeggiò. Il bambino
rovinò a terra.
Lei gridò. Si conficcò le unghie negli occhi. In quel buio
squarciato da urla di dolore e paura, la donna si accecò per non vedere mai più
quel volto. La sua faccia era una maschera di sangue.
La porta si spalancò. Un uomo irruppe nella stanza. La
candela si spense. Le grida si fecero più intense. Il bambino premette forte le
mani sulle orecchie. L’uomo lo colpì. Ringhiava, animalesco. Colpì più volte
quel corpo di mostruoso bambino con tutta la forza che aveva in corpo, come una
bestia feroce. Poi lo sollevò e lo gettò come un fantoccio contro la parete.
L’uomo cadde in ginocchio, ai piedi della donna urlante. Scosse la testa,
incredulo. Mormorò il suo nome. Il volto di lei era sporco di sangue, lacrime e
vergogna. La donna sbavava e frignava. Graffiò il proprio viso e lo percosse,
dissennata. Imprecò e strillò oscenità. L’uomo disse forte il suo nome, la
implorò. La chiamò ancora e ancora. Poi urlò, sfinito e selvaggio. Le afferrò le
mani, disperato. Le scostò i capelli dal volto, le afferrò il viso ma non
c’erano più occhi per vedere. Gridò il suo nome più e più volte finché le sue
urla non si trasformarono in un pianto incontrollato, folle. Si scostò da lei,
in lacrime. Si passò una mano insanguinata sul viso, tingendolo di rosso.
Estrasse la spada e la finì.
L’incapace madre non seppe amare il proprio figlio e da
feccia morì.
Il silenzio piombò in quella stanza intrisa di lacrime,
sangue e paura.
L’uomo riprese a singhiozzare. Si alzò e si avvicinò al
bambino. La lama della spada scintillò nel buio. Il corpo del bambino era un
ammasso informe sul pavimento. Aprì gli occhi, lentamente. L’uomo incombeva su
di lui.
«Papà?» sussurrò il bambino.
L’uomo dal viso tinto di rosso non rispose, immobile nella
stanza buia, silenziosa e macchiata di sangue. Sollevò la spada.
Il bambino spalancò gli occhi di serpe nell’oscurità.
La spada arse d’argento. Sfuggì dalle mani dell’uomo. Roteò
nell’aria. Lo trafisse e lo decapitò. La sua testa rotolò al suolo e scese il
silenzio.
Nient’altro va raccontato. Solo dolore.
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