Mio padre morì assieme a mio fratello quando avevo
quattordici anni.
Da quel giorno, mia madre non parla per più di dieci minuti.
La sera è sempre fuori, da amici, o a guardare la televisione. A malapena si
ricorda come mi chiamo. Ma sinceramente non me ne frega un accidente.
Io? Io… oh, chi sono io?
Elisa.
Bel nome, eh?
Anche di questo, me ne frego altamente. A dire il vero, me
ne frego di tutto da quando è morto mio fratello. Dani.
Mi viene una fitta al cuore ogni volta che guardo il suo
computer, con la consapevolezza che non occuperà mai più quella sedia rossa
mezza scassata; che non sentirò mai più le voci del nano di Warcraft che dice:
“Muovi il culo!”
E questa consapevolezza fa male. Tanto male, che devo
sfogarmi in un altro modo. E come?
Semplice. Se mi tiro su la manica del braccio destro, posso
vedere tutti i tagli che mi sono fatta. Cicatrici e non. Tutti lo sanno che mi
faccio del male, ma nessuno mi rimprovera, forse compatendomi. E questo mi dà
ancora più fastidio di quando nominano mio fratello invano. È quasi diventato
un Dio. Innominabile, si potrebbe disonorare il suo nome… o qualcos’altro. No,
lui è il mio fratellino. Ogni tanto entro nella sua camera. Così, per farmi
ancora un po’ peggio. Giusto per ricordarmi che lui è lì, con me, che mi guarda
e mi sorride come sempre, che mi abbraccia quando faccio una stronzata e mi fa
promettere di non farla più. Dani… io non mantengo mai le promesse e non ho mai
imparato. Non sono capace.
Ecco, ripensare a lui mi fa male. Chiudo gli occhi ed una,
una sola, stramaledettissima lacrima mi scende sulla guancia. Sento lo sguardo
della mia vicina di banco su di me. Meglio, sulla mia lacrima, che sta colando
sul collo. Apro gli occhi, che sono lucidi, e lei mi sorride dolcemente. Dio,
quanto odio la compassione. Il mio sguardo si fa fin troppo duro, ma lei non
demorde e continua a sorridermi. Allora sorrido anche io. Ely… scuoto la testa
e torno a stravaccarmi sulla sedia, tanto non ascolto la lezione. È da quando
sono morti che entro quando mi pare a scuola, colleziono uno come se fossero
francobolli e faccio cosa diavolo voglio. Inutile dire che facendo così sono
diventata una specie di modello per Marta, Federica e Giulia. Ma… chi se ne
frega??
<< Fossati, posso sapere a cosa stai pensando?
>> certo professoressa.
<< Certo. Sto pensando a mio fratello, che è qui
vicino a me, a mio padre, che mi sta odiando per quello che mi faccio e sto
pensando ai miei tagli sul braccio, che bruciano, ma che almeno non mi fanno
pensare a loro. Contenta? >> la Di Aichelburg mi guarda fredda,
distaccata. Ma vedo che si morde la lingua, perché sa di aver toccato un tasto
dolente. Come niente fosse torna a spiegare. Non ho più voglia di stare qui.
Voglio uscire. Tiro fuori dalla cartella il libretto delle giustificazioni e
compilo la prima. Sono tutte firmate, non ho bisogno di far venire mia madre.
Non so neanche se si ricorda dove vado a scuola. Comincio a ritirare le cose in
cartella, il libretto abbandonato sul banco, sotto lo sguardo triste della Ely.
<< Ehi, guarda che ci torno a scuola. >> provo a
sorriderle ma è solo un mezzo ghigno mal riuscito. Ely scuote la testa e mi dà
uno dei suoi pizzicotti sul braccio. Chiudo la cartella, mi alzo in piedi e mi
prendo la giacca, la chiudo e mi avvio alla cattedra, con il libretto in mano.
<< Dove stai andando? >> mi chiede la
professoressa, quando sono davanti a lei, lo zaino abbandonato su una spalla e
gli occhi puntati fuori dalla finestra. Ormai lo sa come sono. Lo sanno tutti.
È da quattro anni che faccio così e non ho intenzione di cambiare una virgola.
<< Via da qui. >> monosillabica come solo io so
essere. Guarda la giustifica firmata e compilata con una smorfia. So cosa sta
per dire. << In seconda fila, se non scendo subito mi pela. >> un
piccolo sorriso e lei mi dà il permesso di uscire dalla classe. Un coro di
‘ciao’ mi seguono mentre mi chiudo la porta alle spalle.
Libera.
Amo la sensazione di libertà. Anche se vorrei tanto che mio
padre fosse qui, a darmi uno schiaffo, a dirmi che sto sbagliando. Mi frego una
mano sulla guancia e torno a guardare avanti. Lancio lo zaino contro il muro e
mi appoggio con le mani ad esso, mentre con uno lo prendo a pugni. Come se
fosse colpa sua se sono morti. Come se fosse colpa sua se Dani ora è sdraiato
sotto terra. Come se fosse colpa sua se papi adesso è cremato in un orrendo
vasetto grigio sulla mensola. Come se fosse colpa sua e basta. Di tutto.
<< Perché! Dannazione! Perché a loro! Prendi me! Non
loro! Fanculo… fanculo tutto! >> tiro un altro pugno contro al muro, poi
un calcio alla cartella e un altro pugno, fino a che non mi sento afferrare da
dietro. Scoppio in lacrime, rigandomi le guance di nero. << LASCIAMI!!!
LASCIAMI! CHI CAZZO SEI, EH?? LASCIAMI! >> urlo, dimenandomi come
un’ossessa.
<< Tom! Lasciala andare!! >> una voce tedesca…
mi giro e vedo corrermi incontro un ragazzo moro, con i capelli striati di
biondo platino e gli occhi scuri contornati dalla matita nera. È vestito
pressoché come me, ovvero tutto di nero. La giacca nera, pantaloni neri, cintura
nera con le borchie, stivali neri e maglietta nera. Tutto aderente. È uno
stecco sto ragazzo.
<< Di’ a ‘sto bisonte di lasciarmi immediatamente! O
non rispondo delle mie azioni!!! >> biascico, calmandomi leggermente. Il
ragazzo davanti a me ha l’aria confusa. Sembra riflettere su quello che ho
detto.
<< Scusa… ma non parliamo molto bene italiano…
qualcosa lo sappiamo, certo, ma non molto! Cioè… >>
<< Bill, sapresti parlare a macchinetta anche in
aramaico! >> sbotta, in tedesco, quello che mi tiene da dietro. Okay,
riordina. Il darkettone è Bill. E quello dietro di me è Tom. Okay, sono
apposto.
<< Se mi lasciassi parlare fratellone, magari riesco a
capirci qualcosa! >> poi ricomincia a parlare in italiano. <<
Scusalo, non ci capisce molto di italiano. >> e si rivolge di nuovo a
quello che sembrerebbe suo fratello. << Tom, credo che voglia che la
lasci. >> ottima osservazione darkettone.
Visto che sento ancora la stretta sulla mia pancia, metto le
mie mani sul suo braccio e pianto le unghie dentro la carne. Tocco magico! Mi
lascia e cado a terra. Non lo degno di uno sguardo mentre sta inveendo in tutte
le lingue del mondo e mi avvio alla fine del corridoio, sempre con lo zaino
sulla spalla. No… dimmi che non si sta avvicinando quella di tedesco. No, no,
no… voglio solo andare a casa, cazzo!
<< Oh!! Signorina… >> indico la mia scheda sul
petto e lei legge. << Fossati, molto bene. Io ho lezione, visto che se ne
sta andando e che sicuramente sua madre non è qui in doppia fila, accompagni
questi due a fare il giro della scuola. Sono stati assegnati alla quarta BLL.
Sa per caso dov’è? >> indico di nuovo il cartellino sul petto e lei si
avvicina, mettendosi apposto gli occhiali sul naso. << Ohhhhh perfetto!
Non poteva andarmi meglio! Andate a fare il giro e tornate in sala professori
quando suona. >> la professoressa se ne va’. Ed io sono qui, immobile
come una scema, a guardare la cattedra dei bidelli, mentre sento solo il rumore
dei tacchi dietro di me. Cazzo. Io volevo solo andare a casa. Mi strofino gli
occhi con i pugni chiusi, vedendoli tutti neri. Ohi, fantastico, ci mancava
solo questa! Mollo la cartella a terra e salgo sulla scrivania, per poi
scendere con un salto. Busso alla porta della presidenza. Non aspetto niente ed
entro dentro, con la mia solita finezza di un elefante ubriaco.
<< Elisa! >> faccio una smorfia, ma mi guarda
non curante.
<< Lascio la cartella qui. >> esco, prendo la
cartella e la lancio dentro, poi mi chiudo la porta alle spalle. Non sopporto
quando mi chiamano per nome. Per nome intero. Lo odio, più di quanto odi la
scuola. La professoressa di tedesco sta parlando con i due fratelli davanti
alla mia classe. Perfetto, ho tempo per un caffè. Tiro fuori dalla tasta la
scheda per le macchinette e la metto dentro a quella per i caffè. Un caffè,
lungo, caldo, bollente. Ho bisogno di una svegliata. Chiudo gli occhi. Il
rumore si fa sempre più lontano, i passi sono indecifrabili… mi lascio
trasportare indietro… indietro a tanti anni fa…
Stavo ridendo con Ely, quando entrò la bidella con una
faccia da funerale e chiamò il mio nome. Fui sorpresa, non avevo chiamato
nessuno. Mi avviai lentamente fuori dalla classe, con un peso orrendo sullo
stomaco. La bidella mi fece entrare in presidenza, dove c’era il preside seduto
che batteva velocemente le mani sul computer, con il telefono attaccato ad un
orecchio. Appena mi notò, mi fece segno di accomodarmi, ed io mi sedetti sulla
poltrona davanti a lui. Con un sorriso, mi passò il telefono.
<< Pronto? >> dissi, timorosa. Dall’altra
parte sentii solo singhiozzi rotti. Il peso sullo stomaco aumentava ad ogni
singhiozzo.
<< Bambola… >> era mia madre. E piangeva. Che
cosa diavolo poteva essere successo? Mia madre non piangeva mai.
<< Mamma?? Che succede? Perché piangi? >>
chiesi, questa volta terrorizzata. Ed il peso sullo stomaco continuava a
crescere, imperterrito, togliendomi il respiro e la forza di parlare.
<< Dani e papi… Dani e papi… sono… sono morti…
>> il cuore smise di battere. La cornetta mi cadde dalle mani, mentre io
sussurravo solo una parola. ‘No’.
Apro gli occhi di scatto e mi allontano dalla macchinetta,
andando a sbattere contro al muro dietro di me. No, no! Mi accascio a terra,
chiudendomi a riccio. Nessuno deve vedere che piango, nessuno! Ma tanto, ormai,
chi se ne frega! Scoppio a piangere, silenziosamente, sussurrando sempre quella
parola. ‘No’. Mi metto le mani sulle orecchie e stringo forte, stanno urlando
tutti… basta state zitti! Zitti! Mi sento avvolgere da due braccia gentili… non
così rudi come quelle di prima. Apro gli occhi e mi vedo davanti la matassa di
capelli neri di prima. Non lo so perché, non ne ho idea, però ricomincio a
piangere più forte, stringendo i pugni sulla sua giacca.
<< Ehi, ehi… che succede…? Le belle ragazze non
dovrebbero piangere, lo sai? >> è un soffio poco lontano dal mio
orecchio. In tedesco. Qualcosa mi dice che sono tedeschi, tutti e due.
<< Io non sono una bella ragazza. >> sibilo,
nella loro lingua, mentre le lacrime si calmano. Cominciano a non scendere più.
Mi asciugo le guance velocemente, ritornando a respirare normalmente. Mi stacco
da lui. Mi guarda con un mezzo sorriso… sorriso al quale riesco a ricambiare.
Mezzo e mezzo fanno uno intero, no? Ho già dato. Fin troppo per i miei canoni
quotidiani. Mi alzo lentamente e il ragazzo davanti a me mi imita
immediatamente. Lo sorpasso e mi prendo il mio caffè. Caldo, buono caffè. Fammi
dimenticare, avanti. Fammi tornare com’ero prima dell’incidente. Stessa
preghiera da quattro anni. Divertente, no?
<< Comunque… sono Bill. E lui è mio fratello Tom.
>> il moro mi presenta l’altro. Ha i rasta biondo scuro, una fascia ed un
cappellino sulla testa. Porta dei pantaloni larghissimi ed una maglia lunga
fino alle ginocchia. Beh… non ho parole. Sono gemelli. Ma sono così diversi. E…
e ho una strana sensazione. Ormai ho imparato a fidarmi delle mie sensazioni… e
questa è strana. Non so ancora se bella o brutta. So solo che è strana… e che
lo scoprirò presto. Molto presto.
XXXXX
Allora. Ehm… in primis: I Tokio Hotel non mi appartengono
ed io scrivo solamente per puro divertimento e, assolutamente NO a scopo di
lucro.
Ecco xD. Ora, ditemi come vi sembra… se non piace, al
massimo la finisco qui e la cancello, eh! Non ci sono problemi =D
Beh… spero che vi piaccia! Bacioni a tutti, vvb.
Barby.