So che probabilmente dovrei aggiornare
storie e raccolte già iniziate, ma non ho saputo imbavagliare la mia
ispirazione (e soprattutto la mia prolissità ^^’’), perché mi piaceva vedere i
nostri eroi in un contesto diverso dal mio solito (Leggasi: lasciare un po’ in pace Merlin e tormentare
un Arthur emotivamente stitico).
Questa fic AU è
composta di dodici capitoli. È già tutta scritta in bozza e va solo limata.
Per dovere di cronaca: In questa
storia nessun cane è stato veramente maltrattato. Non posso garantire lo stesso
per Arthur…
Ah, il linguaggio è più colorito rispetto ai
miei standard, ma qui non siamo nel Medioevo.
Doverosamente
dedicata al cucciolo d’uomo che mi renderà presto una zia orgogliosa.
E ai
miei preziosi, pazzi lettori, che mi seguono in ogni follia (detto con tanto amoreh!)
E agli amanti del merthur, ovviamente.
<>O<>O<>
Waiting for you
Capitolo I
Arthur imprecò.
Poi parcheggiò l’auto, accostandola il più vicino possibile all’inferriata che delimitava la sua
proprietà, spense i fari e i tergicristalli che combattevano una guerra persa
contro il diluvio universale che s’accaniva contro il parabrezza,
successivamente girò la chiave nel cruscotto – il motore smise di fare le fusa
– e bestemmiò mentalmente per l’ennesima volta in quella giornata.
Dopo varie cose che erano andate male, come ultimo
imprevisto aveva dimenticato l’ombrello a casa, uscendo di
fretta all’alba, e nel tragitto dall’ufficio al posteggio aveva rotto quello
che Gwen gli aveva gentilmente prestato. Certo, era stata una raffica di vento
bastarda a renderlo inutilizzabile, ma questo non lo faceva sentire meno in
colpa.
Arthur sbuffò, selezionando in anticipo, dal mazzo, la
chiave per aprire il cancelletto e limitare la sua permanenza alle intemperie. Quindi risollevò il bavero dell’impermeabile zuppo e si
risolvette a raggiungere la sua agognata dimora.
“Ma che cazzo…?” si lasciò sfuggire, appena messo piede nel
vialetto, stringendo le palpebre per mettere a fuoco – fra la pioggia, la
nebbia e le tenebre della sera – osservando la massa informe sul suo tappeto ‘welcome’ sotto al
porticato buio. Un topo! Un
dannato sorcio davanti alla sua porta!
“Morgana stavolta me la paga!” ruggì, irrazionalmente,
contraendo la mascella perfettamente rasata.
Non era passato neppure un mese da che aveva traslocato lì,
per assecondare il suo consiglio – un tenero eufemismo per definire il raggiro che sua sorella aveva ordito a
suo danno.
Quella località doveva essere come la versione costosa di Wisteria
Lane, solo senza casalinghe disperate, intrighi, morti e Diosolosapevacosa.
Finora, invece, nel suo angolo
di paradiso aveva trovato unicamente fastidiosi bambini urlanti – gli
avevano quasi rotto un vetro, la settimana precedente, giocando a pallone in
strada –, uno stuolo di vecchiacce impiccione e di cougars pronte ad affondare gli
artigli su di lui e sui suoi soldi – no,
grazie.
E ora?
Un po’ di pioggia
aveva fatto risalire i ratti dalle fogne? I tombini erano già intasati?
Arthur maledisse il mondo e si decise a cacciare quel
viscido abusivo dalla sua proprietà, poi avrebbe fatto un esposto
all’amministratore del quartiere o qualcosa del genere.
Il fatto era che, essendo nuovo di lì, non aveva ancora ben
chiaro come, dove e soprattutto con chi,
potersi lamentare a dovere.
Brandendo l’ombrello rotto come avrebbe fatto un cavaliere
medievale con la propria spada – o come un poliziotto con uno sfollagente – si
avvicinò risoluto.
E fu allora che si accorse che il topo non era un topo.
Cioè… era un topo, ma
un topo-cane.
Lo stesso topo-cane che ora guaiva e scodinzolava verso di
lui, grondando pioggia e bava sul suo tappeto immacolato.
Arthur gemette interiormente e si chiese a chi avesse pestato i piedi nella sua vita precedente, per
meritarsi tutto questo.
Ma, poiché ovviamente nessun Dio
gli avrebbe risposto – non in tempo utile, perlomeno – egli si guardò attorno,
spaesato, cercando di capire come, quando
e perché.
Perché, cazzo, quel
botolo pulcioso era finito sulla sua soglia?
Perché?!
Sul come e il quando poteva soprassedere.
Era ovvio che avesse cercato riparo da quel diluvio e si
fosse intrufolato fra le sbarre della recinzione.
Magro com’era, quel cucciolo non aveva trovato alcun
impedimento.
Arthur si appuntò mentalmente di fare una lunga, colorita
predica al padrone sconsiderato di questa bestia. Poi, magari, gli avrebbe
anche messo in conto i danni morali e si sarebbe fatto risarcire per il
disturbo.
Incurante del suo malumore, il cagnolino abbaiò,
sollevandosi dal tappeto per andargli incontro e a nulla erano valse le sue
proteste e una serie di urlati “A cuccia!” che vennero
puntualmente ignorati.
Arretrando a disagio, Arthur era tornato verso il
cancelletto, scrutando inutilmente in ogni direzione con la speranza di
scorgere qualcuno. Il proprietario
dell’animale, magari.
Purtroppo per lui, a quell’ora non v’era
anima viva in giro.
L’ora di cena era passata da un po’ e quel clima (lugubre)
tipicamente tardo autunnale avrebbe dissuaso chiunque dal praticare jogging o
anche solo dal fare una breve passeggiata serale, per favorire la digestione.
Arthur gemette, facendo da contraltare ai mugolii del cane.
Passandosi una mano fra i capelli zuppi d’acqua, esalò un sospiro esausto.
Non poteva restarsene
lì, sotto alla pioggia ghiacciata, rifletté,
innervosito. Odiava essere così
impotente.
A lui piaceva
comandare, non subire le cose.
“D’accordo”, esalò infine, arrendendosi, e facendo
dietro-front verso l’entrata e verso il cucciolo che, vedendolo riavvicinarsi,
aveva aumentato i guaiti e lo scodinzolio.
“C’è poco da festeggiare, sai?” lo rimproverò, retorico, con
un tono burbero che non ebbe l’effetto sperato.
Arthur contò fino a dieci e gettò in un angolo l’ombrello di
Gwen che si era scordato di tenere ancora in mano.
Successivamente, si chinò verso il pavimento
e, raccolto il botolo in una mano – davvero, davvero!, era così piccolo che stava quasi tutto in un palmo –, si
decise ad aprire la porta, spense l’antifurto e accese le luci di casa.
Poi posò a terra lo sgradito ospite e questo, appena libero,
pensò bene di scrollarsi tutto il manto zuppo, inzaccherando ovunque con acqua
e fango.
“No, no!, NO!” protestò
Arthur, impotente di fronte a quella scena.
In un attimo, era già troppo tardi.
Pulendosi dalla guancia uno schizzo marrone – che sperava
ardentemente fosse solo terra – con
il dorso della mano, Arthur considerò seriamente di fare stufato di topo per cena.
Poi, fulminando con lo sguardo il seccante visitatore, che
ancora scodinzolava osservandolo di rimando, si rassegnò a sfilarsi di dosso
tutti gli abiti appiccicati e gelidi, calzini compresi. Solo dopo avrebbe
pulito tutto quel casino.
“Resta fermo lì!” ordinò al topo-cane, mentre correva verso
il bagno e quasi scivolava nella fretta.
Quando tornò, con un asciugamano per sé e uno per la bestiola,
nel punto in cui l’aveva lasciata non c’era più
niente.
“Oh, dannazione!” imprecò, guardandosi attorno. Ma nulla, non v’era
traccia dell’intruso.
“Ehi!” lo richiamò, più con esasperazione che con speranza.
Non ricevendo risposta, considerò che un tono arrabbiato non avrebbe giovato a
nessuno.
“Cane-topo!
Tooopo-cane!” ritentò, più suadente, accucciandosi
sul pavimento, malgrado fosse quasi nudo, per scrutare sotto alla
mobilia.
La palla di pelo infangata s’era
nascosta, tutta tremante, sotto al divano di pelle.
Arthur sospirò, in parte sollevato, mentre allungava una
mano e con poca gentilezza lo trascinava fuori dal nascondiglio.
Quando il cane, impaurito, tentò di difendersi mordendolo,
egli snocciolò una fila di parole irripetibili, poi lo
afferrò per la collottola e lo spinse di malagrazia sull’asciugamano e strofinò
il pelo sporco e fradicio con gesti sbrigativi, ignorando i lamenti
dell’animale.
“Così impari!” l’aveva sgridato, con senso di rivalsa e, ben
presto, la bestiola s’era rassegnata a subire.
Fu a quel punto che lui si pentì di come si stava
comportando e, rallentando la frenesia dei gesti, ci mise un po’ più di riguardo.
Man mano che toglieva gli strati di sporco, sotto alla fanghiglia bruna andava riscoprendo un folto pelo bianco,
immacolato.
Quasi con un colpo di testa, lo trasportò verso il lavello e
sotto all’acqua tiepida lo lavò con cura, riportando tutta la pelliccia al suo
colore originario.
Questa volta, il cane non oppose alcuna resistenza, come se
fosse un’abitudine, per lui, lasciarsi fare quel trattamento.
Dopo averlo asciugato per bene col phon a bassa potenza,
Arthur rimirò l’opera conclusa e non riuscì a trattenere una risata, perché le
dimensioni del mantello erano raddoppiate, come i riccioli, e quello che aveva
raccattato era diventato un topo-cane-pecora.
Ma almeno non si sarebbe ritrovato
con melma sparsa in tutta la casa, considerò, anche se adesso era lui, quello bisognoso di una buona ripulita.
Si frizionò almeno i capelli,
desiderando ardentemente una lunga doccia bollente, che avrebbe dovuto
rimandare ancora un po’.
Era una fortuna che, tra impegni e pigrizia, avesse
dimenticato di gettare via alcuni scatoloni vuoti del recente trasloco.
Afferrando il cucciolo sottobraccio, si diresse scalzo nel
sottoscala e ne agguantò uno. Dopo averlo riportato in salotto, lo foderò con
dei giornali – un uso proficuo del Financial Times, dopotutto – e finalmente adagiò la
bestiola all’interno.
Suddetta bestiola non fu particolarmente felice della sistemazione, ma Arthur preferì ignorare i suoi guaiti di
protesta e non si lasciò intenerire, mentre considerava se fosse meglio
lasciarla lì o trascinarsela in bagno, per tenerla d’occhio.
Fu la doccia più
veloce e insoddisfacente della sua vita, ma non sarebbe mai riuscito a
rilassarsi sapendo di avere una potenziale, pelosa bomba a orologeria
abbandonata a se stessa nel suo salotto.
Arthur si infilò in fretta un paio
di boxer e una maglia a rovescio, poi ritornò a verificare lo stato del cane,
ancora immerso nella sua irrequietudine e in guaiti paragonabili ad un gesso
che strisciava su una lavagna d’ardesia. Aveva anche tentato una personale fuga
da Alcatraz, ma la scatola aveva i lati troppo alti e
il cartone era troppo spesso e pesante per essere sfondato o rovesciato. Era una prigione perfetta.
Arthur si congratulò con se stesso. Poi meditò il da farsi.
E in quel mentre il suo stomaco protestò.
Dovette riconoscere che ragionare a pancia piena era più
produttivo, perciò prese dal congelatore un pasto precotto e lo infilò nel forno,
quindi rovistò nei pensili, trovando dei vecchi contenitori di cibo da asporto.
Erano delle ciotole un po’ misere, ma improvvisando bisognava avere spirito di
adattamento.
Ciò nondimeno… con
cosa l’avrebbe sfamato?
Ne riempì una d’acqua fresca e una di latte, lanciando al
botolo uno sguardo sbieco.
Era un cucciolo, perdìo!, tutti i cuccioli bevevano
sempre latte, no?
Fu ricompensato dal leccare rumoroso del cagnolino, che
spazzolò tutta la terrina fino all’ultima goccia, finendo persino per
rovesciarla, nella foga dell’ingordigia.
Mentre sbocconcellava il proprio pasto, Arthur gliela riempì tre volte, sperando sinceramente che quello non fosse
un errore.
Lui non ne sapeva
niente di cani, men che meno di cuccioli.
Ma ormai, per quella notte, era stato costretto ad ospitare la bestiola; l’indomani, però, avrebbe dovuto
darsi da fare e ritrovare chi lo aveva smarrito.
L’oggetto delle sue riflessioni, ignaro di tutto, si stava
ora curando il pelo leccando la zampina sinistra, tutta pelosa e soffice.
Fu quasi per caso che Arthur si accorse che qualcosa non
andava.
Afferrò l’animale e lo trasportò sotto alla
luce della lampada, per controllare meglio.
L’aveva lavato e asciugato con cura, eppure non si era affatto accorto della sbucciatura vicino allo
sperone.
Non stava sanguinando, ma sicuramente andava curata per scongiurare possibili infezioni e lui non aveva la più
pallida idea di come fare.
Doveva mettere una
delle pomate per umani? E se il cane l’avesse leccata? L’avrebbe avvelenato?
Doveva bendarlo? Sì, ma con cosa? Era pronto a scommetterci che una normale
fasciatura sarebbe stata rosicchiata in un batter d’occhio da quei dentini
acuminati.
E l’ansia gli stava
salendo.
Non era mai stato abituato a doversi prendere cura di
qualcuno o di qualcosa. Sicuramente non così dipendente in
maniera continua e vitale, come nel caso di un cucciolo. Un solo errore
poteva ucciderlo e lui non voleva nessuno – nessun
altro – sulla coscienza.
Arthur si concesse un pensiero fugace alla madre morta
dandolo alla luce.
La scomparsa improvvisa di Ygraine
Pendragon aveva irrevocabilmente segnato le loro
vite.
Suo padre non aveva mai superato il lutto per la perdita
dell’amata moglie e aveva scelto di non risposarsi più, né di rifarsi una nuova
vita. Si era gettato anima e corpo nel lavoro – l’enorme azienda di famiglia –
per soffocare la disperazione.
Non si era creato nessun altro legame, per non dover
soffrire ancora. Nessun legame, di nessun tipo.
Era come una regola non scritta ma inderogabile: se non vi erano nascite, non ci sarebbero state morti. Niente arrivi, niente partenze.
Quindi, per estensione, se lui e Morgana non possedevano
animali a cui affezionarsi, non avrebbero pianto alla
loro scomparsa.
Queste erano le
convinzioni di Uther.
A suo modo, però, aveva anche deciso come allevare i propri
figli e li aveva condizionati con le sue idee.
E così Arthur e sua sorella erano cresciuti senza alcun
animale da compagnia e con pochi, selezionati amici in comune – generalmente,
figli di conoscenti di famiglia o soci dell’azienda.
Lui ricordava un’unica occasione, nella loro infanzia,
quando una giovane tata – da poco assunta – li aveva accompagnati al luna park e, su insistenza del piccolo Arthur, avevano giocato e
vinto due pesci rossi.
Erano durati esattamente tre giorni – un tempo troppo breve per creare qualsiasi legame affettivo –, prima che la loro
boccia fosse sparita con una generica spiegazione sul fatto che erano morti.
Pur non possedendo le prove, Morgana gli aveva instillato il
sospetto che la loro governante avesse ricevuto dal loro padre l’ordine di
versare della candeggina nell’acqua per eliminare il problema alla radice.
Arthur non avrebbe più potuto chiedere nuovamente alla tata
di riaccompagnarlo alla bancarella, perché anche lei era stata rimossa dal suo
incarico.
Uther aveva combattuto ogni
ribellione dei suoi figli, proseguendo nel suo convincimento che
l’imperturbabilità fosse la via migliore per il quieto vivere.
E così Arthur, per non deluderlo, aveva finito con
l’incapacità di legarsi sentimentalmente a qualcuno; non in modo serio, perlomeno.
Morgana, di contro, era fuggita
dalle maglie del controllo paterno e aveva sposato il primo uomo che l’aveva
ricambiata. Aveva scelto Leon perché lo amava, sì. E perché non era abituata all’amore. Non sapeva davvero cos’era.
La sua fortuna era stata quella di trovare un uomo onesto e
sinceramente interessato a lei e non ai suoi soldi.
Perché, sebbene fosse Arthur l’erede designato della
Dinastia Pendragon, Morgana restava ancora
schifosamente ricca.
Ma il buon Leon la desiderava per
ciò che era e non per i soldi che si portava appresso e che, anzi, spesso la
precedevano.
Arthur s’era perso in quei ricordi
e fu il tenero morso del cucciolo a riportarlo alla realtà.
D’accordo,
considerò, subendo le pigre lappate e la lingua rasposa
sulle sue dita. Niente panico.
Sarebbe riuscito ad occuparsene per una notte senza ucciderlo, no?
In fondo, col latte se
l’era cavata beniss-
Arthur sgranò gli occhi, lanciando uno sguardo alla
confezione ancora sul tavolo.
Gli aveva fatto bere latte di riso, perché lui era
intollerante al latte vaccino!
Oh, Gesù! Tre intere
tazze, tre tazze colme! Tre- inspirò, cercando di
calmarsi. Il cucciolo pareva vivo e vegeto. Quindi
forse non era niente di grave. E poi il
latte era latte, eccheccazzo!
E poi i cuccioli mangiavano sempre un sacco di schifezze e- d’improvviso
rammentò uno dei discorsi inutili della sua ex, qualcosa sul fatto che, da
quando una sua amica era improvvisamente diventata vegana, aveva costretto
anche i suoi cani a quella dieta e le colazioni erano per tutti a base di avena
e latte di riso e soia alternati.
Quindi, a rigor di logica, lui non aveva commesso niente di irreparabile.
Ad ogni buon conto, avrebbe
interpellato immediatamente Gwen, perché ricordava
che suo fratello possedeva un gatto. Avrà
avuto un fottuto veterinario, no?
Fu dopo il nono squillo che Guinevere
rispose, assonnata.
Lui non aveva neppure controllato l’ora, ma si avvide che
erano solo le dieci di sera, ed era un venerdì sera. Chi diamine andava a letto come le galline?
“Arthur?” lo chiamò lei, stranita.
Lui inspirò e prese coraggio.
“Ho un problema. In realtà, due”, premise, decidendo di prenderla
larga e di alleviarsi la coscienza. “Può essere che il tuo ombrello
abbia subito un ingente danno strutturale e…”
“Oh!” ansò Gwen, costernata. “Era
il mio nuovo regalo di compleanno da parte di Elyan”.
“Allora tuo fratello è uno sporco
spilorcio, ti ha preso una schifezza di regalo. È bastato un soffio di
vento per...” Era sempre più facile attaccare che
difendersi. “Con quello che lo pago, poteva acquistartene uno migliore!” l’accusò.
“D’accordo. Qual
è il vero problema?” Tagliò corto Gwen, sbadigliando.
“È che, vedi… sono solo con-con”
Arthur tentennò, a disagio, e spostò il cordless
nell’altro orecchio “un cane e non so che fare!”
“Certo che sei solo come
un cane, Arthur”, gli fece eco Guinevere. “Perché hai
voluto tagliare i ponti con tutti, dopo la storia di Vivian…”
“No, Gwen. Ho un cane”, ripeté, preferendo ignorare
l’accusa – vera? tzé,
lui stava benissimo così! – “L’ho trovato davanti a casa e…”
“Un cane? Un cane?! Un cane… da te?”
Arthur roteò gli occhi.
“Sì, Gwen. Un cane. Hai presente?”
“Beh, sì, ma tu…”
“Infatti sto chiedendo aiuto a te. Hai il nome di un buon veterinario?”
“Pensi di tenerlo?”
“Ovviamente no!” negò ferocemente, prima di lanciare
un’occhiata colpevole al cucciolo che stava trotterellando davanti a lui, sul
tappeto. “Non lo so…” ammise infine, con un sospiro. “Non è neppure una
possibilità. Avrà sicuramente un padrone che ora è in pensiero e io non so niente di cani. Ma è
meglio farlo vedere. Per ogni evenienza. Metti caso che anche
io debba farmi vedere da un medico, se mi ha appiccato qualche malattia…
chessò…”
“Il dottor Emrys è bravissimo! Ha
fatto miracoli con la dermatite di Lance!”
“Con chi?”
“Lancelot, il mio pesciolino…”
“I pesci possono avere la
dermatite?”
“Sì, e bisogna spalmarci una crema per farla guarire… Altrimenti
le squame-”
“Guarda, non voglio altri particolari…” esclamò, con raccapriccio.
“Mi dai il numero?”
“Ho il suo biglietto da visita in cucina, ma ho già tolto le
lenti a contatto e devo cercare gli occhiali, aspetta…”
Arthur si distrasse e un rumore improvviso di cocci lo
richiamò. Un soprammobile – il dannato, costosissimo
Vaso Ming della collezione di Morgana – era in frantumi.
“Gwen? Gwen,
dettamelo!, sono certo che tu non sia così cieca da non poter distinguere le
cifre!”
E in fretta trascrisse su un foglietto il numero
dell’ambulatorio.
Ma quella sarebbe stata una lunga notte.
Continua...
Disclaimer: I
personaggi di Merlin, citati in questo racconto, non sono miei; appartengono
agli aventi diritto e, nel fruire di
essi, non vi è alcuna forma di lucro, da parte mia.
Nella storia c’è un riferimento a Wisteria
Lane: l’immaginario, elegante quartiere residenziale del telefilm ‘Desperate Housewives’,
a ‘Cougar Town’, e al film omonimo ‘Fuga da Alcatraz’.
Ringraziamenti:
Un abbraccio alla mia kohai che subisce le mie
paranoie. X°D
E a Laura, che si sciroppa le anteprime
con un entusiasmo che mi commuove.
Note: D’accordo. Posso
giurarvi che ogni cosa avrà una spiegazione. Vi prego di non picchiare
preventivamente l’Asino (o l’autrice) per i suoi modi poco garbati e diamogli
il beneficio del dubbio, eh?
Ho volutamente evitato di mettere immagini sul cane che ho
scelto, per facilitarvi l’immedesimazione con la descrizione di Arthur. Al
momento opportuno, vi mostrerò tutto.
La colazione vegana per cani è davvero come quella che ho
descritto.
Lo sperone del cane è l’escrescenza posteriore nelle zampe,
quello che – in origine – doveva essere il quinto dito dell’animale. Può essere
in tutte e quattro le zampe, oppure solo in quelle anteriori o posteriori, a
prescindere dalla razza.
I pesci possono davvero avere la dermatite. Credevo fosse
una barzelletta, finché non ho visto una mia amica usare la pomata antibiotica.
XD
Ecco.
Adesso che ho fatto la puntigliosa con le note, posso confessare che sono tutta
fremente e ansiosa!
Spero
veramente che questo nuovo progetto possa incuriosirvi e piacervi, almeno
quanto mi sono divertita io a scriverlo! *_*
Anticipazione del
prossimo capitolo:
Forse Arthur s’era distratto un po’
troppo, perché finì per cozzare contro l’oggetto delle sue riflessioni.
“Sei sempre così mattiniero, Arthur?” si sentì apostrofare, in modo del tutto inaspettato.
Fu un sorriso gioviale ad accoglierlo, e una mano allungata,
pronta per essere stretta.
Dio, ma quelle
orecchie erano finte, o cosa? Servivano per distrarre gli animali durante le
visite?!
Avviso di servizio
(per chi segue le altre mie storie): Linette 79 arriverà fra qualche
giorno.
Campagna di Promozione Sociale -
Messaggio No Profit:
Dona l’8‰
del tuo tempo alla causa pro recensioni.
Farai felici milioni di scrittori.
(Chiunque voglia
aderire al messaggio, può copia-incollarlo dove meglio
crede)
Come sempre, sono graditi commenti,
consigli e critiche costruttive.
Grazie (_ _)
elyxyz