And I’ve had recurrent dreams
That I was loved for who I am,
And missed the opportunity
To be a better man.
(Muse – Hoodoo)
Io, Lucio Elio Aurelio Commodo, figlio del grande Marco
Aurelio Antonino, Cesare di Roma, confesso.
Confesso di essere cresciuto eternamente nell’ombra di un
padre imponente, inebriato dalla sua gloria e dai suoi successi, ammirandolo
con un ardore superiore di gran lunga a quello di un normale figlio per suo
padre. Confesso di essermi sentito speciale, grazie a lui; unico.
Confesso di aver creduto fin dalla tenera età che fosse
semplice conquistarsi l’amore del popolo e la vittoria sui Barbari come aveva
fatto lui, il Filosofo, il Guerriero, Marco Aurelio. Confesso di essere
cresciuto assaporando nei miei sogni più luminosi il momento in cui anch’io
sarei stato il padre del popolo, e tutti mi avrebbero amato e mi avrebbero
rispettato.
Confesso di essermi scontrato subito con la realtà, da
bambino. Confesso di aver provato un’angoscia solitaria e irreversibile, quando
gli studi che avevo condotto mi scivolarono tra le dita come sabbia dorata e
ingannevole. Tragica, la scoperta di non essere diverso da un qualsiasi
ragazzo; ne fui disorientato, sconvolto al punto da restarne stordito.
Confesso, lo confesso, che quando vidi le opere di quell’uomo
ammirevole, capii subito che non ero destinato ad essere altrettanto saggio,
temperante, amato.
Confesso l’ansia di un cuore grande, troppo grande, troppo
vuoto e troppo bisognoso di essere riempito di affetto e amore, confesso la
delusione bruciante come mille fiamme infernali che man mano lo colmavano ad
ogni abbraccio del padre riservato alla sorella o a dei perfetti sconosciuti, e
che rodeva continuamente senza scrupoli per le mie richieste di pietà, e
arroventava le sue armi ad ogni manifestazione di stima.
Mai, mai a me. Mai una parola gentile per il figlio che
doveva crescere forte e che non aveva il diritto, non doveva avere il tempo, di
ripiegarsi su se stesso e sul labirintico vuoto che si apriva tenebroso laddove
era nato un cuore, un errore non contemplato dal programma.
Confesso la ricerca affannosa delle mie virtù personali,
confesso la corsa folle contro me stesso e la mia pochezza, confesso l’essermi
aggrappato con la forza e le grida della disperazione alla prima maschera che
ho trovato; la maschera dell’ambizioso, del subdolo, che non ha bisogno del
coraggio e della nobiltà d’animo –virtù, virtù candide e divine che giudicaste
troppo spaventoso l’abisso vasto di questo cuore per abitarlo!
Confesso tutta la rabbia, e l’odio, che ribollente al pari
di olio riscaldato e bruciante mi salì fino al cervello, fino all’anima, fino
al cuore quella maledetta sera; confesso la frustrazione e il dolore di un uomo
rinnegato da suo padre, di un ragazzo mai amato e mai sognato, di una persona,
di un essere umano dimenticato da chi l’ha generato –confesso, confesso di aver
ucciso mio padre Marco Aurelio perché non avrei mai potuto essere come lui, il
Luminoso, il Saggio, il Padre!
Confesso il pentimento, la paura paralizzante come quella di
un bambino che scopre di essere solo nella reggia quando c’è buio, che scopre
che la notte suo padre è troppo impegnato a proteggere il popolo per cullarlo
tra le braccia.
Confesso l’invidia, l’invidia per un uomo che non ha paura,
per un uomo che non si vergognerà mai dei suoi atti, per quell’uomo che ha una
moglie e un figlio che lo amano –lo amano! E confesso l’invidia per quel
bambino che sarebbe dovuto crescere abbracciato e stretto al petto dal suo
valoroso e forte padre, e che sarebbe dovuto diventare un uomo forte e sano.
Massimo Decimo Meridio, invano contro di te ogni fibra del
mio essere manda maledizioni dettate dalla realtà che è pari ad unghia affilate
che mi scarnificano dall’interno; vane, vane sono le maledizioni di un uomo
debole contro chi valorosamente lotta per proteggere i suoi e perché è spinto
da amore, e perché sa che lo amano.
Io ti odio, uomo giusto, onesto, uomo che abiterai ai Campi
Elisi. Ti odio, mia nemesi che desidererei essere più di qualsiasi altro
tesoro.
Massimo Decimo Meridio, tu che sei Generale hai tutto, io
che sono Principe cerco di stringere a me il nulla, ma sfugge persino questo.
Tu che sei schiavo, hai l’amore, io che sono Cesare ho l’odio intorno a me che
mi spezza la schiena, come quei maledetti occhi fanno con la mia coscienza, e
non possono fare a meno di accusarmi, ingiusti, inflessibili, ammiccando
dovunque io mi volti, nel buio, nel buio dove il bambino fragile figlio di re
può solo tremare ed accucciarsi sperando nell’intervento del padre.
Non verrà, non verrà, come tutte le volte che avresti voluto
un complimento o una rassicurazione, un insegnamento detto a quattr’occhi; non
verrà nessuno, povera creaturina gemente e dimenticata.
Confesso l’amore tenero e fuor di misura per un padre la cui
perfezione era irraggiungibile, i cui pensieri erano in cieli troppo alti per
essere raggiunti dai bassi bisogni di un figlio normale, comune, di un bambino
desideroso di amore che ha dovuto colmare il suo cuore di scaglie acuminate che
ne accentuarono il sanguinare, che ne accentuarono il desiderio sempre
incompiuto rendendolo impensabile, insopportabile, inumano; che ne accentuarono
la consapevolezza di essere disposto ad ogni atrocità pur di rifugiarsi per un
istante solo in quel paradisiaco abbraccio di amore ricambiato che ogni uomo
prova una volta nella sua vita, per poi accettare ogni punizione, ogni dolore,
ogni atrocità per un momento di amore puro.
Confesso la mia colpa, confesso e la allontano da me,
chiudendo gli occhi, voltando il capo, dimenticando l’amore non corrisposto,
convincendomi di valere di più dell’amore di un padre, di un Cesare.
Convinzioni dolci come le droghe che stordiscono i sensi,
convinzioni evanescenti come una reggia costruita su pilastri fragili di
cristallo e vetro.
Confesso di aver riversato tutto l’amore che si è mescolato
al sangue e al veleno in questo cuore smisurato e pulsante sull’unica creatura
che mi fu accanto sempre. Confesso, sorella mia, confesso le uniche gioie che
mi fecero sentire vivo, confesso che le provai al vedere la tua bellezza, a
sentire che eri accanto a me nel buio, che non mi abbandonavi nelle tenebre
come tutti gli altri.
Mi prendevi la mano, mi sorridevi nelle tenebre e io lo
sentivo, mi carezzavi i capelli e io chiudevo gli occhi e piangevo perché non
volevo che finisse, non volevo che l’oscurità benedetta grazie a cui ero
riuscito a legarti a me rompesse questa catena –di cristallo e vetro– che
faticosamente avevo costruito, che con gioia portavo al collo ogni notte.
Confesso di non aver mai compreso la luce e il giorno.
Confesso, lo confesso, di essermi sempre chiesto a cosa servissero, queste
maledizioni degli dei che ci fanno vedere le apparenze, che ci mostrano le
vesti e i volti degli uomini, che ci mostrano chi è Principe e chi è soldato,
chi è donna e chi è sorella.
Confesso e ne prendo atto, che da sempre ho respirato il
buio e la notte, che da sempre mi sono colmato di quei pochissimi attimi in cui
io non vedevo mia sorella, ma vedevo una donna premurosa che mi amava, mi
amava, era tutta per me, era la mia donna.
Confesso di gioire adesso, con il campo visivo tinto di
sangue e di nero, confesso che è bello sapere che la vita del teatro e delle
apparenze è conclusa, confesso che amo morire, e che sono pronto ad ogni
punizione e sofferenza, adesso che la Morte mi ha abbracciato e stretto al
petto, grande madre che consoli i cuori rifiutati e negletti.
Confesso ancora l’illusione che mi bastava chiudere gli
occhi per evocare, perché guardandoti riconoscevo la sorella, ma ad occhi
chiusi, toccando le tue labbra sognavo che tu fossi la mia donna, che mi amassi
per quello che sono, che amassi Commodo e non il fratellino debole o il
Principe, come le puttane che mi avrebbero dato il loro corpo.
Per questo volevo te, per questo volevo l’amore completo e perfetto
da te; ti avrei dato la mia vita, avrei esaudito ogni tuo desiderio se soltanto
ti fossi accostata a me e mi avessi detto che mi amavi, con la tua voce
tranquilla e conosciuta, con i tuoi occhi belli e luminosi, con le tue labbra
così simili alle mie e così diverse! Luce, luce che squarci la notte paurosa,
perché mi hai tradito, perché te ne sei andata via da me?
Perché, perché mi hai tradito, prediletta, unica, amata
dolcemente, consolazione a ogni timore e a ogni spaventoso incubo? Come puoi
non sentire le mie grida!
Perché mi hai abbandonato? Io ti amo! Ti amo, ti amo, amerei
il mondo se solo tu, su cui ho riversato questo maledetto amore misto a sangue,
misto ai delitti, avessi avuto cura di me, ti fossi preoccupata di sanare
quelle ferite che il tempo e l’amore avrebbero potuto curare!
Non abbandonarmi, no, Lucilla! Se resto solo, se resto solo
con il mio vuoto ne verrò risucchiato, diventerò pietra, e io non voglio morire
prima di aver provato cos’è essere amati!
-Essere amati per quello che si è, è perdere l’opportunità
di migliorarsi.-
Pur di essere amato da te, dal popolo, da tutti gli uomini
sulla terra ero pronto a diventare un uomo migliore, migliore persino di mio
padre, volevo cambiare e diventare finalmente amato.
-L’opportunità di migliorarsi, però, viene concessa solo
agli animi saldi.-
Come se vedessi il mio riflesso su un frammento di specchio,
vedo che sono incompleto, vedo che sono un errore, uno scherzo della Natura, il
giocattolo difettoso degli dei.
Un uomo mediocre nato in una famiglia di Imperatori
–confesso di aver tentato con ogni mezzo.
Un cuore così smisuratamente grande da non essere mai pago
–confesso di aver cercato amore, solo e sempre amore.
Una debolezza infinita e indecente, una paura umana e
comprensibile –confesso la mia debolezza, confesso di avere avuto paura tutta
la vita, confesso e confido che nessuno può giudicarmi perché sono un debole.
Il mio corpo giace freddo e insanguinato sull’arena, nessuno
vuole toccare il corpo di un traditore del suo sangue, sleale contro un uomo
valoroso, abbietto criminale senza scrupoli e zio diabolico nei confronti di un
innocente bambino.
Confesso che lo sapevo, cosa erano i miei atti. Confesso
ogni mio delitto e lo riconosco.
Confesso che la maschera che portavo non era sufficiente,
non era abbastanza, non l’avevo mai voluta.
Confesso di essere cosciente di ogni omicidio e di ogni
dolore da me causato, confesso di non rinnegarli perché erano gli unici mezzi
per me che non sapevo come uscire dalla spirale della disperazione e della
solitudine.
Confesso di essere stato debole e solo per tutta la vita.
Confesso di aver perso l’occasione di riscatto che mi era stata posta tra le
mani, e me ne struggo dal profondo di questo cuore scoppiato per la follia di
un dolore a cui gli Dei furono sordi.
Accuso, però. Accuso l’ingiustizia, accuso l’odio degli Dei
per Roma, perché dalla Luce hanno fatto nascere la Tenebra, e l’hanno posta sul
trono per tiranneggiare a piacimento il popolo romano, e per ridere della
miseria di un uomo che non doveva diventare Cesare, che non ebbe mai diritto a
una famiglia.
Dalla Luce è scaturita la Tenebra, e solitario ho intonato
il lamento funebre per quel principio di bontà che è stato costretto
all’impotenza e alla tortura dal sadico pazzo, dal disumano Fato.
Ho avuto sogni ricorrenti
Di essere amato per quello che ero,
Perdendo l’opportunità
Di essere un uomo migliore.