Cap1
Dolce Flirt ~
Shadows
Vediamo se questa storia riesce ad essere più bella di Doppio Gioco...
Capitolo Uno.
First Act.
Ho sempre pensato fosse
una persona strana. Qualcosa in lui mi aveva sempre attirato ma, al
contempo, respinto in maniera viscerale. Era tutto ciò che io
non ero e non sarei mai diventato. Il solo pensiero mi irritava
più di quanto avessi mai potuto immaginare.
Ed è per questo che mi avvicinai a lui...
Stava fumando, seduto in modo scortesemente inappropriato sulla sua
panchina preferita, quella più in disparte nel cortile del
Liceo. Ricordo ancora quando, l'anno prima, dovetti far firmare una
richiesta per far riverniciare le panchine solo per quella, rovinata da
mozziconi di sigaretta spenti sopra e delle impronte di scarponcini che
non venivano via con nessun prodotto di pulizia. Io stesso strofinai
per una mezz'ora buona senza avere risultati.
Lo osservavo dal corridoio, con la spalla appoggiata al vetro della
porta principale dell'istituto e la fronte calcata su di esso.
Chissà, forse il fatto che lui non mi avesse notato mi aveva
fatto credere d'essere invisibile e perfettamente nascosto e questa
strana sensazione mi fece sussultare quando sentii la voce di Lysandre,
alle mie spalle, chiamarmi.
«Che fai?»
mi chiese avvicinandosi a me. Si mise al mio fianco e, poggiando una
mano sul vetro, mise il suo volto a contatto con essa per riuscire a
vedere bene il cortile senza i riflessi che la luce produceva sul
vetro. «Castiel...?»
pronunciò leggermente incredulo. Mi sentii come un ladro colto
con le mani nel sacco: avevo sperato per qualche secondo che lui non
capisse ma, d'altronde, non c'era nessun altro in cortile. Abbassai lo
sguardo nello stesso momento in cui Lysandre alzò il suo. Non
volevo vedere l'espressione che mi stava rivolgendo. Il solo
immaginarla mi bastava.
«Che ti ha fatto,
stavolta?» chiese ancora cercando di trattenere una risatina. Per
poco non cedetti alla tentazione di guardare il suo viso mortificato
dalle azioni dell'amico. Arrivai con lo sguardo fino al mento ma poi mi
ricredetti fissandomi sui particolari della sua giacca e sul foulard
verde che portava al collo. Guardai bottone per bottone ogni centimetro
della stoffa che indossava pur di non incontrare quegli enigmatici
occhi smeraldo e ambra. Mi sentivo tremendamente in imbarazzo pur non
avendone affatto motivo.
«N-niente»
balbettai, riportando l'attenzione al rosso che, ora, stava spegnendo
l'ennesima sigaretta sul legno all'apparenza nuovo della panchina.
Storsi le labbra, pur senza accorgermi di questo mio gesto
involontario. Un'altra bruciatura da togliere. Grazie Castiel!
Pronunciai le ultime due parole in un soffio, come se i miei
stessi pensieri, dotati di volontà propria, avessero deciso di
manifestarsi. Sentii ancora una volta la risata del ragazzo accanto a
me, conscio dei miei sentimenti ostili verso quello che poteva
considerare il suo migliore amico.
Che persona strana, Lysandre... Nonostante gli stia a cuore Castiel non fa nulla per difenderlo.
«L'anno prossimo
gli farò sborsare i soldi per la manutenzione dell'intera
scuola» sbottai cercando di farmi grosso agli occhi del bianco.
Quand'ero con lui mi sentivo leggermente in soggezione. Non so
perché ma avevo paura di risultargli inferiore rispetto al rosso.
Lui rise, per niente imbarazzato di trovarsi in mezzo a due persone da tutti considerati rivali o completamente opposti.
Tutto questo, comunque, mi dava sui nervi. Non volevo vedere più Castiel deturpare la scuola.
«Vado» esordii con fare molto più tranquillo. «Ho
delle faccende da sbrigare». E voltandogli la schiena me ne
andai. La voce di Lysandre, in sottofondo, che mi rassicurava riguardo
al suo amico. Parole che, in fondo in fondo, mi rallegrarono un poco.
Inspirai profondamente riempiendomi i polmoni dell'aria fresca che si
respirava in fondo alle scale. Tra le mie dita la maniglia della porta
che dava nel sottoscala. La aprii con veemenza provocando un rumore che
però si disperse nelle note musicali che venivano suonate.
Nessuno mi aveva ancora notato e, davanti a me, sia Castiel che
Lysandre sembravano completamente assorbiti nella musica che stavano
producendo. Una melodia che non avevo mai sentito prima, più
bella del solito. La voce di Lysandre m'incantò per qualche
secondo. Sentii il respiro finora trattenuto scivolare via dalle mie
labbra socchiuse. Fu allora che mi ricordai cosa stessi facendo il quel
posto.
«CASTIEL!»
urlai con tutto il fiato rimasto. La musica si bloccò
all'istante e la grande stanza piombò nel silenzio. Lo sguardo
del rosso si posò su di me trafiggendomi come unalama di
ghiaccio. Mi strinsi istintivamente alla maniglia. Il freddo del
metallo sembrò penetrarmi nella pelle ed invadermi l'intero
corpo. Mai uno sguardo di quel ragazzo era riuscito a paralizzarmi a
quel modo. Come poteva essere capace di sguardi simili?
Persi totalmente la cognizione dello spazio e del tempo. La vista mi si
annebbiò e non riuscii più a mettere a fuoco altro che
non fossero quei due occhi grigi che mi guardavano con tanto astio.
Non parlò. Non disse niente. Rimase nella sua posa stoica senza
muovere un muscolo per un tempo interminabile. Poche ciocche dei suoi
capelli erano scappate dal codino in cui erano state racchiuse tutte le
altre. Incorniciavano il viso pur non intromettendosi tra me e lui. Le
braccia bloccate nello sforzo di suonare. I muscoli si potevano vedere
ben delineati dalle maniche in giù, e le mani fermate poco prima
di far vibrare una nota che non avrei saputo riconoscere nemmeno
sentendola. Una gamba leggermente flessa con un ginocchio verso l'alto
e lo stesso piede appoggiato al terreno solo con la punta delle scarpe.
«Suonavamo troppo forte?».
Lysandre distrusse la tensione creatasi tra me e Castiel. Voltai il
viso verso di lui, ricordandomi della sua presenza così sottile.
Annuii pian piano cercando di trovare un appiglio alle sue parole
così da poter poi cominciare una conversazione. «Decisamente»
pronunciai con un tono di voce fin troppo basso. Sembrai sottomesso e
questo non potevo permettermelo. Quindi mi schiarii la voce, facendo
loro intendere che l'urlo che aveva interrotto il loro pezzo mi aveva
momentaneamente fatto calare la voce. Nel mentre sentii sbuffare.
Castiel, ancora lui.
«Che cosa vuoi, segretario delegato?»
freddo e implacabile. Sputò le ultime due parole come se gli
facessero schifo; come acido da gettarmi addosso per ferirmi. Gli
rivolsi il peggiore dei miei sguardi.
«Questa cosa non
può andare avanti per sempre» gli dissi. La cosa non
sembrò attirare la sua attenzione. Il suo sguardo ora era
rivolto alla sua chitarra elettrica con cui stava facendo finta di
suonare qualche melodia a me incomprensibile. Ciononostante le sue
orecchie erano ben attente a captare qualsiasi mia parola. Non che gli
interessassero, ovviamente, ma da sempre non si era mai negato il
piacere di perdersi qualche mio discorso così da potermelo un
giorno rinfacciare o per usare le mie stesse parole contro di me. «Dovete smetterla di suonare qua dentro. Ci faremo scoprire». Perché usai il noi?
Mi sentii un completo idiota e, nel contempo, loro complice. Immaginai
la nuova ragazza arrivare ora, alle mie spalle, e scattare fotografie a
raffica su noi tre con la nuova macchina compatta che aveva comprato il
pomeriggio prima. Già m'immaginai le voci che sarebbero girate
nella scuola e gli sguardi dei miei compagni. La sola idea di essere
bollato al pari di Castiel mi fece rabbrividire. O quasi. Avvertii uno
strano brivido lungo la schiena ma non fui certo che fosse disgusto. Un
mix di adrenalina e una sorta di paura primordiale che si prova quando
ci si sta per tuffare in una di quelle imprese folli che, però,
si desiderano nel profondo dell'anima. Cos'era quella stupida idea di
voler essere come Castiel? Perché mai avrei dovuto desiderare
una cosa del genere?
Mi scervellai su questa cosa per settimane. Odiavo sentire in me
crescere uno strano desiderio d'imitazione rivolto ad una delle persone
che più mi stavano sui nervi. Continuando ad osservarlo notavo
ogni giorno comportamenti diversi. Mi dava fastidio come, all'ingresso
della scuola, si spegnesse i mozziconi di sigaretta sotto alla suola
degli anfibi che indossava che avrebbero poi lentamente disperso la
cenere della sigaretta per tutti i corridoi della scuola. Mi
infastidiva vedere le cicce accartocciate nel cortile: troppe persone
stavano prendendo esempio da Castiel, ignorando completamente i
portacenere sparsi per l'area circostante la scuola. Mi saliva il
nervoso quando sentivo pronunciare il suo nome nei corridoi e, peggio,
in sala delegati -il mio mondo. Detestavo il fatto che le ragazze
parlassero sempre di lui; come se fossi geloso. Ma non lo ero.
Non era la schiera di fan a mancarmi, con tutte le ragazze che venivano
a trovarmi mentre cercavo di amministrare tutte le scartoffie della
scuola. Non era una popolarità minata dalla cattiva fama ad
interessarmi. Ciò che mi attirava di Castiel era il suo
atteggiamento: quel suo modo di dire al mondo che poteva
tranquillamente girare su se stesso che tanto, a lui, non sarebbe
importato comunque. Il suo menefreghismo era la sua più grande
arma e ciò che io gli invidiavo.
«Figliolo, mi stai ascoltando?»
La voce di mio padre sopra ogni altro pensiero; la sua autorevolezza
sovrastò, ancora una volta. Alzai gli occhi dal piatto
inquadrando per la prima volta la mia famiglia. Come sono arrivato qui? E da quanto stavo fissando il piatto ancora pieno preparato da mia madre?
Lei che, preoccupata, mi guardava cercando di capire come mai fossi
così schivo quella sera. E mio padre, a capotavola, che mi
rivolgeva il suo solito sguardo accusatore, come se io fossi la colpa
di ogni suo male. Da anni, ormai, mi padre mi trattave come se fossi lo
zimbello della famiglia, il figlio che gli rovinava la reputazione
ignorando totalmente che la figlia da lui tanto amata non era altro che
una falsa bugiarda che manovrava i nostri genitori a suo piacimento. Ed
eccola, infatti, davanti a me con il suo solito sorrisetto da furba a
godersi lo spettacolo del fratello preso di mira.
«Ti stanchi a
fare il segretario?» disse mio padre con una punta d'ironia. Lui
ha sempre reputato una cosa sciocca il mio ruolo nella scuola. O sei il
migliore o non lo sei. Per lui non ero mai abbastanza. Rappresentate di
classe, d'istituto e degli studenti. Segretario delegato, l'anello di
congiunzione tra gli alunni e il personale docente: un ruolo di molta
importanza al Liceo. Ma a casa tutto ciò era sminuito da quattro
frasi di Ambre e di mio padre. Mia madre, invece, rimaneva sempre
sottomessa come me alle parole del capofamiglia. Una risatina di mia
sorella si aggiunse al quadretto. Un rumore irritante quanto la sua
personalità e tutto ciò che la riguardava. Le mie dita si
strinsero attorno alla forchetta e il metallo luccicante mi
ricordò la maniglia della porta del sottoscala. Gli occhi di
Castiel tornarono a rimbombarmi nella memoria e sentii la stessa morsa
allo stomaco sentita quella sera. Niente mi aveva fatto così
male in tutta la mia vita, nemmeno le occhiatacce e le battutine di mio
padre. Realizzai, allora, che niente avrebbe più potuto
abbattermi. Niente che avesse da dire mio padre avrebbe più
potuto ferirmi come un tempo. Un dolore maggiore aveva ferito la mia
anima e nessuno era al pari del ragazzo ribelle dai capelli rossi. Non
c'era niente di peggio, no.
Lasciai andare la forchetta che ricadde tintinnando nel piatto. Con una
forza e una risolutezza mai provate prima mi alzai dal tavolo spingendo
con le gambe la sedia indietro. Risuonò la mia ribellione in
tutta la sala da pranzo mentre gli occhi di mia madre si sgranarono.
Vidi nelle sue iridi il riflesso lontano di un ragazzo che non riuscivo
a riconoscere come me. Uno sguardo risoluto e deciso rivolto all'uomo
che da sempre aveva cercato di abbattermi. Non riuscii a dire niente, i
miei sentimenti straripavano senza sosta dai miei pori, dai miei
capelli, da tutto ciò che sentivo mio.
Mi voltai e mi diressi verso la porta della stanza. Volevo andarmene da
quella casa anche se sapevo benissimo che prima o poi sarei dovuto
tornarci. Mio padre cominciò a chiamarmi con un tono sempre
più alto ma ormai non mi comandava più. Mi fermai sulla
porta quando mi chiese che intenzioni avevo. Voltai solo la testa per
guardare un'ultima volta quel quadretto che fino ad ora era sempre
sembrato perfetto e felice a tutti quanti.
«Non lo so. Non aspettatemi» e chiudendo la porta alle mie spalle me ne andai.
Scesi di corsa le scale con l'adrenalina che mi scorreva ancora nelle
vene per ciò che era appena successo. Mi sentivo forte,
invincibile; nessuno avrebbe potuto fermarmi. Avevo preso giusto la mia
giacca, il portafogli, le chiavi di casa e il cellulare. Non poteva
servirmi altro per la notte che avevo intenzione di passare.
Vorrei ringraziare la
mia consulente privata, Ayubibi, per avermi sopportato in questi due
giorni in cui ho scritto il capitolo che ora s'è smezzato.
Purtroppo anche a me sembrava davvero molto lungo ma la voglia di
rendere il tutto in un unico capitolo m'ha portato a renderlo davvero
pesante, quindi ho deciso di cancellare l'altra storia per pubblicare
questa, totalmente identica ma con l'unica variazione della divisione
di tutto ciò che finora ho scritto. Per chi l'ha già
letto, mi dispiace, ma dovrà farlo da capo.
Così vi risulterà molto meno pesante, davvero.
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