But have you seen this girl? She’s been running through my dreams.

di Molly182
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Chap trentadue.
Mi alzai dal letto. Non mi sembrava vero essere ancora lì. Il freddo pavimento mi fece rabbrividire, ma l’aria che respiravo riusciva a calmarmi perfettamente. Erano trascorsi tre mesi da quando avevo seguito Alex in tour e tornare a casa era stato come un toccasana, ma non potevo negare di aver fatto una mossa fin troppo azzardata. Mi mancava e il non averlo più intorno era davvero triste, ma tra meno di un mese sarebbe tornato e le cose sarebbero ritornate di nuovo opposto. Iniziai a girare per casa con una tazza di thè tra le mani, come avevo fatto la prima volta dopo che Sally si era trasferita da Jack. Come facevo da ormai una settimana, ma volevo godermi quegli attimi di pace.
Nessuna chitarra in sottofondo, nessun odore di birra, nessuna barzelletta sconcia, nessuna presenza umana eccetto me stessa. Regnava dopo tanto tempo la tranquillità, forse anche fin troppa. Avevo davvero bisogno di tutta quella calma dopo la tempesta di nome Alexander.
Tornai nella mia stanza e aprii l’armadio, mi sarei dovuta vestire per uscire. Dovevo di nuovo trovare un lavoro, ma forse sarei potuta tornare al giornale e strisciare e implorare David per riavere il mio posto da giornalista. Certo, avrei potuto e per farlo mi sarebbe servita un’enorme dose di coraggio, ma non sapevo, proprio, dove prenderlo finché qualcosa catturò la mia attenzione.
Una parte dell’armadio sembrava provenire dal negozio della Glamour Kills. Alex aveva così tanti capi di quella società che una parte l’aveva lasciata da me, una seconda era a casa sua e l’ultima in tour con lui.
Tirai fuori una maglietta e respirai il profumo che emanava. Era inconfondibile. Era esattamente il suo e non riuscii a fare a meno di sorridere. Tre settimane e sarebbe tornato.
Mi vestii in fretta indossando la sua maglietta e uscii da casa. Forse avevo trovato il mio coraggio.
Non mi resi conto di quanto avessi camminato veloce fino a quando non mi trovai sotto quell’edificio di mattoni. Faceva sicuramente più freddo rispetto a quando me ne ero andata. O meglio, da quando David mi aveva cordialmente mandato in pausa fino a un tempo indeterminato.
“Trohman! Lei è licenziato!”, si sentì urlare da una stanza in fondo al grande ufficio. Subito dopo udii una porta sbattere e un uomo uscire dalla porta e borbottare qualche insulto. Decisamente David aveva fatto di nuovo una delle sue carneficine. “Lei è un incapace! Non si faccia più vedere qui!”
Mi ero dimenticata di quanto fosse cattivo quando si arrabbiava e non potevo nascondere il fatto di essere terrorizzata all’idea di doverci parlare.
“Voi tornate al lavoro!”, continuò rivolgendosi agli impiegati. “Non c’è nulla da guardare!”, concluse chiudendosi per la porta alle spalle.
Dire che ero terrorizzata era davvero riduttivo e gli sguardi che qualche giornalista mi rivolgevano non aiutavano per niente. Sembravano suggerire di scappare via. Però quell’espressione terrorizzata nei loro occhi mi fece tornare in mente quella che avevano la crew appena Matthew perdeva le staffe e neanche David raggiungeva il suo livello.
Feci un profondo respiro e avanzai verso quella porta nera che tutti temevano e bussai cercando di essere più tranquilla possibile. In fondo, non c’era nessuno peggio di James Matthew Flyzik. Di cosa avrei dovuto avere paura?
“Avanti!”, rispose con un tono di voce ancora arrabbiato.
“È permesso?”, chiesi facendo capolino dalla porta con la testa.
“Porter! Quale buon vento la porta da queste parti?”, chiese facendo un cenno di sedermi con la mano.
“Il mio posto di lavoro!”
“Ha coraggio a presentarsi qui!”, rispose ridendo e adagiandosi alla sua poltrona.
“In verità sto nascondendo il mio nervosismo, ma il mio posto di lavoro è un argomento lasciato irrisolto e ora vorrei fare due chiacchiere con lei e arrivare a un compromesso”.
“Oh Allyson….”, sorrise. “Hai perfettamente ragione, ma sai come la penso…”.
“Lo so ed è per questo che sono qui… sono passati più di cinque mesi dall’accaduto e intanto non ci sono stati problemi, ho seguito la band in tour lavorando nello staff e non sono sorte incognite nonostante fossimo esposi a un eccessivo rischio e sinceramente non penso che sia giusto privarmi di qualcosa che amo fare e che, come ha detto lei, di cui ho le capacità solo perché ho una relazione con un musicista”, dichiarai tutto di un fiato. “Inoltre non siamo la Famiglia Reale che richiedono così tanta importanza e se capita qualcosa me ne assumo tutta la responsabilità e lei potrebbe sempre trarne vantaggio a scopo pubblicitario”.
“La sua determinazione mi ha lasciato senza parole, devo ammetterlo, e il suo discorso è convincente, ma…”.
“Ma?”, chiesi. “Sono dentro o sono fuori?”, gli domandai impazientita. Ero stata una pazza a essermi tuffata in una fossa di leoni soprattutto a rivolgermi in quel modo a un uomo concretamente più grande di me. Dovevo immaginare a un possibile rifiuto con un calcio nel sedere e un possibile allontanamento da tutti i giornali della città.
“Ok, va bene…”
“Come?”, chiesi non capendo cosa avesse detto. “Può ripetere?”
“È dentro signorina Porter!”, rispose facendo comparire un sorriso da sotto i suoi spessi baffi grigi. “Mi ha convinto e sinceramente lei è di gran lunga meglio di Trohman, da quando è qui ha combinato solo disastri!”, disse l’ultima parte con un tono di voce che mostrava tutto il suo disprezzo nei confronti di quell’uomo.
“Beh, è fantastico!”, esultai. “Cioè il fatto di poter tornare a lavorare qui… non per quell’uomo che è appena stato licenziato…”.
“Dov’è finita tutta la grinta con cui mi aveva affrontato prima?”, chiese ridendo. Mi sentivo decisamente più rilassata. “È quella che cerco nei miei giornalisti… niente pappamolla!”
“Certo!”, dissi. “Grazie mille… beh… per questa seconda possibilità, signore!”
“So che non mi deluderai, basta che ti presenti qui domani mattina al solito orario e tutto andrà bene!”, mi sorrise di nuovo alzandosi in piedi. Allungai la mia mano verso la sua e la strinsi forte, ringraziandolo per altre mille volte.
Ce l’avevo fatta! Era andato tutto bene ed ero riuscita a riottenere il mio vecchio lavoro senza aver preparato un discorso, ma mi era bastato un profondo respiro e tutto quello che dovevo dire era uscito dalla mia bocca senza preoccuparmi di quello che avrebbero potuto causare le mie parole. Forse era stata la maglietta di Alex, forse l’irascibilità di Matt, forse la mia voglia di scrivere. Qualunque cosa fosse stata a darmi coraggio aveva funzionato e ora non potevo chiedere di meglio.
 
Due settimane.
 
Tre settimane.
 
Mancava poco ormai. Era questione di giorni. Non avevo idea a che ora il suo aereo fosse atterrato. Non sapevo se sarebbe venuto subito a trovarmi. Non sapevo neanche se avesse avuto un improvviso impegno di lavoro.
L’unica cosa certa era la mia felicità nel poterlo rivedere tra breve, nel poterlo di nuovo avere intorno che girava per casa con una penna appoggiata sull’orecchio e dei fogli completamente scarabocchiati mentre provava a intonare qualche melodia. Era esattamente tutto quello di cui avevo bisogno.
“Pronto?”, risposi al cellulare che aveva interrotto i miei pensieri e anche il mio sonno.
“Al!”, disse l’altra voce.
“Alex?”
“Scusa, aspettavi la chiamata di qualcun altro?”
“Sono le due del mattino… non mi aspettavo la chiamata di nessuno, in verità!”
“Non dovresti essere sveglia a quest’ora…”.
“Alex, è successo qualcosa?”
“Perché dovrebbe succedere qualcosa?”
“Alex...!”, lo rimproverai.
“Volevo solo sentire come stati o se stavi ancora dormendo”
“Lo stavo facendo… prima che tu mi svegliassi”, gli feci notare adagiandomi di nuovo sul letto e chiudendo gli occhi.
“Scusa… però volevo dirti una cosa…”
“E cosa c’è di così importante da chiamarmi a quest’ora di notte?”
“Nulla… volevo dirti che stavo tornando”, disse con tutta la tranquillità del Mondo. Il contrario di me, che avevo aperto gli occhi cercando di capire bene quello che aveva appena detto.
“Puoi ripetere scusa?”
“Sto tornando a casa”
“Casa tua?”
“A casa”, ripetette rimanendo sempre tranquillo. In quel momento mi apparve in mente un libro che avevo letto: «On The road» di Jack Kerouac. Alex mi dava assolutamente l’impressione di quel ragazzo che faceva da protagonista alla storia. Nelle ultime righe del libro scriveva: «una macchina veloce, l'orizzonte lontano e una donna da amare alla fine della strada»*. Era un po’ il riassunto della sua vita e sorrisi a quell’idea che mi si era formata in testa.
“Ora dove sei?”, gli chiesi alzandomi dal letto e iniziando a sistemare la stanza, come se avessi davvero la voglia e l’energia di poter fare qualcosa. “Immagino che andrai a letto… ti farebbe bene una bella dormita in un letto decente”
“Non hai tutti i torti, ecco perché dovresti immediatamente venire ad aprirmi la porta e lasciarmi entrare”
“Potresti ripete, scusa?”, gli chiesi. “Non penso di aver capito bene dove diavolo tu sia”
“Apri la porta e basta!”, rispose chiudendo la chiamata.
Non sapevo se stava scherzando o no, ma feci ugualmente quello che mi aveva chiesto. Mi alzai dal letto e percorsi il breve corridoio fino alla sala. Pensai a quanto fosse pazzo quel ragazzo. Probabilmente non avrei mai trovato un’altra persona come lui, forse Jack era quella che gli si avvicinava di più, ma lui era unico, almeno per me. I suoi occhi, le sue guance morbide, i suoi capelli sempre scompigliati e la sua risata, la sua voce, i suoi gesti e il suo comportamento da voler piacere a tutti in ogni caso. Erano tutti piccoli particolari che mi piacevano di lui, ma solo una cosa mi aveva fatto innamorare di lui: il suo modo di essere.
Girai la chiave nella serratura e stupidamente aprii la porta. Rimasi sorpresa nel trovarmi un ragazzo con un sorriso smagliante e con una chitarra sulle spalle.
“Sono a casa!”, disse osservandomi da sotto una visiera. Gli copriva con, la propria ombra, metà volto, lasciando libere le sue labbra. Questo però non m’impedì di scorgere i suoi occhi che brillavano di quella luce che mi faceva impazzire. Era un bagliore che avevo trovato solo in lui.
“Da quando questa è casa tua?”
“Da quando ho iniziato a passare più tempo qui che nella mia”
“Hai detto qualcosa di giusto… quindi adesso che si fa?”
“Io opterei per lasciarmi entrare e poi salutarmi come si deve”, disse concludendo la frase con uno dei suoi magnifici sorrisi. Portai le mie mani dietro al suo collo e feci quello che volevo fare da un mese. Il contatto con le sue labbra mi fece rabbrividire. Non mi ero dimenticata di quanto fossero morbide e buone. Non avrei mai potuto farlo.
“Bentornato Alex”, gli sussurrai a pochi centimetri da lui. Mi staccai a malincuore e lo lascia passare. Chiusi la porta alle mie spalle e appoggiandomi sopra. Mi ero persa a osservare quel ragazzo davanti a me. Mi chiedevo come fosse successo. Come fosse stato possibile tutto questo. A come mi ero innamorata di un ragazzo che avevo provato a detestare. Forse la frase «gli opposti si attraggono» era vera ed io iniziavo a crederci, ma questi erano solo stupidi pensieri che si formavano per mancanza di argomentazione, perché neanch’io sapevo come era potuto succedere eppure quel ragazzo mi aveva rapito. Aveva sempre avuto una capacità di attirarmi a se con un semplice sguardo e imprigionarmi in un Mondo dove tutto era perfetto. Eppure non avevo bisogno di un mondo perfetto quando potevo avere lui. Non era il ragazzo perfetto, ma era quello che mi faceva stare bene in qualunque momento e in qualunque posto e non c’era nulla che potessi desidera di più.
“Che c’è?”, chiese poggiando la chitarra sul divano e guardandomi con un sorriso felice sul volto. Lo vedevo particolarmente rilassato e tranquillo.
“Nulla… stavo pensando”
“A cosa?”
“A nulla…”
“Allora potresti spiegarmi perché indossi una delle mie camicie come pigiama…”
“Potrei spiegartelo, ma cadrei troppo nello sdolcinato”
“E sarebbe così assurdo per te?”
“Davvero vuoi restare qui a parlare di cosa indosso per dormire?”
“Potremmo restare qui a parlare… o scopre cosa indossi sotto”, propose spingendomi a se e posando le sue labbra sul mio collo. Mille brividi mi percorsero la schiena.
“Alex…”, sussurrai allontanandolo da me.
“Ally…”
“Che fai?”
“Non stavamo giocando a chiamarci?”
“Idiota!”, gli dissi ridendo e dandogli un leggero schiaffo sul braccio.
“Dimmi…”, mi chiese poggiando poi le sue mani sui miei fianchi. Mi sembrava un’eternità dall’ultima volta che mi avesse toccato. “Cosa volevi dirmi?”
“Mi sei mancato…”, il sorriso che comparve sulle sue labbra significava molto.
“Mi sei mancata anche te”, disse baciandomi lievemente e stringendomi forte in un abbraccio che mi sarei mai aspettata. “Cosa ne pensi se ora andiamo a dormire e domani mattina parleremo di tutto?”
“Penso che sia un’ottima idea!”

Molly
Ed eccoci alla fine di tutto. Finalmente esulterete per la fine di questa FF che ha assillato la pagina hahahahaha. In effetti è stata abbastnaza lunga e non me lo sarei aspettato neanch'io.
Comunque volevo ringraziarvi a voi che avete letto la storia e che siete coraggiosamente arrivati fin qui. E si, sto parlando specialemente di Rack e Lullabies :) Grazie mille ragazze. Mi avete fatto sorridere con le vostre recensioni... Diamine, come sono sdolcinata hahahah. E naturalmente non mi dimentico di unicornsr0mance e Layla!

*Ci sono due versioni di questa frase. Nel mio libro c'è scritto «Una macchina veloce, una costa da raggiungere e una donna alla fine della strada» mentre su internet è possibile trovare la frase che ho citato nel testo. Ho pensato che quest'utilma sia migliore rispetto alla prima elencata.


 




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