Prologo
“Qualcuno come te?”
“Qualcuno che ti piace.”
La porta si era chiusa dietro di
lui, con un suono secco.
E’ strano quello che poche
parole, apparentemente così banali, possono innescare dentro di te.
Inizialmente era stata solo una
lieve vertigine, come quando le emozioni che ti colgono sono troppe e troppo
intense, e confondono la ragione che, mentre cade sconfitta, manda un segnale di
pericolo al corpo.
Era uscita dalla stanza,
simulando una tranquillità che non c’era.
Poi aveva camminato fino al suo
ufficio, picchiando i tacchi sul freddo pavimento un po’ più forte del solito,
sperando che quel ticchettio regolare occupasse i suoi pensieri e le entrasse
nel cervello interrompendo il caos che la invadeva.
Aveva chiuso la porta a chiave, e
non lo faceva quasi mai.
Quando aveva sentito il
rassicurante clic della serratura si era voltata verso il suo ufficio, così
familiare, così suo e aveva fatto un respiro profondo.
Aveva pensato di sedersi alla sua
scrivania e lavorare un po’, ma non riusciva a muoversi.
Forse sarebbe stato meglio
lasciarsi cadere sul divano, chiudere gli occhi e lasciare che la morbida stoffa
le massaggiasse i muscoli, rilassandola.
I suoi piedi continuavano a non
muoversi.
Sentiva il cuore battere troppo
forte e un senso di inquietudine acutizzarsi dentro di lei, facendole quasi
male.
Conosceva abbastanza bene se
stessa da capire quei segnali: c’era qualcosa che doveva fare, un imperativo, un
bisogno.
Non poteva più tacere quella
domanda, avrebbe dovuto fargliela molto tempo prima, non appena aveva iniziato
la ricerca di un donatore per avere una gravidanza.
House era la prima persona a cui
aveva pensato.
Aveva le mani sudate.
Il suo corpo sapeva già cosa
avrebbe fatto, e quanto sarebbe stato difficile.
Per questo le vertigini, per
questo il senso di inquietudine, il cuore impazzito e le mani sudate. I suoi
pensieri, così ostinati nel percorrere sempre la via della razionalità, erano
riusciti solo ora a prender forma, a creare un discorso plausibilmente sensato,
rispetto a una scelta che veniva tutta dal cuore.
Aveva quella domanda sulle
labbra, detta e ridetta a se stessa decine di volte in quella lunghissima
giornata.
Mancava solo che lui la
ascoltasse.
I tacchi battevano decisi sul
pavimento, la testa alta.
Vide se stessa aprire la porta,
avvicinarsi alla sua scrivania.
Lui era lì seduto, lo sguardo
fermo su di lei.
Aspettava.
Toccava a lei ora, fargli quella
domanda.
Chiedergli se voleva essere lui
il donatore per il suo bambino.
Per un istante fu sicura che
quello fosse ciò che House si aspettasse e che dirle “qualcuno che ti piace”,
come aveva fatto poche ore prima, fosse solo il suo modo di dire “si”.
Quella certezza si impadronì di
lei per un singolo istante e poi scomparve, lasciando un buco vuoto e
freddo.
“Grazie per le iniezioni.”
Non era quello che lei si
aspettava di dire.
“Ma ti pare…”
Non era quello che lui si
aspettava di doverle rispondere.
Si voltò per andarsene, turbata
dalle parole che non aveva detto.
“Sei venuta qui solo per dirmi
questo?”
Un’altra possibilità.
Non poteva mentirgli.
“No.”
Ma non poteva neanche dirgli la
verità.
Riuscì a guardarlo un’ultima
volta prima di uscire da quella porta.
Uno sguardo e nient’altro.
Quello era tutto quello che era
riuscita a fare.
Raggiunse il suo ufficio e prese
il cappotto.
“Codarda…” si stupì di sentire la
sua stessa voce, nel silenzio dell’ufficio vuoto.
Scosse la testa, mentre si
allontanava a lunghi passi dall’ospedale.
Aveva solo bisogno di andare a
casa.
Andare a casa e dimenticare
quella storia.
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