Mano
4-72-3648
A chi non ancora si ritrova
a chi non si è perso ma lo farà presto
a chi spara numeri a caso
e a Gino
Era l'inizio dei Novanta, abitavo...beh non è che ci abitassi,
diciamo che mi ci trovavo per caso, lì dentro. Lì dentro
di preciso era una specie di ultimo piano mal riuscito dove la
gente accantonava pezzi di cadavere di una vita che non era più
capace di portarsi dietro: ballerine senza un braccio che continuavano a
girare attorno ad un perno seguendo note strozzate di una qualche ninna
nanna per bambini; buste di gioccatoli, regalo di zii e zie di
quei Natali che si fa presto a dimenticare; c'era persino una scatola
piena di rullini mai scattati, vergini di luce, vergini di storie ma
consumati dal tempo e dalla polvere. E c'ero io, civico 72, attico con
ampia vista sul fiume, ben arieggiato e con riscaldamento a pavimento.
Appena trasferita avevo passato una settimana a bussare ai vicini,
chiedendo che fine volessero far fare ai loro bei ricordi
impacchettati; la maggior parte di loro non ricordava nemmeno di
averli, quei ricordi, allora prendevo e gettavo tutto e, se c'era
qualcosa d'interessante, decidevo di tenerlo come souvenir di viaggi
improbabili. I giorni seguenti erano tutti segnati sull'agenda con
un'enorme "A" appuntata di fianco al numero. A di appuntamento.
Appuntamento con il buco nel soffitto, appuntamento con strani fili
elettrici impiccati alle travi di legno, appuntamento con tutto
ciò che si muoveva o respirava all'infuori di me. Otto giorni
d'inferno immersa nella muffa e in una cipolla di sporco e polvere
incrostata su ogni tipo di superficie.
Era l'inizio dei Novanta ed era anche il mio inizio. Uno di quelli che l'individuo comune si promette ad ogni
capodanno o dopo una qualsiasi botta in testa o al cuore che gli lascia
quel segno tangibile che riconosci a distanza di chilometri: "il mondo
fa schifo perchè io sto male", "ce l' ho presa lì dietro
e per questo siete tutti stronzi". Insomma le solite menate con cui ci
roviniamo barbaricamente un buon terzo dell' esistenza.
Il mio era del secondo tipo, semplicemente perchè mi riusciva di
più essere cinica piuttosto che vittima. E allora ho preso il
mio bagaglio semivuoto e mi sono chiusa la porta "amici di merda" e
"famiglia sbrandellata" alle spalle e sono sparita in mezzo al buio pesto
di una strada senza lampioni, civico 72, quarto piano.
Non mi piace
raccontare dei perché, mi fermerei piuttosto su quei particolari
inutili che in realtà poi hanno fatto la differenza. Come la
cenere sul davanzale alle quattro del mattino, quando rientravo
dal lavoro (barista in un locale che porta il nome del tizio che mi ha
assunta, all'angolo tra il 77 e il 79) e l'unica cosa che volessi fare
era bruciare lentamente ogni singolo istante di questa o quell'altra
giornata, non faceva differenza, erano tutte uguali, come tirate fuori
dal forno del panificio sotto casa. Sfornava di quei dolcetti che ti
facevano venir l'acquolina agli occhi, solo dopo alla bocca, li vedevo
uscir fuori dal forno tondi tondi, circondati dagli stampi in
alluminio, sterili, incolore. Tiravo avida dal filtro intere boccate di
fumo e lentamente lasciavo che mi entrassero dentro, mi bruciassero
gola e polmoni e graffiassero bianche cicatrici lungo ogni parete di
me.
Erano di quei momenti in cui ti ritrovi da solo a pensare e senza la
minima capacità di arrivare ad una qualche conclusione utile. Il
cervello stanco stava dietro ad ogni mio scarto di argomento e i
tentativi inutili di riportarmi indietro finivano nell'esatto istante
in cui svoltavo l'angolo con lo sguardo ed inspiravo un'altra lunga
boccata.
Gli inizi sono così, non sai mai quando...beh quando inizino.
Per un pò sembra che ti aspettino al quarto piano di un palazzo
dalla facciata pulita, subito fuori dall'ascensore pronti a tenderti la
mano e accompagnarti davanti all'ingresso e a quella serratura di cui
non hai ancora le chiavi, poi...non sai come finisci a rincorrerlo, a
cercarlo in ogni scatolone scartato, in ogni angolo di polvere pulito,
nelle sere stanche e nella condensa che si forma attorno alla prima
bottiglia di birra che ti sei pagato con il tuo primo vero stipendio.
Pensi che ci sia qualcosa che non va, io l'ho pensato, ogni sera dal
mio ufficiale trasferimento.
Ho cominciato a guardarmi intorno e a non riconoscere più nulla.
La crepa nello specchio comprato dalla nonnina del primo piano, la puzza
del cesto dell'immondizia, la voce elettronica al telefono, i libri, i
vinili, il vociare ai piani di sotto. Tutta roba nuova con la quale ad
ogni occhiata cercavo di fare l'abitudine, come un cane che annusa
spazi e muri prima di capire che quella è casa sua. Ed è
un pò quello che facevo io, annusavo in giro per casa cercando
tracce di qualcosa che mi facesse capire che avessi realmente
cominciato a muovere dei passi in avanti, cercavo le mie impronte
ovunque andassi e mi rendevo conto di non lasciarne molte.
Ero
stazionaria, ferma come Gino, il pesce che avevo comprato per farmi
compagnia. Se ne stava sempre lì, sul davanzale, fermo ad
aspettare e ad osservare, con quei suoi enormi occhi bianchi, i cocci
del palazzo di fronte. Ogni tanto si ricordava di aver fame e
boccheggiava nella mia direzione picchiando la testa contro la boccia
quando facevo finta di non accorgermi della macchia blu a pochi
centimetri da me. Era un gran pesce Gino, quando schioccavo le dita
saltava fuori dall'acqua e ricadeva in una capriola di ossiggeno e
schizzi d'acqua, ma la sua principale caratteristica è che ci
vedeva. Ci vedeva per davvero quel pesce, dal primo giorno di
convivenza con me, mi aveva girato le spalle e si era messo a guardare.
Gino e la cenere sono stati il primo segno di un reale cambiamento.
Erano i primi del Novanta e me ne stavo appollaiata sul davanzale con
un dito a sfiorare l'acqua nella boccia e con lo sguardo rivolto al
pensiero del momento. Ricordo la cenere che cade e io che seguo il suo
movimento lento in quel limbo di metri che la separava da me e il nulla
e l'ho vista. Una mano affacciata alla finestra di fronte alla mia,
civico 73, quarto piano, tende caffè e una finestra semiaperta.
La mano fumava, alle quattro del mattino, enormi nuvole bianche
impregnavano le tende e macchiavano i vetri di condensa. Avevo un
compagno insonne.
Ora, la verità è che sono sempre stata un pò
squilibrata, di quello squilibrio che ti porta a fare stronzate
impensabili che il più delle volte si concludono con vestiti
sporchi, nottate in bianco e giornate digiune e una lunga fila di portafogli
vuoti. E' che mi piace viaggiare anche se in un modo non molto
convenzionale; un modo statico.
Facevo come Gino, nuotavo dentro la mia boccia di vetro e mi guardavo
intorno, divoravo centimetri di sguardi e piccoli attimi di vita,
disegnavo o scrivevo o a volte parlavo da sola dentro casa, raccontavo
a qualcuno di loro, di come se avessi voluto sarei potuta entrare nella
loro storia e uscirne senza essere notata. Erano viaggi a costo zero e
ne facevo tanti e in continuazione, ci avevo preso gusto e mi aiutavano
a non pensare.
E quella mano.
Quella mano era diventata l'alternativa a tutto il delirio esistenziale
che mi girava in testa; tornavo a casa mi mettevo sul davanzale e, con i
piedi nudi nel vuoto, divoravo ogni centimetro di quelle dita, delle
vene sporgenti, delle nocche rosse di freddo e dell'osso del
polso circondato da un'onda ricurva in nero che s'insinuava nel palmo.
Quando accadono queste cose, queste cose che non ti spieghi, come
renderti conto di una cosa solo dopo settimane che ti succede di
fronte, nasce in te la convinzione che si sia creato una sorta di
legame invisibile. E' dannatamente infantile ma c'è chi vive di
queste cose, c'è chi l'illusione è la principale causa
che fa uscire dal coma sentimentale nel quale ci si sente costretti.
Le quattro del mattino, il quarto piano, i civici in sequenza e la
cenere sul balcone, per me era un boccone fumante di bistecca al sangue
che mi dondolava davanti agli occhi. C'era una serie infinita di
bisogni che sentivo esplodere dentro, il bisogno di sapere chi fosse,
di dare un volto alla mano e dei polmoni a quei respiri oltre il vetro,
avevo bisogno di consumarmi le dita contro la porta di
quell'appartamento e di guardarlo negli occhi ma mi sarei accontentata anche di
un gomito.
Quindi, erano i primi del novanta, Gino guardava impassibile la parete
rossa del 73, le quattro del mattino ed io che i piedi avevo deciso di
infilarli in un paio di scarpe e posarli sui sanpietrini di Via dei
Ramni.
Quando si prendono certe decisioni ci si prepara come se si dovesse
scalare una montagna: hai preso la frutta secca? E il pentolino?
Ricordati i calzettoni pesanti metti che becchiamo una bufera; chiama
tua madre dille che non si deve preoccupare se vede che non torniamo;
saluta Gino e dì ad Andrea che gli vada a portare da mangiare, e
così via. Quando si comincia da un'illusione non ci si aspetta
nulla, avere aspettative sarebbe troppo realistico, ci si risponde
passo dopo passo: primo gradino fatto, se il lampione è spento
io non riesco a leggere sul citofono, ma se è in affitto sul
citofono non c'è il suo nome, ma se il portone è chiuso
io a chi suono? L'unico forse è Adriano che stacca alle tre e
mezza, male che va lo aspetto lì e mi faccio aprire.
E in questa giungla di difficoltà alla fine arrivi. Io ero
riuscita ad arrivare e ricordo di aver fissato a lungo il BabboNatale
appeso alla porta, augurava un buon Natale e un felice anno nuovo il 21 di
aprile. Lui mi ha trovata in quello stato, aveva aperto la porta e mi
aveva guardata per un attimo. Solo un attimo, giusto il tempo di
muovere lo sguardo lungo l'asse mano-gomito-spalla-viso, che è
più una curva se ci pensi, una specie di parabola che si
conclude con un picco vertiginoso che separa simmetricamente gli occhi.
Un paio di occhi normali, in un viso normale forse anche un pò
stanco.
"3648.."
"Permesso"
"..i secondi che ci hai messo ad arrivare. Gianni B., quarto piano,
l'ascensore funziona solo fino al terzo ma questo ormai lo sai."
Si chiamava Lorenzo, viveva in un posacenere e dormiva su un'amaca,
motivo per cui continuava a massaggiarsi il collo con la sigaretta
stretta tra indice e medio. Era un movimento quasi sofferto, parlava
velocemente sfiorando argomenti, senza mai sceglierne uno, e alternava
queste frasi sconnesse e stanche alla contrazione del braccio. La testa
era sempre bassa come a voler bucare il pavimento e poi c'era questa
cosa che mi incasinava il cervello e che si sintetizzava in nemmeno due
centimetri di pelle. Quando chiudeva gli occhi capivi che stava per
cambiare argomento, capivi che se volevi una risposta dovevi domandare
senza perdere tempo altrimenti non avresti più avuto occasione
di tornarci su, così facevo domande assurde. Parlava di musica e
io pensavo chiedigli se suona e dicevo "Re!"; parlava di arte e io
pensavo che artista e dicevo "rasoio". Il mio cervello faceva
associazioni rapide e che tentassero di dire un pò tutto in
massimo tre sillabe, il risultato era che in quella stanza sembrava si
stesse giocando ad uno di quei giochi da tavola in cui devi indovinare
al volo una parola.
Però ci capivamo, nei silenzi
sapevamo trovarci. Era come se ci urlassimo da una parte all'altra di
una montagna, tra gli echi e le frasi affrettate non ci arrivava nulla
di chiaro, ci sovrastavamo e spesso ci si fraintendeva e ci giravamo le
spalle senza mai smettere di parlarci addosso; però poi il
casino finiva e ce ne stavamo lì a fissarci, come due eremiti,
come Gino e i cocci rossi, in silenzio e riconoscevamo l'uno nello
sguardo dell'altro gli stessi pensieri confusi, lo stesso straziante
bisogno di trovare risposte.
Poi è successo che...è
successo che ad un certo punto ha poggiato la mano sul davanzale e ogni
mio pensiero, ogni mia curiosità si è fermata su quei
venti centimetri di articolazione. Ho visto la luce accesa nella mia
stanza, ho visto la boccia del pesce, le mie tende gialle e il
posacenere in bilico sul marmo freddo. E il suo sguardo, oltre le tende
color caffè guardavano la mia testa poggiata sul legno della
finestra, i miei piedi nudi oltre il cornicione e le mie labbra storte
in una smorfia di lecito disappunto. E ho capito.
Amo raccontare delle persone che mi
capita d'incontrare, la gente mi scambia per un'esaltata egocentrica e
spesso lascio che lo credano, l'importante è che sappiano che
c'è in giro un numero incredibile di anime grige che hanno solo
bisogno di esplodere. Se ne stanno lì con una mano fuori dalla
finestra, nascoste al resto del mondo, nascoste a loro stessi. Si ha
sempre questa agghiacciante convinzione che per provare qualcosa
d'indimenticabile, qualcosa che valga la pena di essere raccontato,
fotografato e appuntato sul frigo con annessa calamitasouvenir, ci si
debba completamente estraniare da quella che è la
quotidianità. Ci si mette sù un paio di pinne, un
boccaglio, una maschera e ci s'immerge in una pozza d'acqua che di quel
tipo la si potrebbe trovare anche dentro casa, nella vasca con la
paperella che galleggia in mezzo alla schiuma, probabilmente
riuscirebbe ad essere anche più interessante. Lui non lo potevi
trovare in nessuna agenzia di viaggi, non c'era posto che portasse il
suo nome, non c'erano suoni che reggessero il confronto con i suoi
silenzi, non c'era organizzazione che non riuscisse a sfigurare davanti
al caos dei suoi pensieri e non c'era tranquillità che non
avreste barattato per il suo comunissimo star male con se stessi. Era
così leggibile, stavo lì seduta sul letto che divoravo
capitoli di lui come fossero patatine, volevo sfogliare le pagine nere
e poi strapparle ed ingoiarle o bruciarle o lasciarle al vento. Volevo
che arrivasse a scrivere qualcosa di nuovo, qualcosa che lo portasse a
guardare me e non la comoda immagine di quella ragazza sconosciuta in
bilico sulla finestra, volevo che si scuotesse da quella specie di
stato catatonico in cui era finito e che si rendesse conto di dove il
treno dei suoi pensieri l'avesse fatto finire. Eppure mi piaceva, tutto
quel casino dico, mi piaceva.
Mi è capitato spesso, dopo
quell'episodio, di guardarmi intorno e paragonare un paio di occhi, un
naso, un sorriso, un mugolio al suo, non ritrovando mai qualcosa di
così provato. Giuro che se avessi potuto, quella mattina
lì sul letto lo avrei preso a schiaffi, semplicemente
perchè pareva così saccente a volte, così convinto
che ciò che per lui fosse vero doveva esserlo a prescindere
anche per gli altri. Mi guardava aspettandosi chissà cosa, non
mi sentivo capace di soddisfare le sue aspettative, non mi sentivo
capace di tradurre la sua indifferenza in disagio. Ero una spettatrice
e da spettatrice mi godevo quella visuale ravvicinata di mano e
sigaretta.
Con il tempo, ripensando a quella
notte, mi è capitato di sorridere della mia totale
incapacità di invadere l'intimità delle persone e non
è che non fossi invadente. Sapevo chiedere e lo facevo anche
insistentemente, la mia curiosità infantile non si limitava al
cibo o al colore preferito, se vedevo un callo lo ricollegavo ad una
chitarra, se vedevo un anulare segnato pensavo ad una storia finita, se
vedevo un libro pensavo ad un viaggio; ma non andavo mai oltre, sapevo
di tirare fuori già tanto di sconvolgente, sapevo di aver avuto
già una piccola parte non mi sentivo di chiedere anche il centro
del palcoscenico. Con lui avrei voluto spingermi più in
là, sentivo che potevo e che forse dovevo ma non sapevo come
convincerlo di potersi fidare ed era una cosa che mi divorava lo
stomaco.
Tutto di lui raccontava qualcosa e
non sapevo se avessi fatto centro o meno e non lo chiedevo. Era
tormentato, ricordo che quella parola mi girava continuamente in testa,
tormentato.
Avevo visto sul tavolino un libro di architettura moderna e sul tavolo
c'era un modellino in scala di un teatro in centro, il telefono
squillava spesso e quando rispondeva la sua voce diventava snaturata
come se si sforzasse di apparire entusiasta. Appesi al muro c'erano un
televisore e un paio di console e nella libreria si alternavano vinili,
libri e dischi. Avrei detto che non gli mancava nulla, che non potesse
lamentarsi di una vita che gli dava lavoro, compagnia e svago, ma poi
lo guardavo e mi chiedevo cosa lo portasse a stare in quel modo.
C'è chi lo avrebbe chiamato
ingrato ingiustamente, perchè nonostante tutto lui non si
lamentava, se ne stava zitto e lasciava che gli altri pensassero quello
che volessero, aveva già un milione di voci che gli giravano per
la testa, aggiungere anche quella di chi tentava di curare le sue
ipotetiche lacune non lo avrebbe aiutato. Invidiavo il suo mondo, la
sua capacità di star solo con se stesso, di muovere passi certi
in terra sconosciuta, invidiavo anche la sua timidezza, nonostante gli
impedisse di essere completamente sincero con gli altri. Gli mancava
sempre quel poco che avrebbe fatto innamorare chiunque del suo sorriso.
Era così anonimo che non potevi non notarlo, comunemente
imperfetto, normalmente complessato, lo cercavi nella stanza per
tenerlo sotto controllo, ti passava accanto per confermare che ci fosse
ma non ti parlava, non ti salutava, al massimo faceva un cenno e capivi
che ti aveva vista e considerata.
Mi aveva offerto biscotti al
cioccolato e latte caldo, avevo accettato e lentamente il sonno
arrivava per entrambi; cominciavamo a rallentare, i toni si calmavano e
il sorriso ebete dell'incoscienza ci si allargava in faccia. Stavamo
bene nonostante fossimo così diversi in tutto e andava bene
così, almeno per quella notte o per quelle successive, ci
bastava farci compagnia per sentirci meno soli, meno insoddisfatti.
Avere qualcuno con cui condividere la parte più sporca di te ti
fa sentire quasi giustificato a sentirti comodo in quell'artefatto di
vita che ti sei costruito e che non sei capace di accettare pienamente.
Avere cenere sul davanzale ti fa sentire che qualche traccia l'hai
lasciata, anche se piccola, anche se al primo alito di vento vola
insieme a foglie, peli di gatto e puzzo di asfalto.
Millenovantacinque mattine, tre
anni, poco sonno e troppi biscotti al cioccolato, non ho mai cambiato
idea su di lui, perchè non credo di averla mai avuta una
particolare idea di lui; troppo incostante, troppo imprevedibile,
troppo interessante per ingabbiarlo in quattro parole messe in fila.
Lui è la storia che non ho mai raccontato ed è forse
l'unica che vorrei che il mondo conoscesse.
La storia di un pesce che
fissa una mano che fuma da dietro le tende caffè di un quarto
piano qualsiasi al 73 di Via dei Ramni.
Ed erano i primi dei Novanta.
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