Autumn

di Lilyth
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L’aria autunnale stava iniziando a diffondersi quasi ovunque.
Amavo l’aria autunnale, la sensazione di lieve tepore che poteva sprigionare il semplice contatto tra una felpa e la pelle fresca; il vento incalzante tra i capelli; il lento ma inevitabilmente evidente cambio di colore delle foglie.
Decisamente, amavo l’autunno.
Non potevo definirlo un amore passionale, di quelli che ti travolge e ti fa impazzire, che ti trascina via, che ti da vita ma allo stesso tempo ti distrugge;
il mio era più un amore platonico, forte ma non abbastanza da dare alla testa, un amore ideale, alto e decisamente idilliaco.
Mi aggiravo per la città senza nulla da fare, in un deciso stato di calma apparente; intorno a me tutto si trasformava, dai colori all’abbigliamento delle persone, dal cielo alla strada stessa che andavo percorrendo.
Ogni anno, nell’incalzare dell’autunno sentivo che qualcosa andava decisamente cambiando.
Le persone si coprivano, si allontanavano, si chiudevano nei loro abiti come bruchi nei loro bozzoli per proteggersi nel lungo periodo di mutamento invernale; nell’aria iniziava a primeggiare l’odore della nostalgia, leggero ma penetrante, quell’odore che ti spinge a ricercare amore ma anche lo stesso che ti spinge verso ogni tipo di tentazione culinaria dolce.
Non potevo negarlo, anche a me faceva esattamente quell’effetto; all’inizio non sapevo se quel buchino nello stomaco che tendeva a diventare una voragine volesse indicare la mancanza di un qualsiasi tipo di affetto o semplicemente la voglia irrefrenabile di abbuffarmi di dolci, ma a poco a poco iniziò a piacermi e si rivelò per quel che era veramente, una pura e semplice ricerca di calore, di una coccola personale.
L’idea dell’eventuale mancanza dell’amore mi aveva solleticato per un po’ la mente, insinuandosi nei miei pensieri quando meno me lo aspettavo, dandomi il tormento e spingendomi a piagnucolare in giro come una malata immaginaria; era passata quasi subito.
Per quanto molte persone non riuscissero a credere alle mie parole, io da sola stavo più che bene, avrei potuto dire benissimo.
Io e me, me ed io. Un binomio perfetto e indissolubile, una di quelle cose che non puoi distruggere neanche se lo vuoi, e andava bene così.
 
Mi aggiravo per la città osservando i volti emaciati, a volte affranti, dei passanti e mi chiedevo cosa li spingesse ad affrontare così male quel periodo dell’anno.
Avevano provato a spiegarmelo in molti,
è come quando ti manca qualcosa, ma non sai cosa, eppure ti manca; ti manca tanto da star male, da voler piangere, urlare, singhiozzare a pieni polmoni stretta tra il piumino e il cuscino; hai voglia di rimanere rannicchiata nel letto, con le ginocchia al petto in un tepore innaturale che ti lascia stordita e poco cosciente di ciò che provi.
Sì, avevo decisamente presente quella sensazione, passava anche a me davanti agli occhi come una vecchia amica, mi salutava per qualche ora e poi mi lasciava sorridente, così com’era venuta.
Non capivo quindi perché molte persone, compresi molti miei amici e amiche, non riuscissero anche loro a salutare il loro fardello e a rimanere soli una buona volta nella vita.
< tu sei tutta matta >
l’accusa arrivò da dietro i vapori di un cappuccino fumante, l’aria era impregnata da un forte odore di cannella che stava riuscendo a stordirmi ma allo stesso tempo soddisfarmi
< dici? >
Al rumore di un cucchiaino si accompagnò una risatina compiaciuta
< dico, non sei normale, non sei ventenne normale >
lasciai che i miei occhi viaggiassero insieme alle foglie di the verde nella tazza, sapevo di non essere normale, ma sinceramente non credevo fosse quello il motivo della mia anormalità.
 




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