«Non lo fare, non scrivere
questa storia» mi implorasti.
Perché parlo al passato
remoto? Sto solo parlando di
stamattina.
Comunque i deliri al femminile sono,
rimangono, spaventosi e
mi fanno paura. Mi mettono un’angoscia da appuntamento al
buio e prima interrogazione
dell’anno, della materia in cui sono negata.
Mettono ansia anche a te, quindi mi
lasciasti perdere.
Probabilmente non pensavi che avrei trovato questi cinque minuti, che
poi a
casa mia sarebbero dieci, venti, trenta. Fino a mezzanotte, poi a letto
perché
devo andare a scuola e mi devo alzare presto.
Sottointesi e doppi sensi, sai che la
mia mente è deviata,
la conosci meglio di me, ma non sai che in questo momento sto mentendo;
comunque continuasti a fare quelle battutine senza accorgertene.
«Guarda che così
mi fai venire solo più idee per questa
storia, probabilmente il rating non arriverà al rosso,
massimo al giallo, ma
probabilmente al verde» ammisi annuendo, ti guardai, guardai
anche Lorenzo e
lui annuì poco convinto.
«Ale, vado a fumare, mi
accompagna Fede» mi rispondesti, non in
risposta ed uscisti dalla porta sul retro; a scuola non si
poteva fumare, ma
l’area per trasgredire era aperta da prima del decreto.
«Quei due stanno andando a
limonare» commentò Lorenzo,
rimasto con me. Lui odiava il fumo, io odiavo essere il terzo incomodo.
Ridacchiai e guardai verso il bar,
solo per guardare
qualcuno parlare, senza sentire.
Passarono troppi minuti per una
sigaretta.
«Stanno
limonando» ammisi strizzando l’occhio e sfilandomi
la felpa calda, era inverno, con i riscaldamenti al massimo.
Avevo caldo e le mani ghiacciate; ero
di buon umore ed
odiavo il mondo. Ero un personaggio dinamico e completamente in
antitesi.
Fede era bellissimo e mi ero
innamorata tipo colpo di
fulmine in due secondi, ti chiesi di lui e tu sviasti
all’istante “No, guarda,
è un coglione” poi più nulla, dissi
qualcosa come “Okay” e stetti zitta per
qualche secondo.
Comunque ti tartassai per bene nei
successivi due anni.
“Non ti attrae?
E’ davvero bello. E’ gay? Vi mettete
insieme? Mi piace un sacco”.
«Guarda, ha la
ragazza» mi dicesti, questo più indietro,
eravamo sull’autobus.
«Almeno, così ho
capito, nulla di ufficiale, so solo che si
sono fatti» guardasti lontano.
«Chi è
questa?» mi rabbuiai subito.
«Sta sera
piangerò» aggiunsi chiudendo il discorso.
Sapevo che non mi avrebbe mai nemmeno
guardato, la
consapevolezza faceva male allo stomaco e mi faceva venire gli attacchi
di
nausea senza motivo, la mattina, con una sigaretta stretta tra le
labbra ed i
polmoni stanchi e morenti.
Stavo imparando a scrivere e la mia
parola preferita era eterea,
perché avrei voluto mi
descrivesse almeno in parte. Ero forse una delle persone più
concrete sulla
terra, ma solo io la pensavo così.
La scuola era troppo vicina ed il
pullman non mi lasciava
abbastanza tempo per fantasticare, lasciavo sempre le storie della mia
immaginazione a metà perché erano troppo
inverosimili anche per lei.
Ad un certo punto arrivavo a scuola,
la monotonia era
troppa.
«E’
divertente» sentii.
Ero in anticipo e mi ero fermata un
istante nell’angolo-drogati
al limitare del
marciapiede che incorniciava l’edificio scolastico.
«Cosa?» ti
riconobbi subito e mi venne d’istinto di
raggiungerti, ma rimasi ferma immobile, pietrificata.
«Che lei lo sappia
così chiaramente» ridacchiò
quell’altra
voce a me sconosciuta.
«Metti qualche
soggetto» sbuffasti.
«Lei, la tua amica con i
capelli rossi, che sa di noi» il
mio respiro si fece ancora più leggero, inudibile.
«Ah. Non lo pensa davvero,
mi prende in giro» bisbigliasti.
«Secondo me è
seria. Perché non glielo dici?» chiese; sentii
scattare un accendino e vidi del fumo poco denso venire dalla mia parte.
«Tanto prima o poi lo
scopre, non dovevi sorridere in quel
modo l’altro giorno» ti lagnasti come un bambino di
cinque anni.
«Sorridere? Cosa? Ma stai
male?» si incupì un po’ irritato.
«Ho urlato, ti sei girato e
mi hai guardato tipo “La cosa
più bella di oggi è stata sentire la tua
voce”» facesti anche la vocina da
donna, pronunciando quella frase e mi venne da ridere, mi trattenni.
«Che coglione, non essere
sdolcinato, mi fai sentire una
checca» un rumore di un pugno leggero e dell’altro
fumo.
Fui tentata di chiedere una
sigaretta, ne avevo così bisogno
che pensai di urlarlo, la mia mente già lo gridava da
qualche minuto.
Mi affacciai appena, il muro aveva
una specie di scanalatura
enorme, sagomata apposta per me, potevo vedere tutto. E lui era sempre
bellissimo, con quell’aria un po’ assorta ed i
capelli scompigliati e quel
cazzo di sorriso che non riuscivo mai ad immaginare; tu eri raggiante e
non
sapevo se piangere o sbraitare qualche insulto sull’ipocrisia.
«Checca? Sei proprio un
nabbo» una risata ed un bacio
leggero, a fior di labbra.
Allora pensai di scappare; trattenni
il respiro e corsi via.
«Perché hai
quella faccia?» una domanda a vuoto, non ti
avrei risposto nemmeno per tutto l’oro del mondo;
perché ero nel mio mondo e
perché erano solo le otto di mattina.
Scossi il capo e lessi la prima frase
della poesia, la
letteratura era adorabile.
«Comunque dopo ti devo
parlare» annuii piano e la mia testa
catalogò tutte le storie immaginarie per cestinarle
completamente, incluso lo
schema preciso del punto in cui arrivavano gli angoli della sua bocca
quando
sorrideva.
Era sempre stato così ed
era giusto ed era bellissimo: ciò
che io non riuscivo ad avere dovevi averlo tu; perché mi
piacevi tantissimo,
come persona e non avere nulla mi faceva sentire eterea davvero.
E non sentire nulla mi faceva
avvertire tutto davvero.
«Scusa se non te
l’ho detto prima, non volevo farti del
male».
Un abbraccio ed un sorriso.
Andava tutto bene, sarebbe andato
tutto bene.
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