Notturno, op. 9 n. 2 – Frédéric Chopin. di Sorella_Erba (/viewuser.php?uid=18628)
Disclaimer: questo testo è proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
N/A.
Tengo a ringraziare immensamente le giudici del concorso e tutti i
partecipanti. Complimenti vivissimi alla vincitrice!
Notturno,
op. 9 n. 2 – Frédéric Chopin.
Remus
Lupin posò sul
bracciolo della poltrona il libro che stava sfogliando, per avvicinarsi
alla
finestra.
Il
paesaggio che scorgeva al
di fuori dei grandi vetri quadrettati era plumbeo e soffocante, come se
un
temporale stesse per abbattersi sul territorio di Hogwarts. La
brughiera pareva
silenziosa e deserta, vista dall’alto del castello. Nel cielo
bigio di nuvole
non volava nemmeno un barbagianni.
Era
strana Hogwarts, in
momenti come quello. C’era pace e serenità. La
maggior parte degli studenti era
svanita dai corridoi e dalle aule della scuola per trascorrere il
finesettimana
al villaggio di Hogsmeade; il resto della scolaresca, quasi per certo,
si
trovava frammentato nelle quattro sale comuni.
Remus
si morse le labbra e
poi sorrise, vagando con gli occhi sui prati verdi di Hogwarts.
Quand’era stato
lui uno studente, aveva adorato trascorrere parte dei momenti liberi in
biblioteca, a sfogliare i migliaia di tomi traboccanti di magia e
meraviglie,
anche a costo di perdere il divertimento girovagando per il sobborgo.
Osservò
il vetro della
finestra, appannato dal suo respiro, con occhi che parevano perforarlo;
quello,
rifletteva opaco i tratti del suo volto.
Da
quando Remus ne aveva
memoria, l’aspetto spossato e debole era stato una delle sue
caratteristiche basilari.
Solo che, in quegli ultimi anni, la stanchezza spiccava notevolmente
nella sua
figura slanciata. I capelli erano ingrigiti prematuramente e le prime
rughe sottili
cominciavano a segnare gli angoli degli occhi lividi e la fronte.
Ogni
più piccolo particolare
sembrava volergli ricordare quanto dura fosse stata la vita in seguito
al
diploma.
Remus
acuì gli occhi e
guardò con più attenzione il suo riflesso. Le sue
dita sfiorarono i solchi
della cicatrice che aveva sulla guancia destra, vicina allo zigomo.
Sì.
La vita era stata tanto
dura e spietata.
Strinse
le labbra e si
ritrovò a scrutare il ritaglio di giornale accantonato sullo
scrittoio. Gettò
uno sguardo rapido alla
fotografia stropicciata che occupava metà di ciò
che era rimasto della prima
pagina. La scritta al di sotto dell’immagine recitava a
cubitali lettere
“Sirius Black”. Distolse lo sguardo in breve tempo,
con un groppo che gli
mozzava il respiro in gola.
Non
sembrava più lui, assolutamente. Azkaban l’aveva
ridotto
ad una caricatura di quello che era stato.
Remus
deglutì, rimirando nuovamente il cielo cinereo, due
dita di entrambe le mani incrociate dietro alla schiena.
L’amara
consolazione era il pensare di non essere l’unico
a vivere una vita tanto sporca ed immonda da sembrare addirittura
irreale.
Automaticamente,
Remus si avviò verso un angolo della
stanza, il più appartato. Lì, vi aveva sistemato
un tavolino con tre corte
gambe, e sopra di esso si puntellava un grammofono
dall’aspetto antico e
fragile. Un disco occupava già il piatto rotante
dell’apparecchio. Bastò che
Remus appoggiasse la puntina di lettura sul disco nero che un motivo
armonioso invase
la camera. Ad un tratto, insieme alla melodia, dalla tromba del vecchio
giradischi uscì una densa nebbia azzurrognola, la quale, ad
ogni nota suonata,
si combinava per realizzare la miniatura della facciata di una
gigantesca
costruzione. Lo stile e la proporzione erano simili al Teatro Nazionale
Finlandese, ad Helsinki.
Il
brano intanto scorreva, limpido e cristallino.
Un
Notturno di Chopin non era affatto adatto ad una
giornata nuvolosa come quella, né tanto meno per momenti
trascorsi a
crogiolarsi nella vana illusione di poter catturare un pizzico di
felicità dai
ricordi.
Hogwarts
era un luogo di
gioie e rimpianti.
Non
avrebbe più commesso
l’errore di sperare, stavolta. L’ottimismo aveva
soppresso ciò che di più caro aveva
avuto.
Immaginò
anonime dita scorrere sciolte e leggere come
vento sulla tastiera di un pianoforte; antichi echi di passi cadenzati
si
facevano largo nella sua mente.
Eppure…
Remus chiuse gli
occhi, accomodandosi su di una delle due logore poltrone
dell’ufficio, e si abbandonò
alle memorie.
Quelle,
almeno, nessuno
sarebbe riuscito a portargliele via.
L’eleganza con cui
si muoveva… i passi coordinati e il busto eretto. Le braccia
erano aperte a
cingere l’aria. Danzava un valzer improvvisato sul momento.
Era allegro, con le
belle labbra aperte in un sorriso e gli occhi chiusi: si beava
dell’armoniosa
sonata.
I piedi scattavano,
eleganti… prima a destra, poi a sinistra, e ancora a
destra… Non era affatto maldestro.
Ogni mossa era chiara e limpida nella sua perfezione; e se magari
avesse
sbagliato, non l’avrebbe dato a vedere.
Una luce soffusa
illuminava il dormitorio. Alcuni sprazzi d’oro di quel
chiarore giocavano con
le pieghe della sua camicia bianca, a volte donando colore alle ombre,
altre
invece nascondendo il candore dell’indumento in una morsa
scura.
I capelli sembravano
fili di seta nera… Su di essi baluginava un barbaglio di
luce.
Un
piccolo bollitore si sosteneva al bastone in ferro del
camino acceso, immobile tra le vampe vermiglie ed ardenti.
Le
fiamme oscillavano allegramente; sembrava che la loro
danza seguisse il motivo trasmesso dal giradischi.
Era
ad esse che Remus sorrideva, triste.
Ripensare
a lui,
ai suoi lineamenti e alla sua vivacità, era di una
semplicità disarmante quando
ascoltava quel Notturno.
Era così
bello…
Chissà se, col
toccarlo, la magia della sonata si sarebbe frantumata, come uno
specchio in
migliaia di schegge lucenti ed affilate.
Quel giovane,
dopotutto, era il ritratto delle sue paure.
«Balli?».
Gliel’aveva
domandato con ancora il sorriso sulla bocca, continuando a volteggiare.
Accennò
il suo diniego con un semplice movimento del capo… Si
credeva fin troppo goffo
ed inesperto per potersi unire alle danze.
La sua bocca
di rosa si storse in un broncio alquanto buffo.
«Dai,
Moony!», insistette imperterrito, troncando il valzer in un
sonoro colpo di
tacco.
Lo sapeva,
Remus, che quando lui desiderava qualcosa, era impossibile negargliela.
Scosse
la testa e si morse il labbro inferiore… Non si era nemmeno
accorto di star
ridendo, felice.
Lui lo
guardava incerto: aveva un sopracciglio alzato e le labbra dischiuse.
Sembrava
non comprendere il motivo della sua risata.
«Non so
ballare», spiegò Moony scrollando le spalle.
Il viso
dell’altro s’illuminò di comprensione.
Si avvicinò repentino fino a trovarsi a
pochi centimetri di distacco dal compagno.
«E per
questo non vuoi farlo?». Il ghigno ritornò
rapidamente lì, dove aveva il
diritto di stare. Le sue labbra esprimevano vivacità ed
entusiasmo.
«Ma
Padfoot…».
Padfoot…
Il
vecchio grammofono riprodusse inaspettatamente un
singolare fischio, in seguito ad un sussulto, e ripeté in
fretta le ultime note
suonate dal pianoforte.
Davanti alla costruzione di
fumo azzurro, una coppia di danzatori cominciò a prillare
con eccellenza.
Lo
ricordava ancora, lui, il suo curioso soprannome?
«Te ne
prego, Moony».
Pigiò un
indice sulle sue labbra, delicato, prendendolo alla sprovvista. Le
guance di
Moony iniziarono a tingersi di rosso.
«Non ho
voglia di discutere, non con questo sottofondo. Non lo senti? Non ti fa
venir
voglia di alzarti, camminare, e piroettare, e danzare?».
E
pensava mai a Moony?
Quel
Moony
che, sussurrato dalle sue labbra, assumeva tutta un’altra
sfumatura?
Improvvisamente,
Remus percepì un distinto ticchettio
provenire dalla porta.
Si
risvegliò, riaprendo gli occhi e ritornando al
presente. Non gli fu concesso nemmeno il tempo per schiarirsi la gola
che il
leggero ticchettio divenne un colpo più deciso.
«Avanti»,
esclamò, tentando di sovrastare la
composizione per pianoforte.
La
porta si aprì il poco che bastava affinché
la sagoma scura di Severus Piton potesse entrare. Con il sobrio
mantello nero
che gli avvolgeva le spalle e che sfiorava il pavimento, stringeva fra
le mani
un calice dalla cui sommità sgorgava denso fumo bianco.
«Ah,
buongiorno, Severus».
Remus
rivolse un sorriso cortese in direzione
del professore di Pozioni, il quale tuttavia non ostentò
neanche un gesto di
saluto.
«Ti
ho portato della pozione, Lupin», articolò
freddamente Severus, sollevando di poco il calice. «Prendila
prima che diventi
fredda; l’efficacia potrebbe ridursi».
Remus
lanciò una veloce occhiata al camino,
dove il bollitore stava fumando.
«Grazie
infinitamente, Severus. Mi dispiace
darti certe noie, ma ricorderai che non sono mai stato un eccelso
pozionista». Il
sorriso sulle labbra di Remus si allargò, quando
posò nuovamente gli occhi
nocciola sul viso di Piton. «Potresti lasciarla sulla
scrivania, per favore? La
prenderò dopo il tè. Ti va una tazza?
È tè Pu-erh».
«Grazie,
ma non ho mai amato il tè rosso»,
declinò secco.
Come
gli fu chiesto, Severus attraversò la stanza in pochi
passi e posò il calice sul ripiano in legno dello scrittoio.
Le lunghe dita
bianche urtarono per svista il quotidiano lasciato in disparte, che
cadde a
terra con un leggero tonfo. Severus si chinò per prenderlo.
Quando le sue mani
strinsero la pagina ingiallita, adocchiò la fotografia che
immortalava Sirius
Black. Ne incrociò lo sguardo cupo, e una ruga si
formò fra le scure
sopracciglia.
«Evaso»,
sussurrò.
Remus
alzò gli occhi sulla sagoma tenebrosa di
Severus e capì a cosa si stesse riferendo. La sua
espressione mutò in un
baleno. Non mostrava più riconoscenza né
benevolenza; semplicemente, era ferma
e dura. Vigile.
«Lo
so», mormorò con enfasi. «Leggo
anch’io i
giornali».
«Allora
saprai anche che è stato avvistato nei
pressi del castello».
Remus
distolse lo sguardo, incrociando le dita
davanti al viso, i gomiti premuti contro i bracci della poltrona.
Sapeva
dove Piton volesse arrivare… oh, se lo
sapeva…
Si
morse un labbro. Le sue orecchie
avvertirono il debole fischio del bollitore:
dall’estremità ne veniva fuori un
impalpabile vapore senza colore.
«È
per questo che a Potter non è stato
accordato il permesso di visitare il villaggio».
Sentì lo sbuffo di Severus.
Gli riecheggiò nella mente come un rullo di tamburo,
insistente. «Silente non
desidera che gli succeda qualcosa. Ma quel ragazzo è
così scellerato e incapace
di riconoscere il pericolo… Non mi stupirei se uscisse dal
castello di nascosto».
Severus
puntò gli occhi sui lineamenti tesi
del collega, ancora seduto.
«È
identico a James, non trovi?».
Fu
quel nome a far scattare Remus. Sollevò il
capo meccanicamente, e Piton poté incrociare un piglio che
di amichevole aveva
ben poco.
«Dove
vuoi andare a parare, Severus?».
«Oh,
lo sai già, Lupin».
Si
aspettava di trovare un sorriso maligno a stravolgere
il volto pallido di Severus; invece, Remus notò che non
c’era un minimo accenno
di ghigno.
Severus
era teso e guardingo. Serio come non
mai.
All’improvviso,
la risata bassa e fine di
Remus riecheggiò nella stanza, entrando in uno strano
contrasto con il notturno
di Chopin.
«Tu
sospetti di me».
«Non
dovrei, forse?», enunciò Severus,
aggrottando maggiormente la fronte. «Dopotutto, tu e Black
siete sempre stati
ottimi amici».
Remus
chiuse gli occhi; le palpebre tremavano
impercettibilmente sulle iridi lucenti.
Amici…
«Chiudi
gli occhi».
E li
chiuse, in un sol battito di ciglia.
Quelle
braccia che prima avevano cinto l’aria, adesso si stringevano
attorno ai suoi
fianchi e lo conducevano. Sentiva le labbra ridenti sussurrargli ad un
orecchio
le direzioni, intimandogli con dolcezza di procedere, adagio e sinuoso.
«Eravamo
amici, Severus. Lo eravamo, tanto
tempo fa».
Severus
guardò l’uomo accomodato sulla
poltrona poco distante da lui; nelle iridi nere brillò un
bagliore di esitazione
quando lo vide deglutire e, in un certo senso, farsi forza solo
socchiudendo
gli occhi. In breve tempo, l’aria arcigna che le fattezze di
Remus avevano
assunto, si dissolse come vapore acqueo.
Il
professore sospirò profondamente e si
rilassò, intrecciando le gambe.
«Chopin»,
disse indicando il giradischi
dall’altra parte della camera. Le figure azzurre danzanti
ondeggiavano nei suoi
occhi.
Severus
rimase immobile, statico nella sua
posa. Soltanto la mano che teneva ancora il ritaglio di giornale si
mosse,
stritolando la carta in una morsa sdegnata e tremante.
«Tu
vivi in un mondo fatto di ricordi e
nostalgia».
La
bocca di Remus si schiuse e il suo sguardo
si fissò in quello di Severus.
Sorrise,
ancora. Come al suo solito.
«È
tutto ciò che mi è rimasto, Severus. Tu al
mio posto cosa faresti?».
Fu
un istante di incoscienza.
Piton
si avvicinò alla poltrona, due dita tese
ad accarezzare il vuoto. Non sfiorò mai la guancia di Remus,
né lambì la
cicatrice che gli deturpava il viso. La mano rimase incerta a
mezz’aria per
qualche secondo, prima di posarsi sulla spalla.
«Forse
farei lo stesso».
E
i suoi occhi… i suoi occhi bui rivelavano un
segreto che le labbra erano incapaci di confidare; parole che potevano
sabotare
la delicata tregua che si era venuta a creare.
Lo vide
stringere gli occhi e serrare le labbra per trattenere un gemito di
dolore.
«Scusami,
Padfoot, non volevo farti male! Per Merlino, te l’avevo detto
che sono
impacciato».
«Non
è
nulla, veramente».
Ma Moony
insisteva, insisteva ancora, in preda all’imbarazzo.
«È
meglio che lasciamo perdere, avanti».
«Remus».
Per
la prima volta in quella conversazione,
Piton pronunciò il suo nome.
«Per favore,
non aggiungere altro»,
mormorò Remus atono, distogliendo lo sguardo.
«Lui non
merita il tuo…».
La voce di Severus si era abbassata tanto da diventare un sussurro
incomprensibile. Le sue labbra sottili continuarono a muoversi, lente,
ma la
sua gola era priva di fiato. Non seppe più continuare.
Sentì all’improvviso il
calore della mano di Remus sulla propria, e fissò i suoi
occhi avellana bassi.
«Lui non
merita nulla da te».
Lo
disse con tono inespressivo, senza enfasi alcuna; eppure, Lupin
riuscì a
cogliere una nota amareggiata e dura nella sua voce.
Severus
si staccò dalla presa di Remus,
speditamente, quasi temesse di scottarsi.
In un
fruscio del mantello nero, gli voltò le spalle e
percorse l’ufficio in poche falcate decise. Remus lo vide
tentennare davanti
alla porta, la mano serrata alla maniglia laccata. Infine, Severus
aprì il
battente ed uscì.
A quelle
parole, si sentì stringere le braccia con delicatezza.
«Lasciar
perdere? Mi hai solo pestato un piede, sciocco».
Il suo
viso era a pochi centimetri. Notò che anche lui aveva le
gote arrossate e gli
occhi lucenti.
In
lontananza, il rombo soffocato di un tuono risuonò
nell’aria.
Il
grammofono sparse per la stanza le ultime note del
notturno di Chopin.
Quando
l’ultimo, flebile suono morì fra le quattro mura
di
pietra, assieme ad esso scomparve il paesaggio di una Helsinki
più fredda e
spenta che mai. Il vapore azzurrastro sfumò come
d’incanto e non lasciò nessuna
scia della sua precedente presenza.
Il
grigiore di quella giornata aveva inghiottito ogni
cosa.
Poi, in
un volteggio leggero come l’aria, provò il calore
della sua bocca sulla
propria.
Abbozzò
un sorriso, in quel bacio tenue.
~~~
Prompt di weeping_ice:
Dalle 3 alle 5 cose che vorresti
la fanfiction contenesse: Remus Lupin/Severus Piton,
Tè Pu erh, notturno di Chopin, Helsinki.
Dalle 3 alle 5 cose che non
vorresti la fanfiction contenesse: morte di un personaggio
principale, OOC, scene sdolcinate, Harry/Draco.
Rating: R o minore
La fanfiction che vuoi ricevere
può o non può contenere riferimenti e spoiler a
Harry Potter e i Doni della Morte? Preferirei di no.
|
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=220810 |