TITOLO STORIA Dieci Passi ed apri gli occhi. Sei un Demone
GENERE Fantasy, Generale
PERSONAGGI PRINCIPALI Kakashi –
Madara - Obito - Iruka
RATING Giallo
CREATURA UTILIZZATA Demoni
PACCHETTI PERSONAGGIO Gatto(al cui interno c’era Kakashi)
– Scoiattolo (al cui interno c’era Madara)
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♥~ Dieci Passi ed apri gli
occhi. Sei un Demone ~♥
♥ ♦ ♣
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Se in quella data
ti ritrovi tra quelle
macerie ed ascolti con attenzione tra il silenzio della sera, mentre il
sole cala a nascondersi nuovamente dietro ai monti e le strade vengono
percorse, solo dal vento; puoi sentire quella cadenzata voce che ti
racconta il suo percorso in dieci semplici passi, scanditi dal ritmico
incontro d’una palla che rimbalza sul suolo.
Uno. Esprimi un
desiderio davanti al rosso del tramonto.
Due. Osservando la
luna dal tempio.
Tre. Quando
l’alba diventa uno splendido cielo.
Quattro.
Consolando un bambino che piange nella notte.
Cinque. Per quanto
ancora dovrò seguirti?
Sei. Una famiglia
che non torna.
Sette. Un odio
tenuto segreto.
Otto. Prima che
arrivi il demone della montagna.
Nove. Salendo sul
monte d’Hokage.
Dieci. Sono
diventato un demone bambino.
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Rosso.
Il
rosso del tramonto.
Il
tramonto reso ancor più sanguigno dalle lingue di fuoco che
divoravano alcune abitazioni... e dal sangue dei morti.
Morti
che vedo bruciare, corpi che si contorcono per il calore e per il
dolore mentre vengono inghiottiti dalle fiamme.
Fiamme
che non si limitano a rilasciare nell’aria solo grandi
quantità di fumo nero, ma anche l’odore di carne
bruciata e di qualcos’altro…
Un
odore intenso, quasi nauseante sotto certi punti, che però
non assomiglia a nulla che io abbia mai sentito… e se annuso
con attenzione m’accorgo che in realtà sono tanti
odori, abbastanza simili, ma allo stesso tempo completamente differenti
l’uno dall’altro.
Questi
odori strani sembrano provenire dagli abitanti di questo paesello di
montagna.
Abitanti
che mi stanno cominciando a screditare per colpa di mio
padre… per sospetto di mio padre… per azioni
attribuite a mio padre.
E
le azioni, le colpe, le responsabilità di mio padre cadono
improvvisamente sulle mie spalle.
Le
spalle di un bambino di sei anni che però è
figlio di quello che una volta era considerato un
‘grande’ e da questo momento solo un vigliacco
traditore assassino…
Dimostrerò
che non sono mio padre. Che sono meglio di lui e di tutti loro.
Così da riabilitarmi, per tutto ciò che mi
riversano addossano ingiustamente, anche agli occhi degli
altri… agli occhi di tutta quella feccia.
In
fondo io non ho fatto nulla se non essere suo figlio, perché
devo essere giudicato da loro solo per questo?
Sposto
lo sguardo verso la boscaglia. L’immagine della schiena di
mio padre che m’abbandona ancora ben impressa nelle mie
cornee.
Ed
eccolo lì, un piccolo movimento dietro un cespuglio attira
la mia attenzione. Per la prima volta incontro un paio
d’occhi color ossidiana ed improvvisamente mi pare di vederci
uno guizzo scarlatto… devo essermelo immaginato.
Mi
massaggio velocemente gli occhi con le dita per tirar via la stanchezza
e rialzo lo sguardo. Nulla. Non ci sono più quegli occhi che
nessun altro a parte me ha notato, troppo presi dal tentare inutilmente
di sedare gli incendi.
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Apro
repentinamente gli occhi, fortunatamente il sole non si è
ancora alzato, altrimenti mi si sarebbero feriti. Guardo fuori dalla
finestra, il cielo si sta rischiarando, non deve mancare poi molto
all’alba.
Il mio respiro
è lievemente accelerato ed un leggero velo di sudore mi
copre la fronte ed il petto. Mi porto un braccio a coprirmi gli occhi
mentre prendo un respiro profondo. Odio ricordare persino nel sonno, ma
gli unici sogni che mi è concesso fare sono
ricordi… i ricordi dei passi che mi portarono ad essere
ciò che sono.
Scosto lievemente
il braccio e con l’occhio che lascio solitamente scoperto
osservo la figura accanto a me.
Dorme su un
fianco. Osservo come i suoi capelli castani, solitamente tenuti legati
in una coda alta, ricadono disordinatamente sul cuscino bianco. La
carnagione bronzea, da sembrare caramello, ben esposta al mio sguardo,
facendomi tornare la voglia d’assaggiarlo per verificare
quanto sia effettivamente dolce, ma la parte inferiore mi viene ancora
nascosta dalle coperte.
Mi metto a sedere
sul letto prima di portare una mano ad accarezzargli impacciata il
volto. Tento di essere delicato, ma non so mai se ci riesco, non sono
abituato a certi gesti, le mie mani ormai sono state troppo educate a
far male piuttosto che accarezzare. Sembra che il mio gesto non si sia
rivelato rude visto che non si sveglia. Avverto le mie labbra stirarsi
in un leggero sorriso, mentre faccio scorrere il pollice su una
porzione di cicatrice che gli attraversa orizzontalmente il bel naso,la
cui punta sale leggermente verso l’alto. Per poi sfiorare il
labbro inferiore che durante la notte gli ho mordicchiato ed assaporato
mentre gemeva sotto di me.
Prendo un respiro
profondo prima di lasciarlo ed alzarmi dal letto. Devo uscire
velocemente, quel profumo dolce e stuzzicante è troppo
allettante per me in questo momento. Mi dirigo verso il bagno per una
doccia, mentre mi passo una mano tra i capelli grigio-argentati.
Trattengo il fiato
rivolgendo il volto al getto della doccia, evitando così che
il liquido mi entri nelle vie respiratorie.
Gli occhi chiusi
mi ripropongono l’immagine delle fiamme.
Mi sottraggo
lentamente dal contatto diretto, riprendendo così a
respirare normalmente. Lasciando che l’acqua lambisca il capo
e la schiena così da permettergli di riscaldarmi il corpo
che avverto ora freddo. Sul viso le scie d’acqua scendono
velocemente e socchiudendo gli occhi vedo le gocce imbrigliate nelle
ciglia.
Mi sento pigro e
stanco stamattina, forse è per questo che rimango molto
più a lungo del solito a godermi il picchiettio che
l’acqua calda mi provoca sulla schiena. È
rilassante, credo proprio che mi serva.
Ormai è
arrivato il momento dell’anno in cui i fantasmi del passato
cominciano a farmi visita, o forse sarebbe meglio chiamarli demoni?
Ed eccoli che quei
due occhi d’ossidiana tornano pressanti a fissarmi dal mio
passato.
Chiudo
l’acqua infastidito ed esco. Osservo il mio riflesso sullo
specchio appannato che mi sta giusto davanti. Mi viene da sfiorare la
cicatrice che mi attraversa verticalmente la palpebra sinistra, anche
se sinceramente non so se l’impulso riguarda quella che vedo
riflessa o quella su me stesso.
Accarezzo la
superficie fredda per togliere la condensa e rivelo perfettamente il
mio volto. Il Rosso mi fissa ed ora è la voglia di tirargli
un pugno, distruggendo lo specchio, che fatico a tenere a bada.
Mi sposto il
minimo indispensabile e poggio la testa contro le piastrelle, prima di
lasciarmi scivolare a terra.
Rimango
lì, gli occhi chiusi pieni di troppe immagini, ma non so per
quanto tempo, so solo che a me sembra un’eternità.
E sollevo lentamente, con estrema pigrizia le palpebre, mentre le mie
labbra lasciano uscire il sussurro con la giusta cadenza:
“Uno.
Esprimi un desiderio davanti al rosso del tramonto.”
Mi do dello
stupido per la debolezza appena dimostrata, ma tanto in quel bagno non
la poteva vedere nessuno, no? E con un pesante sospiro mi rialzo da
terra, di nuovo di fronte allo specchio.
L’occhio
sinistro ben chiuso, mentre il destro dava l’espressione
stanca. Sembro uno che aveva visto troppi scempi ed aveva patito troppi
dolori nella vita, ed effettivamente era vero.
Chiudo anche il
destro per riprendermi dal mio attimo di debolezza manifestata e quando
lo riapro gli do il mio tipico taglio un po’ apatico e
disinteressato.
I capelli
grigio-argentei mi ricadono in ciuffi ribelli a coprirmi un
po’ entrambi gli occhi. Dopo avergli dato
un’asciugata approssimativa mi sistemo la frangia in modo che
mi copra l’occhio sinistro, mentre il resto li ravvivo
passandoci una mano attraverso, dandogli una leggera
direzionalità verso l’alto, così da
lasciargli un aspetto sbarazzino.
Infilai solo i
pantaloni, oltre all’intimo, prima d’uscire dal
bagno. Dalla cucina proveniva un rumore di acqua, accompagnata dal
tintinnio di porcellana. Quando m’appoggiai allo stipite
della porta, a braccia conserte, l’occupante
sembrò rispondere al mio silenzioso richiamo voltandosi a
guardarmi con le sue iridi color cioccolato al latte.
Sembrò
sobbalzare appena incontrò il mio unico occhio scoperto,
prima di rigirarsi nuovamente a continuare a risciacquare le stoviglie
bofonchiando.
“Maledizione
a te Kakashi. Uno di questi giorni mi farai venire un infarto se
continui a muoverti così silenziosamente. Insomma potresti
fare un pochino di rumore mentre ti muovi! Nemmeno i gatti sono
così silenziosi, te ne rendi conto?! Stupido
idiota.”
Un sorrisino
divertito mi stirò le labbra mentre m’avvicinavo
sempre in silenzio; non che facessi apposta, solo che era diventata da
più di un paio di decadi una mia abitudine estraniarmi da
questo mondo ipocrita divenendo un’ombra ed un soffio del
vento.
Gli cingo la vita
dal retro e gli bisbiglio nell’orecchio “Non volevo
spaventarti, ma non vedo ragione di cominciare a brontolare contro di
me già di mattina presto, altrimenti cosa farai contro quei
poveri studenti? Cosa c’è Iruka, ti sei svegliato
male stamattina? O forse volevi solo le coccole a letto come il gattino
che sembravi?”
Vedo chiaramente
la sua faccia diventare sempre più rossa ad ogni mia
domanda, orecchie comprese, e dopo avergli inflitto il colpo di grazia
dandogli una leccata al lobo sinistro m’allontano velocemente
verso il tavolo, evitando così lo schizzo d’acqua
che sapevo avrebbe tentato di lanciarmi mentre si voltava velocemente
con la rabbia dell’imbarazzo ed urlando il mio nome.
Ridacchio
divertito per qualche secondo mentre si esegue tutto seguendo il mio
pronostico ed appoggiandomi al tavolo sorrido; un sorriso che secondo
molti è malandrino e sensuale, ma per me è il
solo sorrisetto che so fare. Chiudo anche l’occhio visibile e
curvandolo in una piega che potrebbe sembrare dovuta alla
felicità, ma mi hanno detto che questo mio gesto sembra
quasi avere anche un effetto ‘rasserenante’ e dire
‘abbi fiducia in me’ senza che
l’osservatore possa negarmela, anche se una cosa del genere a
me pare una gigantesca idiozia.
Sento lo sguardo
d’Iruka posarsi sul mio petto ancora nudo su cui un paio di
goccioline d’acqua continuano il loro percorso una volta
liberatesi dai capelli sulla nuca che erano rimasti quasi completamente
bagnati. Un forte profumo dolce ed ammaliante mi arriva alle narici e
lo inspiro prima di riaprire lo sguardo, non abbandonando il sorrisetto
divertito.
Mi aveva accusato
più volte di essere troppo provocante in certi miei
atteggiamenti, sebbene non me ne rendessi nemmeno conto,
perché per me erano naturali; quindi supposi che
l’aggiunta d’essere uscito dal bagno non totalmente
asciutto e coi capelli più liberi del solito non
l’aiutasse a non catalogarmi come ‘pericolosissima
bestia sexy’.
La
lussuria… un così buon profumo quanto pericoloso.
Non potei evitare di pensarlo mentre mi sedevo per sorseggiare la tazza
di caffè tiepido poggiata sul tavolo. Lo vidi voltarsi
nuovamente verso il lavello, il viso ancora paonazzo.
Inutile, mi
diverto troppo a provocarlo.
“Iruka”
intervenni fingendo una voce lievemente piagnucolosa, ricevendo
un’occhiataccia che significava chiaramente ‘che
diamine vuoi adesso?’, le sue guance erano ancora un
po’ imporporate, ma continuai la mia provocazione.
“Sei cattivo, non mi hai nemmeno aspettato per la colazione:
il caffè è tiepido”
Ricevetti
un’occhiataccia prima che abbandonasse definitivamente il
lavello, avendo giusto terminato i risciacqui. “Ah, adesso
è colpa mia se sei capace di arrivare sempre in ritardo
anche per la colazione?! Se ti aspettassi ogni volta farei sempre tardi
anch’io! Ma che cavolo di gusto c’è ad
essere sempre ed immancabilmente in ritardo? E poi si può
sapere che cavolo sei stato in bagno a fare tutto questo tempo? Per
quel che ne sapevo potevi aver tirato lo sciacquone ed essere sparito
nello scarico! Sentiamo un po’ che scusa mi tiri fuori
ora?!”
Abbandonai la
tazza vuota sul tavolo e mi voltai verso di lui che mi sovrastava,
essendo in piedi accanto a me, col suo atteggiamento da
‘ramanzina della mamma’.
Gli sorrisi
innocente prima di spiegargli con tono tranquillo, come se lo stessi
informando che oggi le previsioni del tempo davano pioggia per il
pomeriggio.
“Non
è colpa mia se ho fatto tardi, è stata colpa di
uno gnomo che mi ha trattenuto per avere delle indicazioni. Poveretto
si era perso. Non potevo non aiutarlo, ti pare?” Conclusi
tranquillamente ottenendo un sopracciglio alzato ed uno scettico:
“Uno
gnomo?... e da dove sarebbe comparso questo gnomo se si può
chiedere?” Per vedere dove sarei andato a finire.
“È
uscito dallo scarico del water, sai aveva preso il condotto sbagliato
due incroci prima il poveretto” aggiunsi fingendo anche qui
un perfetto tono dispiaciuto per il destino di questo presunto gnomo.
“Kakashi,
tu mi credi seriamente così stupido od ingenuo da bermi
questa storia? Persino i bambini dell’asilo sanno che gli
gnomi non esistono, quindi la prossima volta inventati una scusa
migliore, o almeno un po’ più credibile!”
“No, no
Iruka, mi vergogno per te. Come puoi dire queste cose? È
ovvio che gli gnomi esistano, ne ho appena incontrato uno in bagno dopo
tutto.” Continuai tranquillo e perseverante, tanto che
partì una discussione assurda sull’esistenza o
meno degli gnomi.
Dibattito che
terminò quando l’insegnante vedendo
l’orologio non si bloccò urlandomi poi contro che
era in allarmante ritardo ed era tutta colpa mia.
L’osservai
ridacchiando mentre agguantava giacca e borsa di fretta, prima
d’uscire il più velocemente possibile di casa,
maledicendo me e le mie stupide scuse sugli gnomi inesistenti. Senza
però dimenticarsi di gettarmi una voce, anche se era
più corretto dire urlo, per ricordarmi che dovevo muovermi
perché ero anch’io in ritardo come mio solito.
A differenza sua
me la presi con la dovuta calma. Prima d’uscire mi misi
subito la mascherina che era come quelle solitamente utilizzate dai
medici mentre operavano o da coloro che avevano il raffreddore per
andare in giro senza contagiare nessuno.
Presi
distrattamente anche entrambi i tipi di benda per coprirmi
l’occhio: sia quella da ‘pirata’, che non
si sarebbe notata una volta messa nascosta dai capelli; sia quella di
stoffa nera, che era in pratica una bandana tenuta leggermente
inclinata così da coprire l’occhio sinistro.
Le osservai
indeciso, prima di lasciare a casa quella da
‘pirata’, sebbene questa mi evitasse la scocciatura
d’essere notata dalla gente provocando domande, trovavo la
‘bandana’ molto più comoda, in
più m’evitava che qualche ciocca mi cadesse
accidentalmente sul destro.
Mentre
m’avviavo verso l’agenzia mi ritrovai a pensare che
questa era stata la tredicesima notte che Iruka dormiva a casa mia,
ormai aveva imparato a preparare sempre i suoi appunti per coprire due
giorni di lezioni, ed avere una borsa con un cambio sempre in macchina,
visto che non avrebbe avuto il tempo per passare da casa.
La prima volta che
Iruka aveva dormito da lui, il giorno successivo si era dovuto dare
malato. Il giovane insegnante aveva supposto che alzandosi ad una certa
ora avrebbe fatto in tempo a passare da casa per sistemare tutti i suoi
appunti, cambiarsi, ecc. Tuttavia la mattina successiva si era
svegliato tardi, ritrovandosi già ad essere in enorme
ritardo e se avesse dovuto fare quello che aveva programmato non
sarebbe arrivato a scuola se non a mezzogiorno circa senza gli appunti
per le lezioni di un paio di classi. Inutile dire che aveva continuato
ad accusarlo sul fatto che non avesse sveglie o che fosse solo colpa
sua se non era potuto andare al lavoro quel fatidico giorno, questo per
quasi due settimane ogni volta che si vedevano, anche per caso, o quel
paio di volte che s’erano sentiti al telefono.
Ripensò
al sogno… probabilmente, tra dieci settimane, avrebbe
abbandonato anche la città di Konoha com’era
solito fare ogni anno. Cambiava città il giorno dopo di
quell’anniversario. Un po’ gli dispiaceva, Iruka
era un bravo ragazzo, ma in fondo questo era solo un motivo in
più per andarsene: meritava qualcuno migliore, lui non
poteva dargli nulla.
Gli si
formò sulle labbra un sorrisino amaro. Il giovane maestro,
nonostante lo conoscesse da circa otto mesi, non sapeva praticamente
nulla di lui. Ad esempio che la settimana a venire conteneva il giorno
del suo compleanno, ma nemmeno Iruka lo sapeva. Ingiustamente, a
differenza sua, lui sapeva quasi tutto sull’insegnante. Non
che il castano non gli avesse fatto domande, ma aveva ottenuto solo che
queste gli fossero abilmente deviate o lasciate senza risposta.
Ma per essere
onesto, in realtà, nessuno sapeva nulla, se non poche
idiozie, su di lui.
Parcheggiò
la macchina e sbuffò osservando l’edificio. Era
già arrivato al complesso dell’agenzia
‘Terra del fuoco’ che s’occupava di
protezione e recupero, ovviamente di persone che potevano permettersela
come i politici ecc.
Lui era
considerato il migliore, specializzato in recuperi, ma la cosa non gli
importava, lui cercava solo di riportare indietro vivi tutti gli uomini
che gli venivano affidati e che venivano assieme a lui. Non gli
sembrava di fare poi chissà cosa di speciale.
Quando
entrò come un’ombra nella sala, dove si stavano
svolgendo gli allenamenti, vi fece passare uno sguardo annoiato.
Era un peccato che
non tutti però la pensassero come lui. Inutile dire che non
ne aveva promosso nessuno quando il capo dell’azienda,
Tsunade Senju, per un breve periodo gli aveva dato il compito
d’esaminatore per i nuovi candidati da assumere o quelli da
promuovere: tutti volevano solo guadagnare, provare emozioni forti e
fare carriera. Non gli interessava nulla della vita dei compagni che li
avrebbero accompagnati a salvare l’obiettivo, no, per loro
era una gara. E questo non poteva accettarlo, in missione era in gioco
la vita di tutti; e tutti dovevano cercare di proteggesi a vicenda.
Evitando così di far saltare l’operazione o di
farsi uccidere in questa, visto che lui non poteva assicurare di
riuscire a proteggerli se gli fossero stati affidati.
Sospirando per i
brutti pensieri, s’appoggiò al muro dedicandosi a
qualcosa di molto più piacevole: la (ri)lettura del seguito
del suo libro preferito ‘il paradiso della
pomiciata’(meglio conosciuto come ‘icha icha
paradise’), cioè ‘la violenza della
pomiciata’; tra una settimana o due sarebbe dovuto andare in
libreria a comprare ‘le tattiche della pomiciata’
che sarebbe presto uscito e lui non vedeva l’ora.
Adesso che ci
pensava avrebbe potuto passare il prossimo anno nella città
di Uzu e cercarsi un lavoro in una libreria, così avrebbe
potuto tranquillamente leggere senza scocciatori. L’anno
successivo sarebbe si sarebbe trasferito a Suna e quello ancora dopo
magari Mizu, ma per quanto riguardava il successivo prossimo lavoro,
che sarebbe quello per Suna tra due anni, ci avrebbe ovviamente pensato
alla fine del prossimo anno, intanto si era già tolto il
pensiero per l’anno a venire.
Inclinò
il capo a sinistra. Pochi istanti dopo una lama si conficcò
nel muro, dove poco prima c’era all’incirca il suo
orecchio destro.
Continuò
a leggere tranquillo, anche quando il suo nome divenne un urlo che
rimbombò per tutta la palestra. Degnò
l’urlatore di uno sguardo annoiato solamente quando questo
gli fu a cinque centimetri dalla faccia, prima di sorridere falsamente
felice salutandolo con un semplice “È da un
po’ che non ci vedevamo Gai”. Ovviamente lo
stiramento cortese di labbra era coperto dalla mascherina,
così da compensare questa mancata visione diretta
coll’occhio visibile chiuso e piegato nella falsa nota
felice-cortese e si rimise a leggere.
L’uomo
dall’oscena tutina verde e dai capelli a taglio scodella
continuò ad urlare come un ossesso riguardo anche il fatto
che fosse arrivato a più di metà allenamento
iniziato e che al posto di mettersi al lavoro o scusarsi si era messo
lì a leggere uno dei suoi stupidi libri. Arrivò
anche a chiedergli il motivo del continuo uso della mascherina, o della
sciarpa durane i mesi invernali, a coprirgli perennemente
metà volto.
Solo a questo si
degno di rispondere ‘sorridendogli’ con tono
gioviale: “in questo modo il mio naso è protetto
dalla puzza del tuo fiato”, per poi tornare, come se nulla
fosse successo, al suo amato libro.
Continuò
ad ignorare i suoi sbraiti, sino a che questi non sfociarono nella sua
solita richiesta d’una sfida che rifiutò per una
decina di volte, sino a che Gai non gli disse che toccava a lui
scegliere la sfida, inventandosi poi una delle suo solite
penalità in caso di sconfitta.
Sospirò
pesantemente prima di mettere via il libro, se non l’avesse
accontentato non avrebbe più avuto un attimo di tregua.
“In tal
caso la sfida sarà una partita di
sasso-carta-forbici.”
Inutile provare a
descrivere la disapprovazione che questa sua scelta provocò,
facendogli aggiungere così spiegazioni su quanto fosse
invece valida come sfida.
Possibile che Gai
non si fosse mai accorto che a lui non gliene fregasse nulla e che
voleva finirle il prima possibile?
Vinsi la prima
utilizzando la carta ed informai il mio
‘avversario’ che avrei giocato forbici per la
seconda mano, e così feci vincendo la carta di Gai. Due su
tre, avevo vinto senza dover disputare l’ultima partita.
Ritirai fuori il mio libro mentre il mio avversario se ne andava a
svolgere la penale che s’era auto inflitto.
Nel frattempo una
donna dalle forme corpose ed un uomo con le labbra tese in un
sorrisino, ma che continuavano a tenere la sigaretta tra di esse, mi si
avvicinarono guardando ‘la tutina verde’
allontanarsi.
Salutai sia
Kurenai che Asuma, che una volta terminati i convenevoli, si
complimentarono con me per la missione svolta un paio i giorni prima,
in cui il sequestratore si era rivelato un discendente d’un
demone d’acqua. Per fortuna si era rivelato un demone non
ancora risvegliato, altrimenti avrei perso un buon numero dei compagni
che erano con me.
Era raro che un
demone s’intromettesse nelle faccende umane, solitamente
preferivano mantenersi nei loro clan, stando per conto loro e passando
come ombre tra la vita umana. Le poche volte che un Demone
però s’intrometteva, o c’era una
disputa, il paese o la città che faceva da scenario veniva
immancabilmente distrutta.
-Case inghiottite
da gigantesche aperture nel terreno e quelle che si salvavano dai
crepacci rimanevano comunque macerie.
-Abitazioni che,
inabissate, avrebbero continuato a riposare sui fondali di laghi nati
quando queste erano state inghiottite dall’acqua.
-Uragani che
sradicavano e tagliavano tutto portandoselo via e disperdendolo in
un’amplia area.
-Incendi che
divoravano e carbonizzavano tutto ciò che toccavano,
colorandolo prima di rosso e poi di un perenne nero.
All’incirca
erano questi i danni più ricorrenti che si potevano
riscontrare se vi era l’intervento d’un demone.
E
l’immagine del rosso delle fiamme, del tramonto, del sangue e
di quegli occhi scarlatti si susseguirono nella sua mente in veloci
fotogrammi. Allentò lentamente il pugno nascosto, che non
s’era reso conto d’aver stretto sino a conficcarsi
le unghie nella carne, tentando di rilassarsi e calmarsi.
Pazienza... Doveva
pazientare ancora, prima che potesse avere la sua vendetta. Il
problema, forse, era che non sapeva per quanto ancora avrebbe dovuto
ancora attendere.
♠♥~~~~♥♠~~~~♥~~~~♠♥~~~~♥♠
Passò
una settimana dal giorno in cui i ricordi erano tornati a tormentargli
le notti puntuali come ogni anno.
Era il pomeriggio
del 15 settembre... il giorno in cui tre decadi prima era venuto al
mondo e spesso gli era capitato di pensare che probabilmente sarebbe
stato meglio se questo non fosse mai accaduto.
Entrando in casa
l’odore dell’anima d’Iruka gli
arrivò chiaramente, sebbene la mascherina servisse proprio a
fare da filtro.
“Iruka
esci dalla camera da letto” disse tranquillo mentre si
metteva le ciabatte per poi dirigersi in cucina.
Passarono pochi
instanti prima che il castano lo raggiungesse col broncio, chiedendo a
gran voce di sapere come avesse fatto, visto che oggi lui non ci
sarebbe dovuto essere ed era stato attento a non lasciare alcun indizio.
Tutto
ciò che ottenne fu un sorriso malizioso ed enigmatico dietro
alla mascherina che l’insegnante si era premurato
immediatamente di togliergli. Prima di voltargli le spalle ed andare a
mettere l’acqua per il tea sul fornello.
Iruka alle sue
spalle lasciò stare il discorso, sapendo bene che era
inutile insistere. Giocherellando con la mascherina di Kakashi che
teneva tra le mani, l’informò che aveva ritirato
lui la posta e che vi era una busta strana.
Una volta ottenuta
la sua attenzione gliela consegnò.
“Non
c’è il mittente, non c’è
timbro postale né altro e per il destinatario
c’è scritto Kakashi Hatake… ma il tuo
cognome non è mica Hatakie? Magari si è
dimenticato una lettera, ma comunque mi pare
strana…”
No, era il cognome
sulla busta ad essere coretto, ma non poteva certo dirlo da Iruka. Ogni
anno, assieme alla città, modificava il suo cognome e la
maggior parte delle volte erano piccolezze come l’aggiungere,
togliere o sostituire una lettera, ma comunque cercava sempre di
mantenere simile il suono così da rispondervi istintivamente
anche se distratto. Anche per questo non era rimasto praticamente
più nessuno che sapeva quale fosse correttamente il suo nome
completo.
Prese con cura la
lettera e se la rigirò più volte tra le mani
guardingo. Rilasciava debolmente un odore di… cenere, eppure
quello era l’ombra dell’odore del mittente.
L’aprì
estraendo un biglietto già pagato per la visita
d’un tempio ed un foglio dove campeggiavano elegantemente le
parole: Buon Compleanno.
Non sapeva
perché ma in quelle due parole riusciva a leggervi solo un
tono sarcastico. Era insensato, potevano essere anche parole sincere,
poiché non aveva ancora capito nemmeno chi glielo avesse
mandato, ma anche quando la leggeva la sua mente la elaborava con tono
sarcastico.
L’esclamazione
d’Iruka lo strappò dai suoi inconcludenti
pensieri. Teneva in mano in biglietto.
“Kakashi!
È davvero il tuo compleanno?!” mi grattai
leggermente la tempia, mentre chiudevo l’occhio per non
guardarlo e sorridevo leggermente imbarazzato sussurrando un debole
‘effettivamente’ che speravo non avrebbe sentito;
ero stato colto in flagrante, perché sapevo che Iruka non me
l’avrebbe fatta passare liscia per non avergli detto nulla e
non avevo voglia di sentire una delle sue prediche assieme ad una
dimostrazione di quanto poderosa potesse essere la sua voce e quanto
potenti i suoi polmoni.
Ma ovviamente la
sua speranza di poter svincolare al proprio pronostico venne
completamente distrutta dall’aggiunta d’un paio
d’ottave al normale tono dell’insegnante. Nemmeno
il tea lo fece desistere ed ormai lui si limitava a rispondere con dei
semplicissimi ‘mh’ e cenni affermativi col capo
durante le giuste pause che questi faceva non ascoltando realmente
nemmeno una parola che usciva da quelle labbra.
Rimase
però stranito quando il professore
s’alzò dal tavolo sorridente e, dopo aver posato
nel lavabo le loro tazze, lo strascinò prima alla porta,
rimettendogli la mascherina che gli aveva sottratto ormai
un’ora e mezza prima, e poi in macchina.
Lasciò
passare il tempo cercando di capire che cosa passasse per la mente del
castano, ma in special modo quale fosse la destinazione. Quando si
decise a domandarlo ricevette uno sguardo obliquo ed un “Non
mi stavi ascoltando eh Kakashi? Comunque non importa, visto che hai
già acconsentito, non puoi tirarti indietro. E
poiché il biglietto è già pagato e la
visita è stasera, non vedevo motivo per cui rifiutare e
magari là incontrerai chi ti ha mandato il biglietto. Quindi
ti sto portando alle macerie del Villaggio della Foglia.”
L’occhio
visibile mi si dilatò per lo stupore, mentre ripetevo
incredulo il nome del villaggio. Non poteva essere.
Provai a chiedere
ad Iruka di tornare a Konoha. Arrivai a promettergli che gli avrei
fatto passare la più bella nottata che avrebbe ricordato
sino alla morte e l’avrei fatto urlare di piacere sino a che
gli sarebbe andata via la voce, ma per fare ciò dovevamo
tornare a casa mia. Peccato che fu tutto inutile, ero riuscito a fargli
raggiungere una tinta rosso acceso, ma non a persuaderlo.
Ok, voleva punirmi
per non avergli detto nulla, peccato che il mio problema non era il
trovarsi costretto a ‘socializzare’ con quegli
idioti che avevano aderito a quella stupida iniziativa, né
il dover sprecare il mio tempo a visitare rovine ed un tempio che non
m’interessava, come invece aveva supposto il castano. No, il
mio problema era proprio la destinazione, ma ovviamente non potevo
dirglielo… non era ancora il giorno per visitare il mio
villaggio natale, ma non potevo nemmeno rivelare che ero stato
l’unico superstite del Villaggio della Foglia arso da un
demone vent’anni prima.
Sospirai
pesantemente, ormai rassegnato al destino che il castano aveva deciso
per me, così voltai il capo verso il finestrino. La mano
destra lentamente, al posto di sostenermi il volto, la portai ad
accarezzarmi il lato sinistro del viso, sino a scivolare sotto la
benda, a percorrere la cicatrice sull’occhio fattami il
giorno in cui dal Villaggio della Foglia la vita venne totalmente
estirpata da due occhi cremisi come le fiamme che divoravano avidamente
tutto.
Quegli idioti
scelsero per giunta il tramonto per visitare il villaggio,
così da renderlo più
‘suggestivo’ a parer loro… inutile dire
quanto li maledissi interiormente, sebbene dall’esterno sarei
apparso il solito calmo, pacato ed apatico.
Mi domandai
distrattamente se questi ‘sveglioni’ erano
effettivamente a conoscenza che il tempio era a cinque/dieci minuti di
cammino dal villeggio ed il sentiero era in mezzo al bosco.
Nemmeno a dirlo la
notte precedette l’entrata nel bosco. Per Lui non era un
problema, in fondo si ricordava ancora alla perfezione tutto, persino
ogni radice che spuntava dal terreno, da tutte le volte che
l’aveva percorso anche al buio, ma questo non si poteva certo
dire per gli altri che ebbero grande difficoltà.
Ed infine eccolo
lì, il piccolo ed antico tempietto che era mantenuto solo
come ricordo e da vent’anni a questa parte come
commemorazione a tutti i suoi abitanti uccisi.
Quando le due
guide li invitarono a seguirli che la visita era finita, si
limitò cortesemente ad informarli che sarebbe rimasto ancora
un po’ e che la strada se la ricordava chiaramente,
così da non preoccuparsi di lui e visto che la visita era
finita erano sollevati anche da ogni responsabilità.
I due parvero un
po’ dubbiosi, ma l’accontentarono lasciandolo da
solo. Si sedette sul quarto ed ultimo gradinetto in pietra del
tempietto spegnendo la torcia. L’altarino ancora
all’interno di una piccola radura e se alzavi il viso potevi
vedere tranquillamente uno scorcio abbastanza amplio di cielo assieme
alla luna, senza che le fronde degli alberi s’intromettessero.
E rimase
lì, ad osservare la luna come aveva fatto quasi tutti i
giorni da quando aveva sei anni per quattro interi anni.
“Due.
Osservando la luna dal tempio.”
Il sussurro gli
sfuggì ancora una volta dalle labbra con la giusta cadenza.
Solo il vento lo sentì, portandoselo via velocemente in un
soffio per custodirlo gelosamente, quasi temesse che qualcun altro
potesse portarglielo via per ascoltarlo. Ma questo a lui non importava
granché al momento, troppo perso nei propri dolorosi
ricordi.
Da
quando il padre aveva abbandonato il villaggio, ogni sera lui andava
lì per sfuggire agli occhi della gente; ed osservava la
luna. Quel silenzio, quell’atmosfera riuscivano sempre a
rilassarlo, anche quando d’inverno il freddo gli rubava
rapidamente calore sperando che se ne andasse a rifugiarsi prima in un
caldo posto sicuro.
Lì
non si sentiva il nauseante tanfo delle anime dei paesani,
perché sì, da quel giorno dell’incendio
aveva presto capito che quello che sentiva erano anime, ma ovviamente
non aveva detto nulla a nessuno.
Ed,
ironia della sorte, gli era bastato qualche mese, un anno massimo per i
più scettici, per rivalutarsi agli occhi del villaggio. Ora
era considerato un genio, un prodigio da quella feccia…
aveva occupato il posto ‘d’onore’ che
anni prima aveva occupato il padre e quell’odore
d’ipocrisia, d’ammirazione, d’invidia,
che lo circondava praticamente tutto il giorno, lo nauseava.
Forse
era anche per questo che andava e rimaneva al tempio il più
possibile. Quasi come per riuscire a ‘purificarsi’,
a togliersi di dosso quel fetore che gli gettavano addosso.
Coglieva
sempre più spesso quelle due iridi nere come la pece
osservarlo di nascosto dalla boscaglia, ma passò molto tempo
prima che il loro proprietario avesse il coraggio di mostrarsi, o forse
era meglio dire l’incidente che lo portò a
scoprirsi.
Non
gli aveva mai dato effettivamente fastidio anche prima di venire allo
scoperto, in fondo non disturbava il suo ‘processo di
purificazione’.
La
sua anima non era come quella degli abitanti del villaggio. Aveva un
odore diverso. Lui odorava più di selvatico e di muschio,
contornato dall’odore delle sue sensazioni, ma non erano
fetidi come quelli che aveva sentito sino a quel momento. Era un odore
leggermente dolciastro, che pareva essere curiosità, ma allo
stesso tempo era come… acre… come se fosse
dispiaciuto per lui e provasse tristezza.
Si riscosse grazie
al gracchiare d’un corvo appollaiato sui rami alti
d’un paio di alberi più distanti. Si
massaggiò leggermente il collo irrigiditosi per la posizione
mantenuta decisamente per un tempo eccessivo considerando che
era l’alba.
Scosse leggermente
la testa il segno di diniego, incredulo di quanto potessero assorbirlo
i propri ricordi ed attese.
Attese di veder
sorgere il sole completamente e che il cielo prese la sua consueta
colorazione interamente azzurra.
Era giorno.
“Tre.
Quando l’alba diventa uno splendido cielo.”
Sussurrò
ancora come aveva fatto sia per il secondo qualche ora prima, sia per
il primo la settimana precedente.
La sera col
tramonto, la notte con la luna come sola compagna, l’alba per
indicare che sei sopravvissuto un altro giorno, e la fase diurna ad
indicare la tua resistenza e se si considera anche il quarto passaggio
si ritorna alla notte ed il quinto suggerisce il continuo ripetersi.
Il passare del
tempo, dei giorni, che aumentavano a loro volta… ecco cosa
indicavano i primi tre passaggi, coinvolgendo in parte anche il quarto
e quinto per sostenerli, ma quest’ultimi narravano
già l’inizio del secondo atto oltre
all’attesa.
Alzandosi dalla
pietra che l’aveva sostenuto sino a quel momento,
s’avviò verso le macerie del Villaggio della
Foglia. Sarebbe poi sceso ancora un po’ verso valle, e
seguendo un certo sentiero ci avrebbe impiegato una decina di minuti,
così da poter prendere il treno e tornare finalmente al suo
appartamento a Konoha.
Gli stava venendo
un po’ di sonno.
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Da
quell’alba del 16 settembre trascorse all’incirca
un mese e gli sbalzi autunnali torturavano la gente, costringendola
sempre ad un maggiore freddo.
Tutto era
nell’ordinario quel primo pomeriggio, se non per una figura
dalla capigliatura grigio-argentea, con metà volto celato da
una lunga sciarpa grigio chiaro-azzurro ghiaccio, che si trovava
stranamente davanti ad una scuola elementare.
Lui detestava i
bambini, una cosa che negli anni non era cambiata, ma era venuto per
avvertire l’insegnante di quei mocciosi che non ci sarebbe
stato per un paio di giorni per una missione e che doveva partire circa
tra un paio d’ore.
A giudicare dalla
folla di marmocchi doveva essere capitato giusto durante
l’intervallo. Entrò dal cancello e fece vagare lo
sguardo sull’area per individuare la sua
‘preda’, anche se l’odore della sua anima
l’aveva già indirizzato verso la zona nord-est.
Mostrando il suo solito atteggiamento apatico proseguì
ignorando tutti i diversi sguardi che riceveva dall’intera
scolaresca.
Lo
trovò in un angolo appartato dietro all’edificio a
tentare di consolare una bambina che cercando di trattenere le lacrime
non otteneva altro che singhiozzi e le mani che ormai non riuscivano
più a togliere l’acqua salata che non voleva
cessare si scendere, probabilmente era stata presa in giro dai suoi
compagni o altro. I bambini sapevano essere più crudeli
degli adulti perché non si rendevano davvero conto di quando
e quanto effettivamente ferivano.
Ma quelle lacrime
mi ricordarono lui. Io mostravo sempre un’unica espressione
in pratica, ma lui… aveva sempre un sorriso sulla faccia,
oppure piangeva come un mocciosetto oppure s’infervorava e
cominciava ad urlare e gesticolare come un forsennato, ma mostrava una
gamma impressionante d’espressioni.
Vederli
lì così mi ricordò noi due, ma a
differenza di quello che stava facendo Iruka, io non sapevo come
consolare. Ed un sussurro uscì flebile dalle mie labbra
mentre i ricordi mi trascinavano indietro.
“Quattro.
Consolando un bambino che piange nella notte.”
Il
rumore di un ramo che si rompeva e cadeva a terra, assieme ad un guaito
attirò la mia attenzione verso gli alberi davanti a me alla
mia sinistra. Mi alzai dai gradini in pietra del tempietto e mi diressi
con silenziosa attenzione a scoprire ciò che era successo.
Scostai
un paio di cespugli prima di vedere a terra un ragazzino, che ad occhio
doveva avere circa la mia età, massaggiarsi il sedere in una
posa ridicola. Con un paio di lacrimucce ai margini degli occhi chiusi
e sulla fronte una di quelle ‘maschere’ che
utilizzavano i sub per proteggersi gli occhi in acqua.
Alzai
un sopracciglio a quella vista e rimasi a fissarlo indifferente. Quando
il ragazzo dalla sbarazzina capigliatura nera aprì un occhio
sobbalzò vedendomi, balzando poi subito in piedi.
Eccole
lì quelle due ossidiane che continuavano a fissarlo.
Lasciò
i cespugli e se ne tornò sui gradini in pietra ad osservare
la luna ignorando gli “Ehi!”,
“Tu”,
“Aspetta”
che l’altro ragazzo continuava a ripetere cercando di
richiamare la sua attenzione.
Gli
dedicò a malapena un’occhiata quando questo gli si
piazzò di fronte stizzito per la mancata attenzione.
Cominciò
a dispensare commenti sulla mia mancanza d’educazione fino a
che, stanco delle sue urla, gli rinfaccio che la buona educazione di
cui lui parla tanto avrebbe previsto che fosse lui il primo a
presentarsi, cosa che non aveva fatto, quindi di chiudere il becco e
tornare a ripassare le regole del galateo perché era
irritante.
Passarono
diversi attimi di silenzio in cui il volto del moro divenne totalmente
rosso, prima che questi riuscisse a dire qualcosa.
Lo
vide espirare profondamente, probabilmente per calmarsi, prima di
presentarsi come Obito Uchiha e tendermi la mano un po’
imbronciato. Ricambiai la stretta dicendo semplicemente
“Kakashi Hatake” prima di mollarla e tornare a
guardare il cielo.
Passarono
ancora diversi istanti in cui rimase lì in piedi a fissarmi,
prima di sedersi accanto a me e rivolgere anche lui lo sguardo alle
stelle ed alla luna.
Passavano
le notti e lui tornava sempre al tempietto a sedersi accanto a me, sino
a decidere degli orari in cui incontrarsi, ai quali però
arrivava sempre ed immancabilmente in ritardo.
Solitamente
arrivava ruzzolando chiedendomi se aveva fatto in tempo, mentre io
troneggiavo a braccia conserte rispondendogli che invece era in ritardo
e ricordandogli l’importanza della puntualità. Di
solito quelle erano le uniche frasi che dicevo durante tutta la
nottata, mentre lui continuava a parlare.
Ovviamente
per ogni ritardo forniva giustificazioni assurde: c’era una
volpe che mi ha attraversato la strada, c’era un serpente che
voleva mordermi, sono stato rincorso da un cervo che pensava volessi
fare qualcosa alla sua compagna,… ma anche se non lo dava a
vedere un po’ lo divertiva sentire le scuse assurde che
s’inventava ogni volta.
Infatti
Obito continuava a parlare, anche delle cose più stupide a
cui lui rispondeva solitamente ad occhiata con l’inarcamento
d’un sopracciglio, non sprecava nemmeno monosillabi e se
parlava era per fargli severamente presente regole che lui non
rispettava.
Parlava,
parlava e parlava, ma anche se in apparenza non prestava la minima
attenzione, mostrando la sua solita maschera annoiata, ascoltava le
parole di quella voce allegra che riempiva il silenzio della notte. Si
ricordava tutte le confessioni che Obito gli aveva fatto, anche quelle
tristi, private e dolorose, come quando gli aveva detto che lui stava
con il proprio zio, ma per quanto ci provasse non riusciva mai a
renderlo orgoglioso, ricevendo solamente occhiate severe o commenti
pungenti, o addirittura insulti, seguiva le indicazioni del maggiore
per provvedere all’acqua e a volte al cibo, ma alla fine
passava tutto il suo tempo da solo.
Le
lacrime di tristezza, amarezza e solitudine rigarono copiosamente le
guance del ragazzo, ma lui non sapeva cosa fare. Non aveva mai
consolato nessuno, nè era stato consolato, se
l’era sempre cavata da solo. Probabilmente lui a differenza
del moro non sapeva piangere e questo per un momento gli fece pensare,
gli fece rendere conto, che lui in realtà era ancora meno
umano di quanto potesse pensare.
Si
limitò a poggiare una mano sulla spalla del moro,
lasciandolo sfogarsi, ma dandogli un tacito sostegno ed appoggio. E
questo, forse, funzionò.
“Kakashi?”
Il richiamo
dell’insegnante servì a riportarlo alla
realtà, mentre la bambina con gli occhi ancora un
po’ arrossati e gonfi rientrava lentamente e tentennante
poiché l’intervallo era finito.
Iruka era avanzato
sino a trovarsi circa ad una spanna di distanza da lui, guardandolo con
un po’ di preoccupazione, chiedendogli anche se andasse tutto
bene.
Si
portò una mano alla sciarpa ed abbassandola andò
a rubare un bacio a fior di labbra all’insegnante, prima di
ricoprirsi metà volto sorridere e rispondere che
sì andava tutto benissimo, mentre il professore prendeva una
colorazione porpora.
Lì in
giro ed in quella scuola c’erano davvero troppe anime, per
quei pochi istanti in cui si era liberate della protezione/filtro
fornitogli dalla sciarpa gli era quasi venuta la nausea per i troppi
odori di anime.
Decise di non
trattenere troppo l’insegnante, poiché era atteso
in classe, informandolo della sua assenza per i prossimi giorni. Questi
sembrò un po’ preoccupato, ma sorridendo
annuì, prima di sapere quando di preciso doveva partire ed
urlargli dietro di muoversi a tornare a casa a preparare le cose che
sicuramente sarebbe stato di nuovo in ritardo.
S’avviò,
lasciando rientrare nell’istituto il borbottante ed irritato
insegnante, mentre gli si formava il dubbio che Tsunade gli avesse
detto un orario anticipato per farlo arrivare all’incirca in
orario.
E pensare che lui
da vent’anni lo faceva apposta ad arrivare agli appuntamenti
sempre in ritardo.
Mentre stava
superando il cancello si voltò un attimo indietro e quasi
gli sembrò si rivedere Obito correre per sentieri battuti in
sostanza solo dagli animali, voltandosi con le guance rosse per lo
sforzo ed un sorriso birichino mentre lo spronava. In fondo il moro non
era mai riuscito a convincerlo del tutto.
“Kakashi per di qua,
seguimi ti voglio mostrare una cosa!” gli diceva
sorridendo, ridendo prima di correre per un altro pezzo prima di
girarsi indietro a controllare che lo stesse seguendo davvero.
“Cinque.
Per quanto ancora dovrò seguirti?”
Recitò
il quinto passo in un sussurro al vento, in una domanda che non
attendeva alcuna risposta e quindi si voltò e riprese a
camminare nella propria direzione e non quella dei ricordi.
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Trascorsero le
settimane e presto giunse quel
giorno. Il giorno dell’anniversario della morte
d’Obito e della distruzione del Villaggio della Foglia. E con
essa arrivò il suo ultimo giorno a Konoha.
Era appena andato
a dimettersi ed aveva avvisato Iruka che doveva parlargli.
L’avrebbe informato che se ne sarebbe andato, sebbene fosse
un po’ da codardi dirglielo all’ultimo, ma era la
soluzione migliore anche per evitare isterie. E per finire la giornata
avrebbe trascorso il resto del tempo alle macerie del Villaggio come
sua abitudine.
Lo stesso rituale
che si ripeteva invariato in quella precisa data ogni anno.
Peccato che
qualcosa nei suoi piani s’incrinò
irreversibilmente. Iruka nel suo appartamento non c’era, al
suo posto solo un biglietto sul tavolo.
Hai ancora la
tendenza a sceglierli ingenui come Obito vedo, anche se questo era
smanioso di saperne di più su di te.
Suppongo che
debba ringraziarlo per averti convinto ad accettare il mio regalo di
compleanno, nevvero Kakashi?
Ti aspettiamo
dove tutto è cominciato per noi.
Ti consiglio di
fare presto.
U. M.
Strinsi la presa
sul foglietto, sino a che uno sfrigolio non lo ridusse in cenere.
Solo quel nome
rimbombava nella mia mente mentre uscivo velocemente
dall’appartamento per dirigermi verso le rovine del Villaggio
della Foglia.
Uchiha Madara.
La rabbia montava
in concomitanza col tempo che scorreva, riportando a galla sensazioni
che non voleva ricordare.
Come
l’impotenza quando suo padre l’aveva abbandonato
senza dirgli nemmeno una parola. E la patetica speranza che per i primi
tempi provava attendendo che tornasse.
Solo. Era sempre
solo. Attendendo chi non tornava. Sperando di ricevere un po’
del calore che gli veniva concesso prima, ma che ora era svanito
assieme al padre… assieme alla sua famiglia.
E presto
cominciò ad accumularsi la rabbia come in quel momento, ma
sarebbe presto scemata come allora, lo sapeva.
“Sei.
Una famiglia che non torna.”
E gli anni erano
passati, lasciando il lui solo odio e vuoto.
Si
ritrovò a pensare vedendo le prime macerie del villaggio. E
quel sentimento tornò vivido come la memoria.
L’odio
nascosto agli abitanti, tutti loro lo disgustavano. L’odio
che cresceva davanti ad ogni atteggiamento mostratogli. E
l’indifferenza che provava invece per tutto il resto.
Cominciava a
sentirsi sempre meno umano e l’odio rimaneva come un carbone
ardente nascosto dietro una spessa ed impenetrabile barriera.
Intravisto solo da Obito, che riuscì a fargli provare
qualcos’altro, ma l’odio, quello, non si spense
mai. In fondo era ancora vivo, sebbene nascosto ancora più
profondamente.
“Sette.
Un odio tenuto segreto.” Si trovò a bisbigliare
addentrandosi tra i rimasugli di quelle detestate abitazioni e dei loro
odiati proprietari.
Al centro di
quella che vent’anni addietro era la piazza del Villaggio
della Foglia vi era una persona distesa a terra, mentre a una decina
circa di metri dietro ad essa una figura a lui ben conosciuta
s’ergeva in piedi a fissare il tutto. La mano destra era
imbrattata di rosso e piccole gocce scendevano per incontrare il suolo.
“K-Kaka-shi…”
Era un sussurro sofferto.
Lo stomaco era
stato perforato ed il sangue collimava copioso per formare una grande
pozza scarlatta sulla terra che non riusciva più a
dissetarsi di quel liquido vitale. M’avvicinai velocemente al
corpo quasi esangue dell’insegnante e lo tirai più
delicatamente che riuscii tra le mie braccia.
“Iruka”
solo un filo di voce lo pronunciò, insicuro se dare
concretezza o meno alla realtà dei fatti.
Gli accarezzai il
volto, non potendo impedirmi d’accusarmi mentalmente,
perché si ritrovava lì solo a causa mia, solo
perché mi aveva tenuto compagnia quell’anno.
Mi chinai su di
lui, avevo già deciso cosa fare, ormai non gli restava
molto. E volli assumermi le mie responsabilità, lo feci per
alleviarlo del dolore che la morte gli stava infliggendo, oltre che per
non dimenticarlo.
Lo baciai
un’ultima volta. Ed in quel bacio, oltre a divorargli le
labbra, gli divorai anche l’anima.
Ora tra le mie
braccia giaceva solo un corpo inerte. Un’altra vittima
sacrificale.
Non potei non
ricordare anche la mia prima ‘vittima sacrificale’
e le sue ultime ore avendone ora una nuova tra le braccia. In fondo
quello ora era divenuto l’anniversario della morte anche di
questa nuova anima deceduta e più tardi l’avrebbe
portata a riposare nel suo ‘cimitero personale’
assieme alla prima.
Il problema forse
per lui era che ricordava ancora troppo vividamente tutto e non si
sarebbero deteriorati anche in futuro, non potevano sfuocarsi quei
ricordi. Ricordava perfettamente anche la sua voce, come se la sentisse
uscire da quelle labbra mordicchiate in quell’esatto istante.
“Kakashi
sbrigati, forza, ci dobbiamo sbrigare finché lui non
c’è!” Obito sembrava agitato e mi
trascinava velocemente su per la montagna. Provai a chiedere chi, ma
ottenni solamente un “Lui”.
♠~~♥~~♥~~♥~~♠
“Otto.
Prima che arrivi il Demone della Montagna.” Sussurrai
accarezzando quel volto che diveniva sempre più freddo.
♠~~♥~~♥~~♥~~♠
Una
volta superato il punto sin dove mi aveva condotto la volta precedente
un odore di sangue cominciava ad arricchire e a pesare sempre
più gravemente nell’aria.
Non
so quanto ci impiegammo, arrivammo sino ad una grotta non poi
così distante dalla cima del monte Hokage.
Mi
spinse all’interno sussurrandomi di fare silenzio e fare in
fretta. La caverna era un po’ più profonda di
quello che sembrava e nell’alcova che vi poneva fine vi era
un uomo incatenato al muro. Il fisico pareva allo stremo, decorato da
cicatrici, ustioni, ferite e sangue incrostato o meno che gli
imbrattavano pelle e quello che rimaneva di vestiti. Il capo era chino,
mentre i capelli parevano quasi marroni per tutto il sangue raggrumato
che li incrostava, lasciando liberi solo pochi sprazzi di grigio.
Obito
corse verso l’uomo slacciandogli con fatica le manette,
facendolo così cadere a terra come una marionetta privata
dei fili, mentre sussurrava preoccupato, ansioso e felice.
“Signore
forza, dobbiamo fare presto prima che lo zio ritorni, ho portato anche
Kakashi con me. Si faccia forza.”
Lo
guardai stranito mentre sorreggeva il corpo dell’uomo.
Sinceramente faceva prima a dargli il colpo di grazie e porre fine alle
sofferenze del poveretto, ma chiamato con insistenza dal moretto
s’avvicinò per aiutarlo a potar via
l’adulto.
“Obito…
ne sei sicuro? Faremmo prima a lasciarlo qui, anche l’odore
che dovrebbe provenire dalla sua anima è talmente debole che
fatico a sentirlo, specie con questo tanfo di sangue. Dovremmo dargli
il colpo di grazia per farlo smettere di soffrire piuttosto.”
“NON
DEVI DIRE QUESTE COSE! Sei il solito insensibile! Lui è pur
sempre t-”
“Che
cose interessanti che ho sentito. Obito vedo che mi hai portato
finalmente il cucciolo degli Hatake.” La voce roca maschile
interruppe il moretto che guardò dietro di me con occhi
sgranati, cominciando a tremare lievemente.
“Z-zio
Madara i-io…”
Mi
voltai per veder passarmi accanto un’umbra. Osservai la
schiena robusta del nuovo arrivato, coperta da lunghi ed ispidi capelli
neri come ali di corvo, ma in qualche modo risultavano spenti, non
riflettevano alcuna luce, pareva quasi che l’inghiottissero.
“Pensavi
davvero che me ne sarei andato momentaneamente? Le continue scuse che
utilizzavi per non avermi ancora portato il cucciolo Hatake rivelavano
chiaramente il tuo intento di disobbedirmi Obito.”
Terminò tirando un calcio nello stomaco del nipote,
facendolo finire contro le pareti rocciose a tossire per il colpo,
mentre il corpo dell’uomo che sorreggeva ricadeva a terra
indolente.
“Ma
credo tu abbia ragione nipotino, è ora di fare una
commuovente riunione di famiglia.” Riprese tirando per i
capelli l’adulto a terra, così da alzarlo sino a
mostrarmi il volto. E con un ghigno in volto si rivolse direttamente a
me “Tu dovresti chiamarti Kakashi, dico bene? Cosa si prova
nel rivedere tuo padre dopo quattro anni? Scusalo, se avesse saputo che
stavi arrivando sono certo che sarebbe stato più
presentabile.”
Avvertii
gli occhi sgranarsi lievemente per l’effettiva sorpresa nel
riconoscere, sebbene con difficoltà, quel volto che non
vedeva da quattro anni nel ‘prigioniero’; prima che
l’Uchiha maggiore lasciasse la presa sui capelli
dell’altro adulto, facendolo rovinare a terra.
“Devo
ammettere che tuo padre mi ha davvero deluso, pensavo che la zanna
bianca della foglia si fosse risvegliata come Demone di alto rango a
giudicare dalla fama che aveva, ed invece nulla. Avverte sensazioni e
l’odore di sangue e nient’altro. Non credo che il
suo sangue si sia risvegliato, e se l’avesse fatto sarebbe
solo un Demone di bassissimo rango. Non ha senso nemmeno soggiogarlo
per averlo al proprio comando. Ma non si può dire lo stesso
di te, vero? È raro che già alla tua
età tu percepisca l’odore delle anime. Sai
l’ho lasciato in vita solo per fartelo rincontrare e vedere
se questo ti avrebbe risvegliato” Spiegò
tranquillamente prima di tirare nuovamente i fili una volta di un
magnifico grigio-argenteo ora coperti d’impurità.
Estrasse
un piccolo pugnale e gli sgozzò il genitore davanti agli
occhi. Ebbe solo la nausea per l’eccessivo fetore del sangue
che ottenebrava l’aria rendendola quasi irrespirabile. Non
ottenne altre reazioni da lui, ma che si aspettava in fondo? Per lui
suo padre era morto quattro anni prima, quello davanti a lui era un
perfetto sconosciuto. Non l’avrebbe perdonato per averlo
abbandonato, che fosse scappato o meno, senza avergli dato anche la
più minima spiegazione o avvertenza.
Dal
volto dell’uomo però non riusciva a capire se
questi fosse soddisfatto o meno della sua reazione, pareva una maschera
d’impassibilità. Gettò il corpo in un
angolo sbuffando.
“Le
doti per divenire un demone le hai, da quello che vedo probabilmente
saresti anche d’assai elevato rango, Kakashi Hatake. Peccato
che non abbia voglia di giocare come ho fatto con tuo padre per
risvegliarti, dopo quattro anni di tentativi andati nulli la mia
pazienza è andata scemando. Ma forse è un bene,
in fondo potresti diventare un problema anche per me se sei troppo
portato. Quindi direi che è ora di dirci addio. Ah, che
sbadato Madara Uchiha è il nome della persona che ti
porterà all’altro mondo.” Concluse prima
d’abbassare la lama su di me.
Non
l’avevo visto muoversi, ma anche coi miei riflessi non
riuscì a schivarla del tutto, la punta della lama percorse
un tragitto sagittale dal sopracciglio sinistro sino
all’occhio per attraversare ancora la guancia sino alla fine
della corrispondenza con l’osso zigomatico. Riuscii ad
arretrare tirandomi dietro Obito, che era alla mia destra, che si era
addirittura buttato nel tentativo disperato di farmi da scudo col suo
corpo, cosa che sarebbe risultata comunque inutile visto che non
avrebbe fatto in tempo.
La
mano sinistra poggiava sulla ferita tentando di proteggerla, mentre la
destra teneva ancora il braccio d’Obito. Allontanai la
sinistra per valutare la quantità di sangue che vi si era
depositata, ma il dolore, specie quando provai ad aprire
l’occhio mi portò a supporre d’averlo
effettivamente perso. L’Uchiha minore nel frattempo estraeva
un pugnare, avanzando lievemente per proteggermi da un eventuale
attacco a sorpresa mentre io valutavo velocemente la gravità
della ferita.
“Obito
sei una vera delusione, dovevo liberarmi di te parecchio tempo
fa” Fu il sussurro che s’udì prima che
l’uomo non comparisse davanti a loro attraversando il petto
del parente con la lama.
Non
potei fare nulla, non feci in tempo a muovere un muscolo, forse un
po’ per la sorpresa dell’azione. Mi ritrovai presto
ad essere lanciato contro una parete, mentre Obito aveva conficcato il
suo pugnale nell’avambraccio destro dello zio, prima di venir
anche lui gettato in un angolo della grotta. La vista
cominciò a farsi offuscata e vidi l’ombra che era
Madara avvicinarsi al corpo di Obito, recuperando degli oggetti che
scontrandosi tra di loro provocarono un rumore metallico.
L’ultima
cosa che sentì prima del rumore della frana fu la sua ultima
frase.
“Se
ci tenete tanto morite lentamente insieme in questa grotta, schiacciati
dai sassi.”
E
lui sparì succeduto dal crollo che aveva provocato a quello
che negli ultimi quattro anni era stata la prigione della Zanna Bianca
della Foglia.
♠~~♥~~♥~~♥~~♠
“Nove.
Salendo sul monte d’Hokage.” Sussurrai ancora con
gli occhi chiusi, mentre depositavo a terra delicatamente il corpo
ormai esanime dell’insegnante.
♠~~♥~~♥~~♥~~♠
A
quanto pareva un paio di massi cadutimi affianco hanno evitato che
quelli sopra mi schiacciassero. Li spostai con non poca
difficoltà e m’alzai con fatica, pressando la mano
sull’occhio sinistro ormai inutilizzabile. Il cadavere di mio
padre era sotto centinaia e centinaia di detriti. Ma appena avvertii
quel sussurro richiamarmi mi voltai fino ad individuare il corpo del
moro nell’angolo dietro a delle macerie.
“K-Kakashi…
Perdonami… non sono riuscito a fermare mio zio.”
Riesce a dire con voce un po’ roca prima di tossire un
po’ di sangue.
Cominciai
a spostare le macerie per portarlo fuori, ma lui mi blocca.
“È
inutile… Per me è troppo tardi.”
Sorrise
un po’ tristemente, ma non mi arresi e tolsi i detriti sino a
rivelare gli spuntoni di ferro che gli trapassavano la cassa toracica,
oltre alla profonda ferita infertagli prima dal Demone che gli
attraversa obliquamente il petto.
“Kakashi,
ti devo chiedere un favore: assorbi le mie energie e la mia anima, non
mi va che siano sprecate” continuò faticosamente,
non abbandonando la nota finale divertita che serviva ad alleggerire la
situazione.
Gli
stava chiedendo di ucciderlo, di accettare di essere un Demone. Ed
Obito sapeva benissimo cosa gli stava chiedendo, il moretto era pur
sempre un Demone non ancora risvegliato, ma non voleva accettare la
fine impostagli dal parente. Voleva scegliersi da sé la fine
e voleva che lui lo uccidesse.
Non
voleva sparire nel nulla dando la soddisfazione a suo zio di dargli
ragione, a costo di far risvegliare definitivamente l’amico e
condannarlo ad essere ciò che odiava. Voleva aiutare a
creare e risvegliare ciò che Madara aveva temuto, il Demone
che sarebbe stato in grado di portarlo alla sua fine, perché
lui conosceva Kakashi e sapeva che in futuro sarebbe divenuto
inarrestabile. Kakashi avrebbe compiuto la loro vendetta, ma per fare
questo l’avrebbe ferito costringendolo ad accettare
ciò che era realmente.
“Mi
dispiace, sopravvivi Kakashi. Io rimarrò sempre con te, nel
tuo occhio sinistro.” Mi disse a fatica, elargendomi uno dei
suoi sorrisi allegri, sebbene il dolore ed il dispiacere per
ciò che stava facendo all’amico trasparivano
chiaramente dall’odore della sua anima.
E
lo fece. Divorò l’anima dell’amico e la
sua energia vitale rigenerò l’occhio sinistro,
cicatrizzando la pelle che era stata tagliata dalla lama della spada.
Quando lo riaprì l’iride era rossa, con tre gocce
nere, proprio come quelle di Madara e proprio come erano divenuti
quelli d’Obito un secondo prima che gli venisse squarciato il
petto. Presto le gocce nere si modificarono sino ad assumere ognuna la
forma simile ad una falce la cui lama toccava il manico corto e largo
di quella successiva che s’allungava dalla pupilla.
La
cosa strana erano le lacrime che scendevano da quell’unico
occhio rigenerato. Non era mai stato in grado di piangere, quindi forse
quello era Obito che piangeva per lui?
Uscì
dalla caverna crollata lasciandoci all’interno i corpi del
padre e di quello che avrebbe potuto considerare un fratello, sebbene
non di sangue.
Da
lì, da quello che ormai lui aveva battezzato come suo
personale cimitero sul monte d’Hokage, lo vide.
Il
rosso delle fiamme che divoravano l’intero villaggio, non
risparmiando nemmeno un’anima si rifletteva chiaramente nel
suoi occhi, uno rosso come loro ed uno nero come la figura del demone
Madara Uchiha che rideva al centro di quello che pochi istanti prima
era conosciuto come il Villaggio della Foglia.
Ma
di cosa ci si poteva stupire, è risaputo che le foglie non
resistono al fuoco, ma lui non era mai stato una foglia. Era un
fulmine; una tempesta ricca di acqua e di fulmini che distruggono
tutto, che rompono persino la terra e non si può bruciare
una tempesta o un fulmine ed il Demone che aveva loro rovinato
l’esistenza se ne sarebbe presto accorto.
Anche
l’altra iride divenne per un momento rossa, risvegliata dal
suo occhio e dal suo istinto demoniaco, ma solo per in istante.
Nell’attimo preciso in cui il Demone di fuoco se ne
andò, anche l’iride destra tornò del
suo abituale colore scuro.
Ed
anche lui abbandonò la montagna, se l’era sempre
cavata da solo, non sarebbe stato un problema.
Ora
doveva solo crescere ed aspettare il tempo giusto per la sua, anzi la
loro, vendetta.
Non
si può bruciare un fulmine o una tempesta.
Quell’occhio
sinistro sarebbe rimasto per sempre rosso, in quell’occhio
era come se avesse sigillato Obito, esaudendo la sua richiesta. In
quell’occhio vi sarebbero state tutte le persone a cui teneva
e che aveva divorato e sarebbe stato il suo monito per non dimenticare
i morti che avevano il diritto di tornare a tormentarlo.
Feci dieci passi
in avanti e fu allora che mi decisi a riaprire gli occhi, alcune
lacrime lasciavano il sinistro com’era accaduto due decadi
prima. Alzai lo sguardo e la figura di Madara Uchiha si rispecchiava
nei miei occhi divenuti entrambi rossi con quel disegno nero
all’interno.
“Dieci.
Sono diventato un Demone bambino.”
Era il momento di
portare a termine una vicenda durata fin troppo, due paia di rubini che
si fissavano pronti a divorarsi l’un l’altro senza
indugi.
Lo sapevo
perché siamo due Demoni… No.
Lo sapevo
perché sono
un Demone.
Angolo
della Sadica Sanguinaria
Rieccomi qua ^^
spero che sia piaciuta anche a voi.
Questa storia
avrebbe partecipato al ‘Naruto Fantasy Contest’
indetto da ‘La procrastinatrice’ (qui su
Efp meglio conosciuta come RedHair) ma purtroppo, visto che
sono stata l’unica a consegnare è stato annullato.
Tutta via è stata così gentile da lasciarmi il
suo giudizio che metterò qui a seguire, quindi per chi non
dovesse interessare ringrazio qui. Statemi bene bye xXx
GRAMMATICA:
7.8/10
Nel complesso la
grammatica è buona. In alcuni punti ci sono errori di
battitura, ad esempio manca lo spazio tra una virgola e la parola
successive o tra un punto e la parola successiva. Oppure dopo un punto
la frase successive inizia con la lettera minuscola anziché
maiuscola.
Altri errori che ho
trovato:
- In alcuni punti,
sarebbe stato preferibile aggiungere un po’ di punteggiatura.
Ad esempio, nella frase “… e se alzavi il viso
potevi vedere tranquillamente uno scorcio di cielo assieme alla luna
senza che le fronde degli alberi si intromettessero.” Avrei
aggiunto una virgola: “… e se alzavi il viso
potevi vedere tranquillamente uno scorcio di cielo assieme alla luna,
senza che le fronde degli alberi si intromettessero.”
- “Per lui
non era un problema, infondo si ricordava ancora alla perfezione
tutto.” Infondo è errore, va scritto staccato: in
fondo. Infondo è voce del verbo infondere.
- “-Case
inghiottite da gigantesche aperture nel terreno e quelle che si
salvavano dai crepacci rimanevano comunque macerie.
-Abitazioni che,
inabissate, avrebbero continuato a riposare sui fondali di laghi nati
quando queste erano state inghiottite dall’acqua.
-Uragani che sradicano
e tagliano tutto portandoselo via e disperdendolo in
un’amplia area.
-Incendi che
divoravano e carbonizzavano tutto ciò che toccavano,
colorandolo prima di rosso e poi di un perenne nero.” Nella
frase “Uragani che sradicano e tagliano tutto portandoselo
via e disperdendolo in un’amplia area” avrei usato
l’imperfetto, come nelle altre: “Uragani che
sradicavano e tagliavano tutto portandoselo via e disperdendolo in
un’amplia area.”
STILE:
3.8/5
Lo stile mi piace,
molto ricco di dettagli e di descrizioni.
Anche i sentimenti del
protagonista sono ben presentati.
L’unica cosa
che mi lascia un po’ perplessa sono i continui passaggi dalla
prima persona (dove è Kakashi a raccontare la sua storia) a
quelli in terza persona.
Sarebbe preferibile
scrivere o tutto in prima, o tutto in terza persona. Oppure tenere ben
separate i passaggi dall’uno all’altro.
IC
PERSONAGGI: 8.5/10
I personaggi sono IC.
In particolare
Kakashi: riservato, taciturno e misterioso, con un animo tormentato,
ma che sa nascondersi
bene sotto una facciata di indifferenza verso il mondo.
Tuttavia sa anche
essere premuroso e gentile a modo suo.
Così lo
vedo io nel manga e così l’ho trovato nella tua
storia.
Anche gli altri
personaggi, a mio parere, restano IC: Gai e le sue sfide, il giovane
Obito allegro e amichevole, Iruka con l’animo gentile e la
tendenza a comportarsi da “maestro” anche con
Kakashi, Madara rissoso e crudele.
ORIGINALITA’:
8/10
Storia piuttosto
originale, non ho di che lamentarmi.
Mi piace
l’idea di Kakashi “cacciatore di demoni”,
ma demone lui stesso.
Bella anche la trovata
di fargli percepire la presenza di demoni e anime attraverso
l’olfatto, così da giustificare la sua abitudine
di portare sempre una mascherina o una sciarpa. Davvero geniale.
GRADIMENTO
PERSONALE: 3.5/5
La storia mi
è piaciuta, soprattutto le parti riguardanti il passato di
Kakashi. Avrei preferito uno scontro più intense fra Kakashi
e Madara e una descrizione più approfondita di
quest’ultimo personaggio. Magari anche saperne di
più sul rapporto fra Kakashi e il padre. Però mi
rendo conto che con una One-shot è difficile inserire mille
cose; questa poi è già abbastanza lunga
così com’è.
TOTALE:
31,6/40
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