Un orologio senza lancette
- Jack, Jack, guarda cosa so fare! -
Una graziosa bambina con una salopette di jeans e i riccioli biondi
legati in due scomposti codini si lanciò in una capriola
nell'erba. Poi, dall'alto dei suoi cinque anni, si voltò a
salutare Jack.
Il giovane, seduto sulla panchina del parco giochi in quel caldo
pomeriggio di fine settembre, sorrise alla bambina e
sventolò la mano per ricambiare il saluto. Seguì
con gli occhi la piccola che correva verso l'altalena assieme a due sue
amichette incontrate per caso e sospirò.
Cosa c'entrava quel cielo così splendente, quel cielo che
non era mai stato tanto blu, senza nemmeno una nuvola, in quella
giornata tanto malinconica per lui? Ci stava tanto male quell'atmosfera
calda, soleggiata e serena, in quel momento in cui lui sentiva tanto la
sua mancanza.
Si guardò intorno come faceva sempre: se c'era una cosa che
gli piaceva fare era guardare la gente, osservarne i comportamenti e
poi pensare a chi fossero quegli sconosciuti che gli scivolavano
accanto senza nemmeno accorgersi dell'affascinante trentenne seduto su
una panchina scrostata del parco. Attorno a lui la gente schiamazzava,
giocava, rideva e chiacchierava, in quel tardo pomeriggio di domenica.
Quasi si chiedeva come facessero gli altri a stare su, in quella
giornata. Si era anche seduto vicino al chiosco del bar, sperando che
la radio sempre accesa mandasse un po' di allegria al suo umore grigio.
Ma non arrivava nemmeno un po' di musica, a Jack. O forse arrivava, ma
lui non riusciva a sentirla, preso com'era dai suoi pensieri.
Più osservava quella bambina crescere, più
sentiva la mancanza di sua madre. La poteva rivedere nel broncio che la
bimba metteva quando le si diceva di no, nella sua cocciutaggine, ma
anche nella dolcezza incredibile con cui gli saliva sulle ginocchia
quando lo vedeva giù di morale.
Alzò gli occhi al Cielo e si chiese, per l'ennesima volta,
se dov'era lei - dovunque fosse in quel momento - il suo pensiero le
poteva arrivare. Chissà se lo poteva sentire pensare a lei e
chissà se ne rideva. O forse, se le faceva piacere.
Pensò a quella buffa ragazza bionda che aveva conosciuto a
scuola e pensò che all'inizio non era molto in sintonia con
lei. Senza contare che si diceva che avesse turbato il delicato
equilibrio emotivo degli adolescenti di Capeside, con la sua audace
condotta emancipata da ragazza di città.
Ma lui - si sa - non l'aveva mai vista in quei termini.
Sotto i vestiti, i trucchi, le tinture per i capelli e le continue
diete per evitare di diventare grassa e brutta, Jack sapeva cosa c'era.
Conosceva quella ragazza più di quanto lui conoscesse
sé stesso.
Il sole lanciò un raggio color porpora nella sua direzione e
Jack pensò che era ora di tornare a casa. Si alzò
e chiamò la bambina, che si precipitò da lui
senza dire niente. Al contrario di sua madre, era piuttosto ubbidiente.
- Prendimi a cavalluccio, Jack… ti prego! - Chiese la
bambina, aggrappandosi al suo braccio.
- Sono stanco adesso, tesoro. - Dise Jack.
- Dddaiiii…. - Chiese la bambina, con un sorriso luminoso
come una piccola stella.
Jack si chinò cercando di trattenere un sorriso.
- Certo che sai proprio essere ruffiana! - Esclamò,
prendendola sulle spalle.
Uscirono dal parco giochi e si fermarono in pizzeria; una cena veloce e
poi di nuovo in macchina.
La bambina si era addormentata nel sedile del passeggero e Jack guidava
lentamente, con la radio a volume basso, per non svegliarla.
I raggi del sole al tramonto continuavano a inondare l'aria di porpora
e viola e Jack sospirò.
Quel giorno proprio ce l'aveva con lui: prima il pomeriggio terso e
limpido, ora quel tramonto che aveva l'aria di non voler finire
più, come se volesse dare uno spettacolo gratuito a tutti
gli innamorati del modo. Mentre il pensiero di lei gli stava quasi
strappando il cuore.
Quanto si sentiva solo, certe volte. Quando pensava alla sua
adolescenza tanto felice, insieme agli amici, alle ragazze, assieme a
sua sorella e assieme a lei, gli venivano le lacrime agli occhi.
Era sempre stato un tipo emotivo.
Una "femminuccia", come dicevano i suoi compagni di squadra quando
aveva tredici anni.
Ma che ci poteva fare se a volte si sentiva solo….
così solo da provare panico?
C'erano stati altri con lui, quello era innegabile. Ma doveva aver
avuto proprio un'aria stupida, assieme a loro. Non riusciva ad essere
naturale più con nessuno.
Tutto per colpa sua. Perché lei gli mancava da impazzire.
Doug aveva resistito un anno e mezzo, ma poi non ce l'aveva fatta e se
n'era andato.
"Non posso stare con un uomo che non pensa a me." Aveva detto quando
aveva chiuso la porta dietro di sé, portandosi via le sue
cose e quel po' di serenità che Jack era riuscito a
conquistarsi.
Jack pensò che, dovunque lei fosse, doveva restituirgli i
suoi pensieri. Doveva pur esserci un modo per lasciarlo andare.
"Lasciami andare - pensò - lasciami andare e
potrò essere felice. Potrò dimenticare questa
assurda nostalgia che mi assale a volte. Lascia che io ti
dimentichi… Potrò essere un papà
migliore per la tua bambina."
Arrivarono a casa e Jack prese la bambina in braccio per portarla nella
sua stanza. Le mise il pigiama e le rimboccò le coperte.
Stava per andare via, quando la bambina si svegliò.
- Jack, non andare via. - Disse.
- Shhh. Dormi adesso, è tardi. -
- Ti prego, stai qui con me un po'. -
- Tesoro, è tardissimo, facciamo domani. -
- Solo cinque minuti. -
Jack si sedette sul bordo del letto e le sorrise.
- Devi dirmi qualcosa? -
- Perché siamo andati a Capeside proprio oggi? -
- Perché volevo fare una gita. - Mentì Jack.
- Oggi è il giorno in cui è morta la mamma, vero?
- Domandò la bambina, con serietà.
- Oh, Amy…. -
- Tu le volevi tanto bene, vero? -
- Tantissimo. -
- E anche lei ne voleva a te? -
- Sì, anche lei mi voleva tanto bene. -
- Eravate innamorati? -
- Probabilmente sì, l'amore è una cosa
complicata, tesoro mio. -
- Ma io non sono la tua bambina ed è per questo che non vuoi
essere chiamato papà. -
- Sì, infatti. -
- Ma la mamma si arrabbierebbe se ti chiamassi papà? -
- Non lo so, Amy. -
- A me piacerebbe. Io non so com'è avere un papà
e nemmeno com'è avere una mamma. Ma se mi chiedessero di
scambiarti con un papà o una mamma non vorrei fare cambio. -
Jack sorrise commosso alle parole di quella bambina: le posò
un bacio sulla fronte e poi uscì dalla stanza, lasciando la
porta socchiusa.
Si buttò sul divano, troppo sveglio per andare a letto.
Accese la televisione, ma non c'era niente che lo interessasse. Prima
la giornata, poi il tramonto e adesso ci si metteva quella serata: una
notte lunga, una "notte giovane", come si diceva quando era ancora un
ragazzo e andava in giro a bere e a parlare fino a notte fonda con gli
amici. La TV non lo stava aiutando, anzi, quel comico che diceva quanto
era fastidiosa una moglie gli faceva solo tanta tristezza.
Jack spense la TV e andò nella sua stanza. Rovistando un po'
sul fondo dell'armadio, trovò il vecchio album di fotografie
di quando era ragazzo.
Un'affascinante ragazza bruna - Joey - e un tipo dalla faccia sveglia -
Pacey - si tiravano i pop corn seduti sul divano di casa Witter. Mentre
un giovanotto dal sorriso sognatore - Dawson - infilava una VHS nel
videoregistratore. Poi c'era Andy, sua sorella, che sventolava la mano
dalla finestra della loro casa. Doug, i genitori di Dawson, i suoi
compagni di classe.
Poi c'era lei. Jen.
Con quel suo sorriso malizioso gli sorrideva, con una divisa da
cheer-leader gialla e blu, seminascosta dietro i pompon sbarluccicanti.
Le foto si rincorrevano, così come i momenti.
Una foto, abbracciati, nel “loro posto”, al parco.
Prima che le fontane dell’irrigazione partissero e
inondassero vestiti, coperte e macchina fotografica.
Ben presto le lacrime che Jack aveva coraggiosamente trattenuto ruppero
gli argini e una goccia d'acqua salata scivolò sulla sua
guancia e cadde sulla pagina dell'album di fotografie.
Una deliziosa foto con Jen che teneva tra le braccia una bambina di
qualche mese con un bell'abitino bianco gli stava davanti. Il sorriso
della ragazza illuminava la foto e i suoi occhi azzurri guardavano la
sua Amy come se volesse proteggerla da tutto il male del mondo. Accanto
a lei, con un braccio sulle sue spalle e con un dito stretto nel pugno
della piccola, c'era lui, il Jack McPhee di qualche anno prima.
Quando Jen era felice, stava bene, ed era appena diventata mamma.
Se un estraneo avesse guardato quella foto, non avrebbe avuto dubbi sul
fatto che quei tre si volevano bene. Che si amavano si vedeva anche
attraverso quel vecchio cartoncino.
Chissà, forse, se lei fosse stata in salute avrebbero
vissuto tutti e tre assieme, proprio come una famiglia. In quel momento
non sognava altro.
Quella Jen era così diversa dalla prima adolescente
insoddisfatta e ribelle che aveva conosciuto, quella che aveva lasciato
una scia di cuori spezzati e di ragazze infuriate nel liceo di una
anonima cittadina. Era una creatura adorabile, dolce e affettuosa. Jack
era felice di averla incrociata per la sua strada.
Sapeva che erano anime gemelle. Lui, che non ci aveva mai creduto, alla
fine aveva dovuto arrendersi all'evidenza.
Erano come le due lancette di un orologio.
Se una delle due mancava, il tempo sembrava non passare mai.
Si asciugò gli occhi mentre un singhiozzo rompeva il
silenzio della stanza. In quel momento, la porta si socchiuse. Un
istante dopo Amy era accanto a lui sul letto.
- Perché piangi? - Chiese con gli occhi pieni di
preoccupazione.
- Oh, Amy… mi manca tanto la tua mamma. - Disse lui cercando
di sorriderle.
Amy gli gettò le braccia al collo e lo abbracciò
stretto. Jack ricambiò l'abbraccio e pensò che,
se pure Jen se n'era andata, aveva lasciato con lui quello che le era
più caro.
Chissà se le arrivava il suo pensiero. Chissà se
ne rideva, o se le faceva piacere.
Comunque fosse, lei gli era ancora accanto. Attraverso gli occhi di
Amy… e magari attraverso i suoi occhi avrebbe potuto vedere
di nuovo le lancette dell'orologio.
E il tempo avrebbe ricominciato a scorrere.
Questa storia faceva parte di un progetto di dodici song-fiction
basate sulle mie coppie preferite e su canzoni che mi avevano fatto
pensare subito a loro quando le avevo sentite.
Rendendomi conto della mia assoluta imbranataggine a scrivere
songfiction ho lasciato il progetto a metà
(ad un quarto, visto che ne ho scritte solo tre) e ho cambiato rotta.
Però riordinando l'hard disk le ho ritrovate e ho
pensato che erano abbastanza carine
da essere pubblicate qui su Efp, se non altro per sentire cosa dice il
resto della gente.
La canzone che ho scelto è "Il mio pensiero" di Ligabue, ma
ovviamente l'avevate capito.
Dopo aver pubblicato Nel mio cuore (su Inu Yasha e Kagome) ho pensato
che forse pure questa meritava di vedere la luce.
Resta solo da vedere se inserire anche la fanfiction Chameron che mi
rimane... vedremo.
Grazie a tutti quelli che sono passati di qui, che recensiscano o meno:
è importante per mesapere che qualcuno si è
fermato a leggere!
Flora
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