Rachmones/Compassion
com-pas-sió-ne
dal latino: [cum]
insieme [patior] soffro.
Partecipazione
alla sofferenza dell'altro. Una comunione intima con un dolore che
non nasce come proprio. Manifestazione di un tipo di amore
incondizionato che strutturalmente non può chiedere niente in
cambio.
Non c'è
tenerezza, tra di loro, non nel sesso -disperato, rabbioso- non nei
momenti dopo.
È uno sfogo,
un semplice modo per rendersi conto che sono ancora vivi, interi,
capaci di provare sensazioni diverse dal dolore e dalla disperazione.
Eren, per questo,
apprezza le braccia di Rivaille intorno alle spalle, anche immobili
come sono. Apprezza la mano sulla nuca, tra i capelli, anche se non
sembrerà mai un gesto tenero come una carezza.
È bello
lasciarsi cullare dal semplice calore del suo corpo sotto il proprio,
rimanere per qualche minuto ad ascoltare con calma il battito di un
cuore conosciuto.
Dopo aver sfogato la
rabbia ed il dolore, si permettono dieci minuti di calma, prima che
tornino gli incubi.
Non parlano mai
molto. Per natura il Caporale è silenzioso e schivo e quello è
stato un giorno particolarmente triste per entrambi. Non ci sono
state parole quando Rivaille lo ha preso per le spalle e trascinato
fino al letto.
La tristezza e la
rabbia non hanno lasciato i suoi occhi, eppure Eren si è
sentito utile, almeno un po', sedando i sentimenti più
violenti. Non ha protestato, non ha chiesto se quello fosse il modo
migliore di affrontare un lutto.
Lui stesso non ne è
capace, non ha nulla da insegnare a qualcuno che ha affrontato la
morte da prima che nascesse.
Si sono usati a
vicenda fino a quel momento, senza sentimenti ad appesantire un
rapporto che già è teso, fuori da quella stanza. Si
rispettano abbastanza da non illudersi che esista qualcosa.
Si porta al livello
del suo viso, però, le braccia sul cuscino a sostenere il
proprio peso, gli occhi nei suoi mentre cerca le parole giuste per
esprimere il dolore.
È anche
colpa, la propria. Ha avuto fiducia nella sua squadra, ha voluto
ascoltare parole che nel mondo in cui vivono non hanno più
senso. La speranza, il bisogno di contare sugli altri... nel mondo
crudele che ha scoperto anni prima non c'è un vero posto per
quei sentimenti.
Si sente la causa
della sua perdita e vorrebbe avere le parole giuste per farsi
perdonare.
“Non dirlo.”
lo anticipa il Caporale, gli occhi fissi nei suoi come se non gli
importasse davvero. Non si muove per spostarlo, per dirgli di tacere
ed Eren arriva a pensare che invece ha bisogno di sentirselo dire.
“È
colpa mia.” mormora infatti, perdendo forza nelle braccia ed
appoggiando la fronte al cuscino, accanto a lui. “Se avessi
creduto più in me stesso, se li avessi protetti prima...”
“Era il loro
compito. Te lo avrebbero impedito in ogni modo.” lo interrompe
ed Eren sente di nuovo il bisogno di gridare. La voce del Caporale è
distante e lui vuole scoppiare a piangere, il cuore troppo gonfio di
dolore.
Rivaille non mostra
il proprio, non direttamente, non come farebbero altri. La sua è
una disperazione silenziosa che ferisce il ragazzo in modo molto più
profondo di quanto farebbero lacrime e grida.
Il lutto del
Caporale si esprime tramite quei gesti che non farebbe in altri
momenti, le braccia ferme intorno al suo corpo, il modo possessivo in
cui l'ha stretto prima, la mandibola serrata in una linea dura che
non lascia trasparire nulla per cui provare pietà.
Si sente
singhiozzare prima ancora di realizzare che sta piangendo.
La mano che sta tra
i suoi capelli si muove appena e lui si detesta, perché quello
non è un sentimento che può esistere tra loro. Non
vuole pietà, non quando dovrebbe essere Rivaille a disperarsi
per la propria perdita.
Vuole mostrare
compassione per lui, vuole poter esprimere quello che sente, ma non
così, non rischiando di sembrare un ragazzino sciocco.
“Sei
importante per l'umanità e loro lo sapevano.”
Eren non cerca doppi
significati, in questo.
La sua ammirazione
per un uomo che ha il doppio dei suoi anni lo spinge a idealizzarlo,
ma non fino a questi punti. E, in fondo, desidera solo non essere
odiato da lui.
Desidera soltanto
mostrare quanto sia diventato essenziale.
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