REQUIEM IN RE MINORE
Un pazzo! È qualcosa che fa orrore, e tu cosa sei, tu,
lettore? In quale categoria ti schieri? In quella degli sciocchi o in
quella dei pazzi?
Gustave Flaubert
All’inizio
c’è il buio. Un buio denso e fitto che si
appiccica sulla pelle come lo zucchero sciolto di una caramella
dimenticata al sole.
Ho freddo, ma
nonostante tutto cammino e piano l’oscurità
comincia a diradarsi.
Realizzo di
trovarmi in un bosco, ed i rami degli alberi ormai spogli formano
un’ intricata cupola che lascia penetrare deboli raggi
lunari. L’aria fredda mi penetra nei polmoni ed il respiro
caldo si condensa in un debole soffio di fumo. Mi guardo attorno
circospetto, con la sensazione assillante di essere osservato, una
percezione che diventa sempre più insistente man mano che
continuo a camminare. Stringo gli occhi e cerco di mettere meglio a
fuoco il luogo per potermi orientare, ma non è un posto a me
conosciuto.
Come ci sono
arrivato qui? Sono di nuovo in fuga dissociativa dalla
realtà?
No, le
sensazioni che avverto sono troppo vere per essere frutto di una mente
turbata, ma d’altra parte quando le allucinazioni mi
colpiscono sembra sempre tutto reale.
Mi passo una
mano sul viso e la scopro madida di sudore. Improvvisamente avverto un
fruscio tra le foglie, e poi un rumore di rami secchi spezzati. Mi
volto di scatto, ma non trovo nessuno. Il cuore comincia a battere
sempre più forte, tanto che credo stia per fuoriuscirmi dal
petto. Quando mi giro di nuovo per proseguire il cammino, scorgo tra
gli alberi un bagliore luminoso. Mi avvicino e noto che, sul tronco di
uno di essi, è attaccato uno specchio. Chiudo gli occhi e mi
umetto le labbra per cercare di ritrovare il controllo, ma quando li
spalanco di nuovo, nello specchio è riflessa
l’immagine agghiacciante di lui, l’assassino e
padre di Abigail.
Nello specchio
c’è Garrett Jacob Hobbs.
Indietreggio
spaventato e di colpo lo specchio esplode, riversando al suolo un
mucchio di cocci acuminati. Cado a terra e mi copro il viso con il
braccio, mi rialzo e incespicando inizio a correre, ma il bosco sembra
stringersi attorno a me e su ogni pianta vedo un frammento di specchio
con riflesso all’interno una parte di Garrett Jacob Hobbs.
Continuo a
correre fino a quando i muscoli delle gambe non iniziano a dolermi, ed
il fianco sinistro è attraversato da una fitta di dolore
simile ad una pugnalata. Mi fermo e mi accascio sulle ginocchia per
riprendere fiato. Provo ad inspirare dal naso ed espirare con la bocca,
ma sono ancora troppo scosso. Solo allora mi accorgo di essere finito
sul ciglio di un crepaccio tra due montagne.
E davanti a
questo c’è di nuovo lui, Garrett Jacob Hobbs, che
se ne sta lì, fermo, aspetta quieto che io finisca
nell’abisso insieme a lui.
Il respiro mi
si mozza in gola, il cuore batte convulsamente in tonfi sordi ed
irregolari, sono completamente irrigidito. Il volto di Garrett
è pallido e spettrale sotto i raggi della luna, le labbra
bluastre ed esangui tirate in una smorfia inespressiva, gli occhi
coperti da una patina lattiginosa che lascia intravedere
l’iride azzurra ormai spenta e vuota. I vestiti sono sdruciti
e sul petto si allarga una macchia che la luce notturna rende nera, ma
che in origine era scarlatta. Il punto dove gli ho sparato.
“Cosa
vuoi da me?” domando ancora ansimante, e lui replica con le
mie stesse parole.
“Ti
ho chiesto cosa vuoi da me!” lo incalzo, ma continua a
ripetere.
“Tu
sei morto.” Affermo in un sussurro, conscio che tutto questo
sta accadendo nella mia testa.
“Tu
sei morto.” Ricalca lui.
“Tu
sei Garrett Jacob Hobbs. Io ti ho ucciso, non sei vivo, non sei reale.”
Il suo sorriso
si allarga e quando apre la bocca per parlare mi arriva una pesante
zaffata di decomposizione.
“Tu
sei Garrett Jacob Hobbs.” Continua atono.
“No,
ti sbagli, io sono Will Graham.” Ripeto convinto.
“Hai
visto il riflesso allo specchio. Tu sei Garrett Jacob Hobbs. Tu sei un
assassino.”
“No!
Io ti ho ucciso, ma non ho mai torto un capello a nessun
altro!” esplodo e sento la rabbia invadermi.
“Tu
hai ucciso Georgia ed Abigail. Loro sono morte, ed è colpa
tua.” I suoi occhi vacui mi trafiggono come dardi ghiacciati.
Cado
all’indietro e mi porto le mani alla testa.
Georgia ed
Abigail sono morte davvero per causa mia.
Sono morti
tutti per causa mia.
Un singhiozzo
mi annoda la gola e le lacrime cominciano a scendere, disegnando
arroventate scie sulle mie guance.
“Io
le ho uccise, io sono Garrett Jacob Hobbs.” Esalo tra un
singhiozzo e l’altro.
“Tu
sei Garrett Jacob Hobbs.”
Mi sollevo di
nuovo in piedi e mi fisso le mani.
Sono lorde di
sangue che provo a pulire con furia sulla maglia, ma questo resta
sempre lì e non va’ via.
Non
andrà mai via.
Fisso il
precipizio e poi Garrett Jacob Hobbs. Stende il braccio e mi indica il
burrone. Annuisco. Questa è l’unica cosa da fare,
assicurare un assassino alla giustizia. Corro e salto nel vuoto.
Ed
è di nuovo il buio.
*
Quando mi
sveglio un senso di stordimento mi pervade. Provo a sollevare il busto,
ma un capogiro violento mi costringe ancora a terra. Non appena
realizzo di sentirmi un po’ meglio, riprovo ad alzarmi e ci
riesco. Sono all’interno di una caverna, o meglio, una
caverna sotterranea. Alzo gli occhi ed intravedo un’ uscita
più in alto. Non perdo nemmeno tempo a chiedermi come sono
arrivato qui, cosciente di vivere in un incubo che non si è
ancora concluso. Devo solo sperare di riuscire a svegliarmi presto.
Studio le pareti della grotta e, al tatto, le trovo molto umide e
scivolose; fortunatamente vi sono delle forti radici di alberi alle
quali posso aggrapparmi per risalire. Abbasso lo sguardo e mi accorgo
di avere i piedi nudi e coperti di fango, le mani presentano le unghie
spezzate e le nocche scorticate.
Non me ne curo
più di tanto e comincio la risalita.
Quando
riemergo la nebbia bassa avvolge la terra morbida e coperta di foglie
di una foresta di alberi malati, grigi e dalle cortecce cadenti. Non
è più buio, ma non credo sia nemmeno giorno,
è molto difficile dirlo. Questo è un luogo che
sembra essere sospeso in una dimensione al di là dello
spazio e del tempo.
Dominano solo
il bianco del cielo e della neve che ricopre la terra. I miei piedi la
calpestano e la sento scrocchiare, però non avverto il
freddo. Mi accorgo di aver totalmente perso la sensibilità
in quella zona. Continuo a camminare immerso in una quiete ed un
silenzio innaturali ed opprimenti. Tra la massa degli alberi ne
distinguo due che sono bianchi, ma di un bianco strano, artificiale,
come se tutto il fusto fosse stato verniciato.
D’un
tratto il legno inizia a spaccarsi e da questi due alberi fuoriescono
le figure di Georgia Madchen e di Abigail Hobbs. Sono entrambe vestite
con una lunga tunica bianca quasi quanto il colore della loro pelle.
“Tu
sei colui che vede. Colui che vendicherà le vergini
maledette nate per il male, messe al mondo e buttate nella
sventura.” Esordiscono in coro.
“Io
non…” provo a parlare ma le parole si bloccano in
gola.
“Per
inganno morimmo proprio come uccidemmo.”
“Sono
stato ingannato anche io e mi…mi dispiace. Non avrei voluto
che finisse così.” Ammetto, con lo sguardo basso e
i pugni stretti.
“Tu
sei colpevole della nostra morte, Will Graham. Non perché ci
hai ucciso, ma perché siamo state uccise a causa
tua.” Continuano loro.
“Che
significa a causa mia?” domando con sospetto.
“Non
l’hai ancora capito? L’hai dimenticato? Noi siamo
le vittime di un piano più grande, creato su misura per
te.”
Dimenticato…no,
io non l’ho dimenticato affatto. I pezzi sono riuscito a
rimetterli insieme, nonostante la mia mente provata.
“Io
sono riuscito a vederlo.” Affermo, e il ricordo mi procura
una fitta di odio che mi costringe a serrare la mandibola.
“L’uomo
senza volto.” Dice Georgia.
“L’uomo
con indosso l’ingannevole maschera della
virtù.” Prosegue Abigail.
Ed in quel
momento le loro ferite si aprono. La gola candida di Abigail comincia a
squarciarsi con un taglio che zampilla sangue che le macchia la tunica
immacolata. Lei si tocca l’orecchio ma trova solo un foro
grondante anch’esso liquido cremisi. I capelli le si
appiccicano sulla ferita, ma lei non dice niente, resta ferma mentre
continua a dissanguarsi. Il corpo di Georgia invece inizia a
carbonizzarsi a causa delle neonate fiamme che lo avvolgono. La pelle
si stacca e l’aria viene pervasa dall’odore della
carne bruciata mista al sangue di Abigail.
“Lui
sta arrivando.” Mi dicono sempre parlando
all’unisono.
“Chi
sta arrivando?” chiedo, mentre agitazione ed inquietudine si
fanno strada nel mio animo.
“L’uomo
dal corpo nero e le corna di animale. Arriva, Will Graham. Arriva
Moloch coperto di sangue di innocenti. Devi svegliarti.”
A quel comando
apro gli occhi e mi ritrovo nella mia cella.
Sulle labbra
aleggia ancora l’ombra ributtante di un nome che, sono certo,
pronuncerò di nuovo molto presto.
***
Jack Crawford
parcheggiò l’auto nell’ampio spazio
coperto di ghiaia antistante la casa, e si avviò poi a passo
deciso verso l’ingresso. Si strinse nel cappotto pesante e
calò bene il cappello a tesa larga- che gli dava
l’aria di un consumato detective dei film degli anni
’30- sulle orecchie. Bussò alla porta ed attese
che fosse aperta.
Dopo pochi
minuti comparve sulla soglia il dottor Lecter, armato della sua solita
espressione di calma freddezza, anche se a Jack parve di scorgere
qualcos’altro, un’emozione che non
riuscì ad identificare, poiché durò il
tempo di un battito di ciglia.
“Jack,
un’insolita ora per farmi visita.”
Esordì il medico.
“Mi
scusi dottor Lecter, è che…”
l’agente non riuscì a trovare le parole adatte.
Hannibal gli diede un’occhiata fugace e comprese i suoi
pensieri.
Jack era
lì perché aveva bisogno di parlare di Will.
“Non
c’è bisogno di spiegazioni, capisco perfettamente.
Prego, entri.”
La casa di
Hannibal era un luogo caldo ed accogliente, a Jack piaceva
perché trasudava eleganza e raffinata cultura da ogni
piccolo anfratto e rispecchiava totalmente il carattere serafico del
proprietario.
Si accorse in
quel momento del crescendo di note che proveniva da un giradischi posto
su un tavolino d’ebano.
“Mi
scusi, lo spengo subito.” Disse Hannibal, che intanto si era
recato verso un mobile bar da quale aveva preso una bottiglia da
offrire al suo inaspettato ospite. “No, non mi infastidisce.
È il
Confutatis Maledictis di Mozart,
vero?”
Il dottore
annuì.
“Una
strana scelta. Non è un’opera propriamente
rilassante.” Osservò Jack accennando un sorrisetto.
“Confutatis
maledictis, flammis acribus addictis, voca me cum benedictis. Condannati i
maledetti, gettati nelle vive fiamme, chiama me tra i
benedetti.” Tradusse lo psichiatra pacato.
“È
per Abigail, o per Will?” domandò Jack, che nel
frattempo aveva preso posto su una delle sedie accostate al tavolo.
Hannibal
rifletté un attimo, poi si avvicinò e gli porse
un bicchierino colmo di un pregiato liquore. Si sedette e si
lisciò il pantalone del completo sartoriale che aveva ancora
indosso dopo la cena con la dottoressa Du Maurier.
“Per
entrambi. La Messa di Requiem in Re minore K 626 mi è
sembrata la scelta più adatta; ci sono slancio, dolore,
turbamento, oscurità e sconfitta.”
“Sconfitta…”
ripeté Jack bagnandosi le labbra con la bevanda offertagli
dal dottore. “È proprio così che mi
sento. Dopo aver assistito al crollo di Will, dopo aver visto
ciò che è diventato…ciò che
stava per fare anche a lei, io…non credevo possibile che
fosse capace di compiere atti tanto brutali e folli.”
Hannibal
osservò il capo dell’unità di analisi
comportamentale: il suo viso appariva tirato e stanco, ed era scritta a
chiare lettere la sofferenza che provava nell’essere stato
colui che aveva arrestato un uomo che considerava suo amico. Ed era
altrettanto palese il senso di colpa che provava per averlo spinto al
limite, trattandolo alla stregua di un’auto da corsa in un
crash test.
“La
follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed
è presente come lo è la ragione. Il problema
è che la società, per dirsi civile, dovrebbe
accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una
scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo
di eliminarla.” Dichiarò Hannibal con una nota di
irritazione nella voce.
“Non
l’avevo mai sentita parlare quasi con disprezzo del suo
lavoro, dottore.” Commentò Jack sorpreso.
“Lei
non disprezza mai il suo?”
Jack
sollevò debolmente l’angolo delle labbra.
“Sì,
mi capita di odiare ciò che faccio. Ma poi penso che con il
mio lavoro ho la possibilità di assicurare assassini alla
giustizia. Penso che valga il rischio, non crede? Specie se questa
follia è la causa di tante morti premature.”
“Certo,
comprendo bene. Sa, la sanità mentale necessita della follia
per la propria stessa sopravvivenza e in condizioni normali chi
è sano di mente cerca di conseguenza di procurarsi forme
temporanee delle sue più piacevoli manifestazioni: dalla
leggera euforia che procurano cose semplici come cerimonie in pompa
magna, promozioni, feste e balli, agli stati non altrettanto salutari
indotti dall'alcool, dalle droghe e da altre sostanze che alterano la
coscienza. Will non ha mai avuto bisogno di cercare queste cose al di
fuori, poteva trovarle benissimo dentro di sé, grazie alla
sua empatia prima, e allo sviluppo dell’encefalite
dopo.”
“Ma
lui non godeva delle sensazioni che provava.”
Obiettò l’agente. “Per lui tutto questo
è stato un dono ed una maledizione. Anzi, direi solo la
seconda.” Concluse dando un altro sorso al drink.
Qualsiasi cosa
Hannibal stesse provando, non lo diede a vedere. Rimase stoicamente
fisso nella sua imperturbabilità. Dopo aver bevuto anche
lui, parlò di nuovo.
“Anni
di scienza hanno permesso di comprendere che il cervello riconosce e
condivide gli stati emotivi tramite un meccanismo a specchio in cui le
stesse aree cerebrali si attivano sia nel caso
dell’osservazione di un’emozione, sia nel caso
della sua effettiva esperienza. Tale meccanismo coinvolgerebbe quelli
che vengono chiamati neuroni specchio. È stato proposto che
i neuroni specchio agiscano da generatori di rappresentazioni interne
che conducono al riconoscimento e alla comprensione del significato
degli atti altrui. Se applicato alla sfera delle emozioni, il
meccanismo a specchio renderebbe immediatamente disponibile nel
cervello la riproduzione dello stato emotivo osservato, consentendo
così di comprendere in modo diretto le emozioni degli altri.
Questa situazione, portata all’estremo ha fatto smarrire la
vera coscienza di sé e dei propri atti a Will, che si
è perso negli altri sé che ha dovuto esplorare.
Immagini come deve essere stato, per lui, condividere la mente con
quella dei molti assassini sui quali ha indagato. Ed io sono arrivato
troppo tardi per aiutarlo.” Hannibal guardò
attraverso la finestra, stavolta mostrandosi vinto ed abbattuto dagli
eventi di quegli ultimi giorni.
Il dottore
provava rimorso per Abigail, ma sapeva che lei non era
nient’altro che un pedone da sacrificare per preservare un
pezzo molto più importante. Si era fatta docilmente guidare
verso il suo destino, e l’aveva aiutato a realizzare un
progetto più grande con protagonista Will.
E alla fine
aveva vinto, eccome se l’aveva fatto; aveva tessuto un piano
elaborato così meticolosamente che nessuno sarebbe mai
potuto risalire a lui.
Tutti quelli
che sapevano qualcosa erano ormai stati omaggiati.
Ogni parte di
loro aveva ricevuto i giusti onori, trasformandosi in una delicata
pietanza dal sofisticato nome, accompagnata da un vino dal bouquet
ricco e profumato. Erano diventati arte attraverso il cibo, gioia per
tutti i tipi di palato, da quelli più volgari, fino ai
gourmet.
La loro
miserabile vita aveva trovato uno scopo più alto.
E la mente di
Will…con lui si era divertito a giocare al gatto col topo.
All’inizio lo aveva incuriosito, una mente così
simile alla sua, in grado di poter competere con qualsiasi criminale,
era troppo bella per essere distrutta, almeno non senza analizzarla.
Così aveva trovato il modo per continuare a studiarlo nel
proprio elemento, ossia diventando il suo psichiatra e consulente per i
delitti. Ed infine era riuscito ad espugnarla, accartocciarla,
plagiarla e piegarla alla sua volontà.
Ma
inaspettatamente Will aveva reagito, aveva scoperto il piano.
Adesso che
aveva consegnato nelle mani della giustizia il
“vero” Squartatore di Chesapeake, cosa avrebbe
dovuto fare? Non c’era assolutamente alcuna
possibilità che lui venisse scoperto, di questo era
assolutamente sicuro.
“Siamo
arrivati tutti troppo tardi per lui, dottore.” Disse Jack
interrompendo il filo dei suoi pensieri. “Accade che talvolta
ciò che è pauroso sia un bene e debba restare,
assiso, a vigilare sulle menti degli uomini, recita il coro nel finale
delle Eumenidi, l’ultimo dell’Orestea, la trilogia
di Eschilo.” Citò l’agente, e
posò il bicchiere sul tavolo.
“Questo
motto la consola, Jack?” chiese Hannibal con
curiosità.
“No,
ma mi da speranza.” Confessò l’altro.
Si guardarono
ancora un minuto, la musica era ormai arrivata al movimento finale Lux
aeterna
del Communio.
“Splenda
ad essi la luce perpetua, Signore, con i tuoi santi in eterno,
poiché tu sei Pietoso. L'eterno riposo dona loro, Signore, e
splenda ad essi la luce perpetua.” Dopo aver pronunciato
queste parole, Jack si alzò e si avviò verso la
porta, seguito dal dottore.
“Amen.”
Rispose Hannibal aprendogliela. “Jack, domani
verrò alla prigione, spero non sia un problema.”
Annunciò lo psichiatra.
“Non
credo sia una buona idea…” provò a
protestare, ma Hannibal lo interruppe prontamente.
“Devo
dire addio a Will.” Gli confidò in un tono che non
ammetteva un rifiuto.
“Capisco.”
Continuò l’agente senza più opporsi.
“Allora ci vediamo lì. Arrivederci, dottor
Lecter.”
“Arrivederci,
Jack.”
***
Il suono
stridulo della sirena della porta metallica annunciò
l’arrivo di un visitatore. Il dottor Hannibal Lecter
varcò la soglia del corridoio dell’Ospedale
psichiatrico criminale di Baltimora e chiuse gli occhi.
Inspirò l’aria attorno a sé, carica di
follia omicida, medicinali, sudore, sangue e delirio. Riconobbe subito
quel particolare profumo che era sempre stato di Will. Un odore che
aveva sempre oscillato tra consapevolezza e irrazionalità,
tra voglia di combattere i suoi demoni e di lasciarsi fagocitare dal
loro mondo oscuro, tra il sentirsi cadere ed il voler rimanere
appigliato ad un qualsiasi stralcio di realtà.
Will era
così…unico.
Così
spezzato, così incompleto.
Fece pochi
passi e lo vide seduto sulla sua branda, a capo chino, con le mani
intrecciate dinanzi a sé.
“Salve
Will.” Esordì.
L’uomo
si alzò e con gesti lenti si avvicinò alle sbarre
della cella.
Si fissarono
per un momento, e nei suoi occhi Hannibal lesse un determinato e feroce
desiderio di vendetta e di giustizia.
“Salve,
dottor Lecter.” Rispose fermo.
Hannibal non
poté fare a meno di sorridere.
La partita era
ancora aperta.
Lacrimosa
dies illa,
qua resurget ex favilla
judicandus homo reus.
Huic ergo parce, Deus.
Giorno di lacrime, quel
giorno,
quando
risorgerà dal fuoco
l'uomo reo per essere
giudicato.
Ma tu risparmialo, o Dio.
***
Fanfiction
ispirata da questa immagine Il
rimorso di Oreste di William-Adolphe
Bouguereau, e scritta sotto la pesante influenza del Requiem in
Re minore
di Wolfgang Amadeus Mozart. Le parti in latino sono, appunto, tradotte
dal Requiem. Moloch è sia il nome di un dio, sia il nome di
un particolare tipo di sacrificio storicamente associato al fuoco.
Moloch è stato storicamente associato con culture di tutto
il Medio Oriente, tra cui gli Ebrei, gli Egizi, i Cananei, i Fenici e
culture correlate nell'Africa settentrionale e nel Vicino Oriente. Oggi
il termine "Moloch" viene usato in senso figurato per designare
un'organizzazione o una persona che domanda o richiede un sacrificio
assai costoso. Le citazioni propriamente mediche, sono invece tratte
dei miei libri di studio.
Ovviamente
questi personaggi non mi appartengono, ma sono di proprietà
di Thomas Harris e del network NBC. Questa storia è scritta
senza scopo di lucro.
Niente di che,
ieri è stato il mio primo giovedì senza Hannibal,
e la tristezza ha prodotto una sorta di missing moment/
reinterpretazione del finale della prima stagione.
Spero abbiate
apprezzato :)
Buon
proseguimento e a presto!
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