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Una lunga serata di
attese
- Remus
Lupin
La stanza al piano di sopra della
graziosa casetta di mattoni era piccola e completamente immersa nell’oscurità.
Tutte le lampade e le candele erano state spente. Accanto alla porta c’era un
grosso baule marrone, in cui erano stati riposti vestiti, libri, pergamene,
inchiostri e tutto il necessario per la partenza del giorno dopo. In una piccola
gabbia su un trespolo, una graziosa civetta dormiva pesantemente. Dal piano di
sotto salivano l’inconfondibile profumo di arrosto e patate, e il brusio
indistinto delle voci di due persone che parlavano tra di loro. Le tende della
finestra sopra ad un letto erano aperte, lasciando entrare la luce argentea
della luna, che aveva passato da due giorni il plenilunio.
Disteso sul letto, un ragazzino di
undici anni, gracile ed emaciato, dai capelli castani e con una profonda
cicatrice sul viso, respirava con calma, assaporandosi la quiete della sua
cameretta per l’ultima sera. Era ancora convalescente a causa delle brutte
nottate appena passate, come accadeva ogni mese.
Il suo sguardo cadde sul baule
dall’altra parte della stanza, e si chiese se davvero stesse facendo la cosa
giusta. L’indomani sarebbe partito per cominciare la sua formazione a Hogwarts,
la rinomata Scuola di Magia e Stregoneria, che sarebbe durata sette anni. Ma se
tutti i ragazzi, che come lui avrebbero frequentato il primo anno, in quel
momento si stavano interrogando su quale casa avrebbero occupato dopo lo
smistamento, i suoi pensieri erano invece di tutt’altro genere. Era terrorizzato
dall’idea che qualcuno potesse venire a conoscenza del suo segreto. Dopotutto,
non era certo una novità che la comunità magica non vedesse affatto di buon
occhio i lupi mannari.
Pensò che erano passati sei anni
da quando era stato infettato, e la sua mente corse rapida a quella sera. Allora
era solo un bambino di cinque anni, che si stava divertendo nel giardino della
casa in campagna dei suoi nonni in una calda notte di luna piena. E senza alcun
preavviso, dai cespugli era apparsa una creatura coperta di peli che in una
frazione di secondo gli si era scaraventata addosso.
Era straordinario come ancora
ricordasse alla perfezione i dettagli e le sensazioni di quel momento: il
nauseabondo odore della creatura di sudore rappreso e sangue fresco, la stretta
delle mascelle sul suo piccolo torace che gli mozzavano il fiato, il calore del
sangue che scorreva via dal suo corpo lacerato, l’alito rovente della bestia
sulle sue ferite…
Poi tutto era molto confuso nella
sua mente, come i ricordi di un sogno sbiadito: un raggio di luce rossa sopra la
sua testa… le lacrime disperate di sua madre… il soffitto bianco dell’ospedale
San Mungo… una forte e indomabile rabbia che cresceva dentro di lui…
E dopo quella notte la sua vita e
quella dei suoi genitori non erano state più le stesse. I guaritori dissero che
non c’era niente che si potesse fare a quel punto; che gli effetti del morso
erano irreversibili, e che da allora sarebbe stato un licantropo. E da quella
notte, ad ogni plenilunio, di sera veniva portato in cantina e rinchiuso lì fino
alla mattina dopo, dove si risvegliava stanco e stremato, con i vestiti lacerati
e coperto di graffi, senza ricordare nulla della notte passata.
Odiava il suo stato di mannaro. Lo
odiava a morte. Non aveva amici ed era estremamente riservato, perché sapeva che
nessuno doveva venire a conoscenza del suo “problemino”. Spesso aveva desiderato
con tutte le sue forze che quella notte non fosse sopravvissuto all’attacco,
perché era meglio essere morti piuttosto che vivere in quella maniera.
Anche i suoi genitori la pensavano
così, ne era certo. Non perché gli avessero mai detto o fatto pesare in qualche
modo il suo “problemino”, ma lo vedeva che erano stremati e sapeva che era così;
lo percepiva da tante cose. Lo percepiva dai loro volti stanchi e invecchiati,
da alcuni sguardi fugaci che coglieva, dalle lacrime di sua madre nel cuore
della notte. L’aveva percepito quella mattina che era stato ritrovato fuori
dalla cantina, addormentato nel pollaio completamente distrutto, coperto di
piume di gallina. L’aveva percepito quando si era svegliato e aveva saputo che
durante la notte sua madre era stata portata all’ospedale a causa di una ferita
ad un braccio, della quale non gli avevano mai spiegato come se l’era
procurata.
E il giorno che arrivò la sua
lettera per Hogwarts non fu affatto un giorno felice, come in realtà dovrebbe
essere per ogni giovane mago. Sapeva già da tempo che non avrebbe frequentato e
che sarebbe stato istruito a casa, perché era la soluzione più sicura per tutti.
Tuttavia questo non gli impedì di provare una forte stretta allo stomaco mentre
guardava suo padre che rispondeva al Preside, spiegando che il figlio non
sarebbe partito.
Quando poi, una settimana dopo, il
Preside Albus Silente si presentò inaspettatamente alla porta di casa loro fu
una vera sorpresa per tutti. Il Preside era un uomo anziano, dalla lunga barba
argentata. Indossava una tonaca lilla con semplici ricami dorati, un mantello da
viaggio viola e babbucce dorate. Sopra al naso, che sembrava rotto da tempo, un
paio di occhiali a mezzaluna coprivano due vispi occhi di un azzurro-ghiaccio.
L’uomo era venuto a chiedere spiegazioni sul motivo per il quale il ragazzo non
avrebbe frequentato, e quando i suoi genitori, dopo un po’ di incertezza ed
evidentemente irritati, dissero il perché della loro decisione, lui fece un
leggero sorriso e disse:
< Ma è soltanto questo che vi
preoccupa? Be', in tal caso non c’è alcun motive per cui il ragazzo non dovrebbe
essere istruito ad Hogwarts. Non è certo il primo licantropo che frequenta: in
passato anche altri con il suo stesso problema sono stati ammessi, e la scuola
ha garantito la massima sicurezza. Se temete per la sua incolumità e non volete
che gli altri alunni sappiano della sua situazione lo posso capire, ma lasciate
fare a me. Mi occuperò io di tutto, e vi garantisco che nessuno saprà niente; a
meno che, è ovvio, non sia vostro figlio stesso a rivelarlo >.
Poi si rivolse a lui e disse:
< Allora pare che ci vedremo
molto presto, ragazzo. Stai tranquillo, ti troverai benissimo a Hogwarts, tra
ragazzi della tua età. E sono certo che ti farai ottimi amici >.
Dopo di che salutò cordialmente la
famiglia e uscì di casa, lasciando tutti perplessi.
I genitori stettero alcuni giorni
a riflettere sul da farsi, e infine decisero di lasciarlo partire. Così il
giorno seguente, lui che non era quasi mai neanche uscito di casa senza avere
almeno uno dei suoi genitori accanto, sarebbe partito per stare lontano un anno.
E la cosa non lo entusiasmava neanche un po’. Da una parte era felice, perché
tutti sanno che la scuola di Hogwarts è la migliore che ci sia per formare un
mago alla perfezione, specie da quando Albus Silente era stato eletto Preside.
Ma dall’atra era certo che non sarebbe stato affatto bene lì; sapeva che non si
sarebbe fatto neanche un amico, e sperava con tutte le sue forze che nessuno mai
venisse a conoscenza del suo “problemino”.
< Remus, la cena è pronta
>.
La voce di sua madre lo scrollò
dai suoi pensieri.
< Arrivo >.
Scese dal letto. Dalla finestra si
vedeva benissimo l’opale imperfetto della luna. Remus stette un attimo a
guardarla, come in segno di sfida. Poi chiuse le tende con uno strattone e corse
fuori dalla camera.
ef
- James
Potter
I Potter vivevano a Godric’s
Hollow da molte generazioni; talmente tante, che nemmeno loro avrebbero saputo
dire quante. Erano una tranquilla e benevola famiglia di maghi, che amava la
serenità e la pace. Malgrado vantassero una lunga genealogia di maghi e streghe
nel loro passato, e fossero decisamente benestanti, la comunità magica non si
era mai interessata a loro più del necessario; e la cosa era molto gradita ai
Potter.
Il signore e la signora Potter
avevano un unico figlio, James, che era il loro orgoglio e la loro gioia più
grande.
Il ragazzo era venuto alla luce
quando i suoi genitori erano già avanti con gli anni e si erano da tempo
rassegnati all’idea di non avere un figlio. Perciò la sua nascita fu come
ricevere un miracolo. Sin da bambino, James era stato coccolato e viziato più di
quanto si potesse immaginare. Ogni desiderio del figlio era un ordine per gli
amorevoli genitori; ogni suo più piccolo capriccio veniva esaudito.
La camera di James era talmente
colma di giocattoli e oggetti vari, che non si riusciva nemmeno a camminare lì
dentro. Era il sogno di ogni piccolo mago. C’erano palle auto-rimbalzanti,
fionde stregate, costruzioni che si assemblavano da sole, montagne di fumetti e
riviste, sacchetti di gobbiglie, una riproduzione su scala di un campo da
Quidditch con tanto di personaggi animati, tutti i pupazzi dei giocatori dei
Cannoni di Chudley, la sua squadra preferita, un bellissimo manico di scopa…
Aveva persino giocattoli babbani.
Era decisamente un bambino molto
viziato, e anche piuttosto dispettoso. Il suo passatempo preferito era andare in
giro per il paese con i suoi amici e fare scherzi a chiunque. Il loro bersaglio
prediletto era la signora Bathilda Bath, un’anziana maga in pensione che viveva
non lontano da casa sua. Gliene facevano di tutti i colori, lui e i suoi amici.
A volte d’estate, quando i ragazzi più grandi tornavano dalle scuole, passavano
i pomeriggi a giocare a Quidditch in una zona isolata vicino al paese, per non
farsi vedere dai babbani. Era un vero patito per il Quidditch, James, e se la
cavava anche piuttosto bene.
Aveva ormai undici anni, e i
genitori non riuscivano a credere che il giorno dopo sarebbe partito per
Hogwarts. La sola idea di separarsi dal loro piccolo li riempiva di tristezza.
Lui invece si sentiva il ragazzo
più felice del mondo, e non stava più nella pelle. Già dal giorno prima aveva
preparato il grande baule in cui aveva sistemato dentro tutto il necessario ed
il superfluo, lasciando fuori solo l’occorrente per il viaggio in treno, e lo
aveva messo accanto alla porta d’ingresso, per non perdere tempo il mattino
dopo. Aveva deciso di non portarsi alcun animale domestico, dato che secondo lui
non era alla moda possederne uno. Aveva scelto con molta cura cosa indossare,
prima di cambiarsi con l’uniforme, perché voleva fare una splendida impressione
a tutti.
Sarebbe finito nella casa di
Grifondoro, ne era più che convinto. Già da due anni aveva attaccato nella
parete della sua camera lo stemma con il leone in campo rosso-oro della casa di
Godric Grifondoro, che aveva da poco scoperto essere nato proprio in quel
paesino. E, inoltre, sua madre, suo padre e i suoi nonni erano tutti stati in
quella casa durante la scuola. Sperava con tutto se stesso di entrare a far
parte della squadra di Quidditch della casa, magari come battitore o, ancora
meglio, come cercatore…
Stava leggendo una rivista sui
Cannoni di Chudley nel grazioso salotto di casa, con suo padre seduto a una
scrivania a controllare le spese dell’ultimo mese e sua madre sprofondata in una
poltrona a sferruzzare a maglia, quando il suono di una campanella proveniente
dalla cucina annunciò l’ora di cena. I tre si diressero nella sala da pranzo.
Passando accanto ad un antico specchio dalla cornice d’argento, James diede uno
sguardo al suo riflesso: era magro, non molto alto, con gli occhi marroni
nascosti da un paio di occhiali e indomabili capelli neri. Quei capelli sempre
scompigliati erano l’unica cosa che non sopportava di se. Ci passò
distrattamente una mano e andò a sedersi a tavola. Un elfo domestico dagli
enormi occhi azzurri portò in tavola la cena.
< Mamma, ma si mangia bene a
Hogwarts? >
< Oh, da quel che ricordo si
mangia benissimo > rispose la madre con entusiasmo. < Il cibo viene
smaterializzato dalle cucine direttamente sulle tavole nella Sala Grande. Ed è
sempre ottimo ed abbondante >.
James sorrise soddisfatto della
risposta, e si gettò sulla sua zuppa, assaporandola a grandi bocconi.
< Ma sei proprio sicuro di non
voler portare Willow con te? > chiese suo padre.
< Stai scherzando, pa’? >
rispose un po’ irritato il ragazzo. < Con quel vecchio gufo farei di sicuro
una figuraccia! Te l’ho già detto: portare degli animali non va di moda. E poi
sarà più utile qui a casa, se vi andrà di scrivermi qualche lettera >.
< Tesoro, mi raccomando, cerca
di non combinare guari > disse sua madre, un po’ preoccupata. < Non fare
dispetti agli altri, come al tuo solito. Anche oggi la signora Bath è venuta qui
a lamentarsi perché hai fatto diventare il suo gatto arancione… >
< Ma quello era solo uno
scherzetto innocente, un modo simpatico per salutarla. E comunque, mamma, stai
tranquilla. Sarò un angioletto > disse James, mettendo fine alla discussione,
e abbassando la testa sul piatto per nascondere il sorriso beffardo che gli era
apparso sul viso.
ef
- Lily
Evans
< Mi passi il sale, tesoro?
>
< Eccolo, cara >.
< Mamma, c’è dell’altro
polpettone? >
< No, Petunia, mi spiace
>.
< Se vuoi puoi prenderne un po’
del mio, Tunia. A me non va più >.
< No, grazie Lily >.
< Perché non mangi, piccola?
Sei nervosa per domani? >
< Be’… in effetti… un po’ si.
Insomma, non ho idea di quello che devo fare! Non so quasi niente del mondo dei
maghi. Non so nemmeno come fare a raggiungere il binario nove e tre quarti per
prendere il treno! >
< Caro, in effetti è piuttosto
strano. Voglio dire, non credo che esista un binario contrassegnato da questo
numero alla stazione di Londra >.
< Stai tranquilla, cara, sono
certo che lo troveremo, in un modo o nell’altro. Hai visto, anche quando
dovevamo andare in quel posto… Diagon Alley… per i libri e il resto; alla fine
ce la siamo cavata, dopotutto >.
< Ma si, hai ragione >.
< Oh, mamma, sono così nervosa!
Chissà come sarà una scuola per maghi e streghe? E i professori? E ce la farò a
capire le lezioni? >
< Piccola mia! Sono sicura che
sarai la migliore di tutti. Ma ci pensi, caro? La nostra piccola Lily è una
streghetta… Petunia, dove stai andando? >
< In camera mia >.
< Ma non hai finito… >
< Non ho fame >.
Lily seguì con lo sguardo sua
sorella che usciva dalla sala da pranzo. Era già da un po’ che si comportava in
modo strano. Si alzò anche lei dalla sedia ed andò a bussare alla camera di
Petunia.
< Tunia, sono io. Posso
entrare? >
< No Lily. Lasciami stare >.
< Ma… io volevo solo… >
< Sto bene, sto bene. Sono solo… un po’ stanca. Ci
vediamo domani >.
< Va bene… ‘Notte Tunia
>.
Lily andò in camera sua e si
sedette sul letto. Era triste, perché sapeva che il motivo per cui sua sorella
era così strana in quei giorni era la gelosia verso di lei; per non aver
ricevuto una lettera come la sua.
Infatti, ad agosto era arrivata
una lettera per Lily. Era una lettera scritta su pergamena, con inchiostro
verde. Diceva che lei era iscritta ad una scuola chiamata Hogwarts; una scuola
per maghi e streghe. Inutile dire che la cosa lasciò tutta la famiglia senza
parole. Era vero che a volte le capitavano cose bizzarre, insolite; ma non aveva
mai neanche pensato di poter essere una strega. I maghi e le streghe erano
un’invenzione, personaggi delle favole. Non persole reali!
Si era poi ricordata di quello che
le aveva detto più o meno un anno prima Severus Piton in una calda giornata di
primavera.
Severus era un ragazzino della sua
età che viveva nello stesso paese. Era uno strano ragazzo, alto e magro,
dall’andatura dinoccolata, sempre vestito con abiti vecchi e logori. Aveva i
capelli neri, lunghi e tagliati male, la carnagione chiara e gli occhi scuri e
lucenti come la pece. Un giorno si era avvicinato a lei mentre giocava nel parco
con sua sorella, e le aveva detto che era da tempo che la osservava, e che il
motivo per cui riusciva a fare certe cose strane era perché possedeva poteri
magici, come lui. Petunia lo aveva trattato in malomodo, e aveva trascinato via
la sorella. Da allora non si erano più parlati.
Subito Lily era corsa a cercarlo,
portandosi la lettera con sé, e quando lo trovò lui le disse che aveva ricevuto
una lettera proprio come la sua. Allora la ragazza aveva insistito perché lui le
dicesse tutto quello che sapeva su questa scuola e sulla magia. E, da quando i
suoi genitori avevano acconsentito con esagerato entusiasmo a lasciarle
frequentare la scuola, Lily aveva passato molto tempo in compagnia del nuovo
amico, parlando del mondo dei maghi, delle loro vite, chiedendogli qualsiasi
cosa le passasse per la mente.
Quello sgraziato e taciturno
ragazzino era diventato per lei un tramite per sapere più cose possibili sul
mondo magico, ed il suo migliore amico.
Sua sorella, però, non sopportava
affatto Severus. E non soltanto lui. Non sopportava neanche l’idea di una scuola
per maghi e streghe, o di avere una sorella che sapeva fare magie. Dal giorno
che era arrivata la lettera per Hogwarts, al contrario dei suoi genitori, era
diventata cupa e aggressiva nei suoi confronti.
Solo il giorno prima Lily aveva
capito che si trattava di gelosia nei suoi confronti. Infatti, Severus aveva
trovato in camera di Petunia una lettera: era una risposta del preside di
Hogwarts.
Cara Petunia Evans.
Mi spiace dirti che purtroppo non ti è permesso frequentarela Scuola di Magia e
Stregoneria di Hogwarts.
So quanto deve essere doloroso, e anche
alquanto seccante immagino, veder partire tua sorella Lily verso un mondo a voi
sconosciuto (che ai tuoi occhi deve apparire così eccitante) e non poterne
prendere parte.
Ma, al contrario di lei, tu non possiedi
doti magiche, e quindi sarebbe inutile per te seguire delle lezioni dalle quali
non saresti in grado di apprendere alcunché.
Mi auguro che questo non incrini il rapporto
che hai con tua sorella. Credimi, è davvero molto importante andare d’accordo
con i propri fratelli e sorelle.
Distinti saluti
Albus
Silente
A quanto pareva, Tunia voleva
partire per Hogwarts, e aveva scritto al preside perché le permettesse di farlo,
il quale glielo aveva rifiutato.
In fondo, poi, non era certo una
novità che sua sorella desiderasse avere le capacità di Lily. Glielo aveva
chiesto tante volte di insegnarle a far volare i boccioli di rosa, o a
trasformare gli oggetti, o altri di quegli strani trucchi che a lei riuscivano
così bene. Ma lei non ne era capace; quelle non erano cose che si potevano
insegnare. Le riuscivano così, per caso, senza neanche capire come.
Si sentiva così triste e impotente
per sua sorella. Avrebbe tanto voluto che partisse con lei, ma non poteva fare
nulla. Anche questo signor Silente diceva che non si poteva.
Si alzò dal letto e andò nel
soggiorno al piano di sotto, dove i suoi genitori stavano guardando la
televisione. Si sedette tra loro sul divano di pelle opaca e si lasciò coccolare
come un cucciolo. Quella era l’ultima sera che passava in casa sua, almeno fino
alle vacanze di Natale.
ef
- Sirius
Black
Pioveva a dirotto sul numero
dodici di Grimmauld Place. La casa
di mattoni gridi, con il tetto scuro, appariva elegante e molto curata
dall’esterno. Le uniche due finestre illuminate erano le grandi vetrate del
salotto.
Il salotto era amplio, non molto
luminoso, arredato con mobili antichi ed elaborati. Al centro della stanza c’era
un sontuoso tappeto, ricamato con motivi orientali sulle tonalità del verde,
attorno al quale erano sistemati tre divani di velluto. Su una parete c’era un
enorme camino di pietra grigia, sopra al quale era dipinto un antico stemma di
famiglia. C’erano appesi ovunque molti quadri che ritraevano antenati e
importanti personalità del passato. Su un’intera parete era appeso un enorme
arazzo che raffigurava un grande albero dai rami contorti, e pieno di nomi. Era
l’albero genealogico dei Black, un’antica e importante famiglia di maghi
purosangue. L’arazzo partiva dai primi discendenti della dinastia, fino alle
ultime generazioni.
Nella casa vivevano Orion e
Walburga Black con i loro due figli, Sirius e Regulus, una famiglia molto
rinomata all’interno della comunità magica. La cosa che più contava per loro era
mantenere la purezza del loro sangue, cioè non mischiarsi con coloro che, al
contrario, discendevano da famiglie di Babbani. Non esisteva per loro
un’umiliazione peggiore di un familiare che fraternizzasse con dei mezzosangue
o, peggio ancora, con dei babbani. Coloro che non possedevano poteri magici
erano inferiori e disprezzabili ai loro occhi; persone che non avevano nemmeno
il diritto di esistere.
In quel momento la famiglia era
riunita nel salotto, in compagnia del fratello della signora Walburga, Cygnus,
sua moglie Druella e la minore delle loro figlie, Narcissa. I signori e le
signore discutevano amabilmente sprofondati nei divani, mentre Narcissa
intratteneva il cuginetto Regulus giocando agli scacchi dei maghi. L’unico che
stava in disparte senza parlare con nessuno era Sirius. Se ne stava seduto in
modo scomposto su un’imponente poltrona; i luminosi occhi grigi puntati sulle
figure animate di una rivista di fumetti. I capelli neri come l’ebano, un po’
lunghi, gli finivano di continuo davanti agli occhi, e lui li spostava con un
gesto pigro della mano.
In realtà non prestava molta
attenzione a quella lettura. Era solo un modo per non prendere parte alle
conversazioni della famiglia. Si sentiva sempre fuoriposto quando stava in mezzo
ai suoi parenti e familiari. Li trovava così insopportabili, sempre pronti
com’erano a criticare tutti coloro che avevano nelle vene anche solo una goccia
di sangue babbano.
Sua madre, che gli lanciava
sguardi fulminanti già da un po’, gli disse:
< Sirius, ma insomma. Ti sembra
educato startene lì a leggere quella roba, mentre qui ci sono ospiti? >
Il ragazzo alzò lentamente gli
occhi dal fumetto e li puntò su quelli blu scuro della madre.
< Si, hai ragione, mamma.
Dovrei fare conversazione > disse gentilmente. Poi si rivolse ai suoi zii, e
con un sorriso amabile chiese < Allora, come sta mia cugina Andromeda?
>
Nella stanza calò un silenzio
quasi irreale. I suoi genitori lo guardavano sbigottiti. Gli occhi degli zii,
che erano diventati rossi come il fuoco in volto, erano puntati ostinatamente
sull’elegante tappeto. Vide la cugina Narcissa stringere i pugni e tremare
impercettibilmente, come scossa da un singhiozzo.
Sua madre si alzò dal divano,
imperiosa, e sibilò:
< Ma cosa stai dicendo?
>
< Ho fatto solo una domanda.
Che c’è di male? > chiese Sirius con falso stupore.
< Sai benissimo che non è un
argomento di cui parlare! > rispose la madre, e la sua voce assunse un timbro
più acuto e irritato.
< Perché, scusa? > continuò
Sirius. < È tanto simpatica Dromeda! E Ted, suo mari… >
< Adesso basta! > tuonò sua
madre, esasperata. < Esci subito da questa stanza! Non voglio più vedere quel
tuo viso impertinente fino a domani! >
La stanza calò di nuovo nel
silenzio. Tutti gli occhi erano puntati su di lui. Sirius si alzò dalla
poltrona, senza distogliere lo sguardo da quello della madre. Buttò con un gesto
teatrale la rivista a terra e, lentamente, uscì dal salotto. Si sedette sulle
scale che portavano al piano superiore, soddisfatto di se stesso. Aveva
raggiunto il suo scopo.
Infatti, per lui era una questione
fondamentale provocare ed irritare i suoi genitori, in ogni momento; e sapeva
benissimo che tirare in ballo l’innominabile cugina traditrice del suo sangue
avrebbe scatenato una forte reazione.
Andromeda era la secondogenita dei
suoi zii. Poco meno di un anno prima, la ragazza era scappata di casa per
sposare Ted Tonks, un ragazzo con origini babbane di cui si era innamorata. Da
allora la famiglia l’aveva ripudiata e l’argomento era diventato un tabù. Non
veniva mai nominato il suo nome. Era stato perfino cancellato dall’arazzo nel
soggiorno.
Era proprio questo che Sirius
detestava della sua famiglia: la tremenda ossessione per il sangue puro; il
disprezzo e lo scherno per tutti coloro che erano babbani. Era cresciuto
sentendosi ripetere che non doveva parlare con babbani e mezzosangue, perché
loro erano inferiori, e non ne aveva mai capito il motivo. Disprezzava i suoi
genitori, e disprezzava quanto loro i suoi parenti più stretti: la pensavano
tutti allo stesso modo.
E dopo la partenza di Andromeda li
disprezzava ancora di più. Lei era l’unica dei suoi parenti che tollerava,
l’unica con cui si trovasse in sintonia. Era stato un dolore enorme per lui la
sua partenza. E non riusciva a capire come potessero due genitori ripudiare un
figlio, e fingere che non fosse mai nemmeno esistito, per una cosa tanto
sciocca. Che c’era di male a innamorarsi di un mezzosangue?
Suo fratello Regulus uscì dalla
sala.
< Sei proprio un idiota, Sirius
> gli disse. < Lo sai che non devi parlare di certe cose! Ma che ti gira
per la testa certe volte? >
< Non rompere, Reg. Tanto,
anche tu la pensi come loro >.
< Senti, fai un po’ come ti
pare. Io me ne vado a letto >.
Regulus era del tutto diverso da
lui. Era il figlio perfetto, che non dava mai problemi, che faceva tutto come
andava fatto, che rispettava i genitori. Era sempre stato quello più bravo,
quello più buono… Era Regulus il figlio preferito, mentre Sirius era la pecora
nera. Ma in diverse occasioni, Regulus gli aveva dato una mano per cavarsela coi
suoi genitori in alcune delle sue bravate.
Sirius non odiava suo fratello, ma
non lo sopportava, perché anche lui aveva le stesse idee dei suoi genitori:
l’assurda fissa per il sangue puro.
Ma per sua fortuna, il giorno dopo
sarebbe partito per Hogwarts, e la cosa lo rendeva immensamente felice. Non
perché avrebbe imparato nuove tecniche e incantesimi. Né perché avrebbe
conosciuto persone nuove. Non gli interessava neanche più di tanto sapere in che
casa sarebbe finito, anche perché era quasi certo che sarebbe stato smistato a
Serpeverde, come tutti i suoi parenti.
La cosa che lo rendeva
immensamente felice era passare tutto quel tempo lontano dai suoi genitori.
ef
- Severus
Piton
Severus era disteso nel suo letto
tra le coperte di cotone, nella sua piccola e spoglia cameretta, rigirandosi di
continuo da una parte e dall’altra. Era mezzanotte passata, ma per quanto si
sforzasse, non riusciva proprio a prendere sonno.
I suoi genitori, nella stanza
accanto, stavano di nuovo litigando. Sentiva benissimo le loro grida e le accuse
che si lanciavano l’un l’altra. Ma non era questo che lo teneva sveglio. Quei
due litigavano talmente spesso, che era diventato un’abitudine per lui quel
baccano nel cuore della notte.
Ciò che gli toglieva il sonno era
l’eccitazione per il giorno dopo, quando sua madre lo avrebbe accompagnato alla
stazione di King’s Cross a Londra, dove avrebbe preso il treno che lo avrebbe
condotto ad Hogwarts; la sua futura nuova casa per i prossimi sette anni.
Sognava quel giorno da talmente
tanto tempo, che neanche lui avrebbe saputo dire quanto. Rappresentava ai suoi
occhi una salvezza. Un rifugio lontano dai suoi genitori, pieno di persone come
lui; di maghi e di streghe. Persone che lo avrebbero voluto per quello che era,
che non lo avrebbero trattato da inferiore. Che gli avrebbero mostrato rispetto,
al contrario di suo padre.
E, finalmente, avrebbe finito di
vedere i suoi genitori litigare di continuo. Era praticamente tutta la vita che
assisteva, impotente, a quelle spiacevoli scene familiari.
Suo padre e sua madre erano molto
giovani quando si sposarono. Si erano conosciuti per caso a Londra, e pochi mesi
dopo decisero d’impulso di unirsi in matrimonio. I primi anni del loro
matrimonio erano passati felici e sereni, senza alcun problema.
Fu due anni dopo, quando venne
alla luce Severus, che le cose cominciarono a complicarsi. Il piccolo faceva
accadere cose bizzarre attorno a se. Succedeva a volte che un giocattolo con cui
stava giocando di botto si ingrandisse. Oppure che un pupazzo cambiasse colore o
forma. Suo padre non capiva come questo potesse essere possibile; credeva che il
figlio fosse indemoniato o qualcosa di simile.
Fu allora inevitabile per sua
madre, che fino ad allora aveva taciuto tutto al marito, raccontargli delle sue
origini. Lei, come tutta la sua famiglia, possedeva poteri magici; era una
strega. E il bambino aveva ereditato da lei queste capacità.
La confessione della donna
sconvolse profondamente suo marito. Da allora sua moglie ai suoi occhi era un
mostro, una creatura orribile. Non faceva che rimproverarla e bistrattarla da
mattina a sera. L’accusava di averlo traviato, di averlo ingannato, di averlo legato a
se con le sue fatture.
E suo figlio, per lui non era
altro che uno scherzo della natura, un essere ripugnante come la madre. Non si
avvicinava mai a lui, né gli faceva una carezza ogni tanto, né lo guardava in
faccia. Si comportava come se non fosse neanche suo figlio.
Sua madre, dal canto suo, amava
troppo quell’uomo per andarsene. Non riusciva neanche a pensare di separarsi da
uno dei due. Preferiva subire le infamie del marito, piuttosto che abbandonarlo.
Cercava di occuparsi meglio che poteva del figlio, ma era distrutta e depressa,
e non riusciva a dargli l’amore di cui lui aveva bisogno.
Severus era cresciuto nell’ombra
delle discussioni domestiche. Era diventato un bambino taciturno e solitario,
senza amici e con un’espressione perennemente triste sul volto. Gli venivano
fatti indossare abiti vecchi e malconci, e i suoi capelli, neri come la pece,
erano sempre scompigliati e troppo lunghi. I suoi coetanei lo schernivano per il
suo aspetto ridicolo e trasandato. Era lo zimbello di tutti.
Soffriva terribilmente, perché non
capiva come mai suo padre si comportava così con lui; perché lo detestava tanto.
Se per caso gli capitava di fare una delle sue “stranezze” cercava in tutti i
modi di non farlo sapere a suo padre, che odiava quel genere di cose. Piangeva,
chiuso in camera sua, chiedendosi che cosa avesse di sbagliato; perché proprio
lui doveva essere così… strano e diverso dagli altri.
Un giorno sua madre, per
rincuorarlo, lo aveva portato in un posto chiamato Diagon Alley, a Londra.
Severus si guardava incredulo intorno a sé: c’era di tutto in quel luogo. Era
pieno di negozi che vendevano gli articoli più strani che avesse mai visto. In
una via c’era un negozio che vendeva bacchette magiche. Fuori da un altro
negozio erano esposti moltissimi tipi di calderoni, di tutte le dimensioni e
materiali che si potessero immaginare.
Seduti al tavolino di una
gelateria, sua madre gli parlò dei suoi nonni. Gli disse che discendeva dalla
famiglia Prince, una delle più antiche e nobili casate di maghi e streghe
purosangue che ci fosse nel loro mondo; il mondo dei maghi. Gli disse che doveva
essere orgoglioso dei suoi poteri, perché lo rendevano una persona speciale. A
Severus si aprirono gli occhi su un mondo nuovo ed eccitante.
Sua madre continuò, parlandogli
del mondo magico, delle sue leggi, dei suoi doveri. Gli parlò della ‘Scuola di
Magia e Stregoneria di Hogwarts’, alla quale lui era iscritto dalla nascita, e
che avrebbe frequentato quando avrebbe compiuto undici anni. Gli parlò delle
quattro case, e di come tutta la sua famiglia fosse finita in quella di
Serpeverde.
Severus ascoltava rapito, e un
nuovo orgoglio nasceva in lui. L’orgoglio di non essere un insulso normale
Babbano come suo padre, ma un appartenente alla comunità magica. Voleva
diventare un grande mago, e voleva riuscirci al più presto.
Si fece comprare dalla madre
dei libri di incantesimi per principianti, e passava tutto il suo tempo ad
esercitarsi con semplici trucchi, usando la bacchetta della madre, e a ricreare
pozioni, provocando sempre più le ire del padre. A sette anni riusciva già a
fare incantesimi di un ragazzo di dodici anni.
Non gli importava più se suo padre
non gli dava attenzioni, o se i suoi litigavano per un giorno intero, o se gli
altri ragazzi lo prendevano in giro. L’unica cosa che voleva era compiere presto
undici anni per andare a Hogwarts.
Poi un giorno, quando aveva da
poco compiuto dieci anni, mentre passeggiava per il paese sentì un grido
proveniente da un boschetto vicino. Corse a vedere chi aveva lanciato
quell’urlo, e rimase a bocca aperta quando vide una ragazzina dai capelli rossi
immobile a fissare un grosso ramo sospeso in aria sopra di lei. Quel ramo
l’avrebbe certamente schiacciata, se non si fosse fermato a mezz’aria in quel
modo. La ragazza indietreggiò lentamente, i grandi occhi verdi sempre puntati
sul grosso ramo, che cadde a pochi centimetri dai suoi piedi. Poi, corse via
spaventata, senza notare l’insolito ragazzo che la osservava.
Severus era rimasto di sasso nello
scoprire che Lily Evans, la ragazzina che viveva infondo alla strada, aveva
poteri magici, come lui. Cominciò ad osservarla di nascosto, affezionandosi
sempre di più a quella ragazza che aveva il suo stesso dono.
Un giorno, prendendo un po’ di
coraggio, si rivolse a lei mentre giocava nel parco pubblico con la sorella,
Petunia, e le svelò che il motivo
per cui le accadeva di far succedere strane cose era perché era una
strega. Ma la sua confessione non ebbe l’effetto desiderato: Petunia lo trattò
male, e portò via con sé la sorella.
Poi però, qualche mese prima, Lily
era corsa da lui per confidargli di aver ricevuto una lettera per Hogwarts, e
chiedendogli di parlarle del mondo dei maghi. E così era nata tra loro
un’amicizia.
Per la prima volta, Severus aveva
un’amica, una persona con cui parlare, a cui confidare i suoi problemi, qualcuno
che lo ascoltasse. E non avrebbe potuto desiderare una persona migliore. Lily
era intelligente, dolce, simpatica. In sua compagnia stava passando le giornate
più piacevoli della sua vita.
Era felice, ed era certo che
quella felicità sarebbe continuata ad Hogwarts, dove i due sarebbero andati
l’indomani. Sperava che Lily e lui finissero nella stessa Casa per stare con lei
più tempo possibile, magari a Serpeverde come i suoi parenti.
Senza accorgersene le sue fantasie
si confusero in delicati sogni, e lui si addormentò con una dolce e felice
espressione sul magro e pallido viso.
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